Who’s in Search of Floriano Pirola?
La comparsa nel mio blog del “Tentativo di profilo: Floriano Pirola”, e relative documentazioni, ha prodotto altri particolari che ritengo possano portare avanti la mia ricerca sul soggetto. Le ripetizioni che vi compaiono non mi sembra cambino la struttura di quanto ho cercato di ricostruire in precedenza.
Inizierò con i ricordi di un suo compagno di liceo e amico fin quasi al termine del secolo scorso, quando i contatti fra loro s’interruppero a causa dei continui spostamenti di sede del Pirola. Le sue parole mi hanno spinto ad andar oltre nella mia ricerca. Vi è, infatti, qualcosa in queste considerazioni e valutazioni, estratte dalle carte del loro estensore passate con la sua biblioteca ad uno di quei librai antiquari che rilevano il materiale cartaceo che interessa loro, ma forse ancor più a ricercatori e a collezionisti, che dà la sensazione di trovarsi di fronte ad una vita che sta per toccare il suo nadir.
Ho appreso così di situazioni che per l’uomo della strada rientrano, forse, nella fiction. E che, invece, per qualcuno nella vita di tutti i giorni, a quanto pare, tra queste non rientrano.
E’stato possibile che lo scritto arrivasse a me avendolo egli cucito sopra la copertina del numero 2 della Rivista Libri & Documenti dell’ Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana - Castello Sforzesco – Milano, del 1991, in cui compare la ricerca di Floriano Pirola su Giuseppe Prina: per natura inclinato a sperar bene? Mi è venuto spontaneo chiedermi che motivo potesse avere il suo amico per scegliere proprio il Prina, data la sua orribile fine.
Ma vediamo il testo.
Nel
recto del primo foglio:
“ Questi sono i ricordi di Tusco, (come mi chiama Floriano, da me chiamato Censore) affiorati dal profondo del mio
passato in questi giorni di pioggia in prossimità della fine del Novecento.
e il testo:
Ho incontrato tante persone nel corso della mia vita,
ma Floriano, del quale da più di due anni ho perso le tracce, è uno dei pochi
che abbia lasciato un solco nella mia memoria. E non soltanto per quegli anni
di liceo quando la guerra imperversava, fra contrasti di idee e di paura anche
nei quartieri della città. Anni in cui da lui tutto era considerato sotto vuoto spinto e… in seguito tutto era aria fritta, salvo poche aree culturali non ancora addomesticate. La
causa? Fra coloro che durante la guerra
parlavano e straparlavano di portare democrazia e libertà nel nostro Paese,
quanti sono quelli che, potendo farlo, lo hanno fatto? Demagogi e mendaci!, ripeteva.
Egli, fra l’altro, non ha mai capito perché un
individuo avesse bisogno di un’imposizione, di un ordine per fare ciò che va
fatto, ieri come oggi. Solo perché lui é dotato di uno spiccato senso critico e
di autocritica? O perché a tutti lui attribuiva un’intelligenza reale che non
sviluppavano o non utilizzavano a causa della pigrizia mentale o da quanto inculcato nelle loro menti dalle
istituzioni, da quelle politiche a quelle religiose? Pensavo che ciò fosse
dovuto al fatto che lui si perdeva spesso fra i classici italiani e latini, tra
la filosofia, la scienza e i suoi progressi, alla ricerca non capivo ancora
bene di che cosa. Leggeva, leggeva.
Al liceo si potevano contare, dati i tempi, i
professori che lo avrebbero voluto nella loro classe. Una volta, ricordo, un
suo tema su Enea, considerato dal professore piccola tesi, ineccepibile per la
forma, fu classificato con uno zero perché non teneva conto che nella scuola
esistevano certi limiti che non si dovevano superare. Non capivo, inoltre, come trovasse il tempo
per aiutare qualche compagno in difficoltà nella stesura di un tema:
integralista, altruista… Anche nelle interrogazioni lui superava i limiti
stabiliti dai programmi che sollevavano problemi per l’insegnante.
Imparare a memoria per lui non serviva a nulla. Tanto
che un insegnante di filosofia arrivò a definirlo: un autodidatta costretto in una
aula scolastica. Se così, però, si trattava di un autodidatta spinto da una
bramosia inesausta di conoscere. Aveva già compreso che per acquisire,
approfondire il vero sapere si deve voler andare oltre la scuola.
Ma fu solo più innanzi nel tempo che capii: pensava
troppo con la sua testa e non amava le imposizioni. Spesso un vero guaio nella
vita, soprattutto, per un lontano naturale emulo di Saint-Just, quando si è soli,
non in una rivoluzione e senza un Robespierre. Quindi, predestinato a finire
sotto l’affilata lama di una sia pur moderna vedovella.
Floriano, considerati i tempi, l’ambiente in cui
crebbe, e il punto di cultura al quale è pervenuto, è veramente da considerare
una vittima sacrificale di una società in cui l’apparenza conta più
dell’essere, nella quale le mani son ma
chi pon legge ad esse? e i costumi
declinano ogni giorno sempre più. Non si può dar credito a quelle statistiche
che stanno un gradino sopra le bugie, come i fatti evidenziano.
E non è facile capire un altruista nato che in più
circostanze si presenta inflessibile. Ci
sono voluti, difatti, degli anni perché potessi capirlo. Anche senza conoscere
come lui le lingue vive e morte per le quali era portato. Diceva, invece, di
non essere altrettanto portato per la matematica, ma, per quel che ho potuto
constatare io, non lo era solo nella parte che a lui non poteva servire.
Uno degli ostacoli sulla sua strada è stato anche non
voler rendersi conto che non tutte le persone con le quali aveva a che fare
possedevano il suo stesso background, il suo senso critico e la rapidità di
passare da un argomento ad un altro senza che si creasse un gap nell’
argomentare. Un po’ come per quell’intelligenza reale cui ho accennato.
Quello che proprio non ho capito é come, malgrado i
tempi, sia riuscito a passare indenne, nella guerra civile 1943 -1945 fra i compagni, dichiarati simpatizzanti per
i fascisti. Uno dei quali egli difese,
dopo il 25 aprile 1945, in quelle specie di tribunali improvvisati. Mi spiegò
che si trattava di un debito di riconoscenza: lo aveva avvertito di una
segnalazione di sospetto antifascista fatta nei suoi confronti a un comando
delle brigate nere l’anno precedente. Per il quale era intervenuto in suo
favore un funzionario di un ministero della RSI. So che aveva rapporti con un prete
che fu vicino a capi del CNL e con un agente americano che fu suo ospite alla
fine delle vacanze estive del 1943 in montagna. Ma nessuno nella scuola penso
che ne fosse al corrente. Difatti ,io lo appresi a guerra conclusa per quella
jeep che poco lontano da scuola ogni tanto lo aspettava e della quale mi
interessai. Altrettanto si verificò per il servizio di leva. Diciamo che per
capirci qualcosa più di lui, finii per perdermi. Arrivai poi al punto da domandarmi
se non lo considerasse già un cane sciolto senza collare.
Pensavo, comunque, che gli anni dal 1943 al 1948
fossero stati per lui quelli più a rischio. Mentre lo furono quelli della
politica che seguirono. Non solo per gli individui con i quali ero certo che
non avrebbe potuto durare più di tanto. Non può sopravvivere, infatti, un
idealista come lui fra gente che non crede a niente, é disposta a tutto,
giurando e spergiurando qualsiasi falsità e giustificandosi con le parole: la
politica è l’arte del possibile. Pensavo di riuscire a capire qualcosa di più
vedendo i suoi genitori. Suo padre era un uomo curato nell’aspetto, dagli occhi
penetranti. Non ricordo di aver sentito, però, la sua voce e non riuscii,
neppure in seguito, a farmene un’idea. Neppure quando chiesi al mio amico di
chi erano quei libri, che avevo visto su uno scaffale della libreria in casa
sua: Civiltà romana, dell’Istituto nazionale di cultura fascista; Mein Kampf di
Hitler; accanto al De bello gallico di Giulio Cesare; La vita di Giulio
Agricola di Tacito; Gli amici di Cicerone di Bossier, Il Leviathan di Hobbes ed
altri. Ero quasi convinto che vi fosse in ciò la mano del padre; ma di lui non
lo sentii mai parlare. Difatti, la risposta alla mia domanda sulla provenienza
di quei libri fu: da uno zio materno docente di materie umanistiche. Senza
null’altro aggiungere. Come li vidi un bel po’ di anni dopo nella sua libreria
nella casa al mare tra L’essenza del Cristianesimo di Feuerbach; La vita di
Gesù di Renan; il Dizionario filosofico di Voltaire; L’origine della famiglia,
…di Engels; Psicologia delle folle di Le Bon; Il materialismo dialettico di
Lefebvre e molti altri più recenti che, accortosi che li osservavo, lui mi
precisò che al tempo in cui scriveva doveva necessariamente conoscere questi e
altri autori se voleva permettersi dei confronti con le altre parti.
Veniamo ai fatti ai quali ho fatto cenno sopra. Il
primo accadde agli inizi degli anni Cinquanta quando era inviato speciale di un
quotidiano. I miei ricordi a distanza di quasi cinquant’anni non sono,
purtroppo, come quelli immortalati da una macchina fotografica. So che il suo
direttore gli propose un servizio particolare: partecipare a un convegno della
gioventù comunista mondiale in un paese oltrecortina. Lui accettò, ma tale
incarico, che non avrebbe dovuto essere
ufficiale, rese le cose per nulla semplici e, di conseguenza, s’ingarbugliò
non a causa del direttore nè del mio amico. Se non sbaglio, direi che poi si
sia optato per un servizio in un paese non lontano da quell’area.
Non molto tempo dopo, a Roma, dove aveva fatto degli studi
per un presule maior, non ricordo in quale rapporto di parentela con la
famiglia della madre, o con chi, il quale gli comunicò che un’istituto di
credito aveva intenzione di aprire un ufficio stampa: un posto che poteva andar
bene per lui. Da quel poco che compresi
pure qui, egli entrò, non per colpa nè merito suo, in un campo minato. In quell’istituto non vi fu mai un vero
ufficio stampa. Il suo percorso fu ad ostacoli, fino al momento che arrivò al
Centro di Formazione. La sua prima disillusione; che liquidò attribuendola a arcana. Che a me non dicevano più di
tanto. Pur non comprendendo, non insistetti.
I suoi rapporti rimasero, invece, buoni con il direttore e ottimi con il
capo redattore del quotidiano nel quale aveva prestato la sua opera. Questo un primo capitolo, importante per la
vita del mio amico, ma, ripeto, incompleto nei miei ricordi, né forse potrebbe
non esserlo, presentando i ricordi del mio passato qualche lacuna.
Ora il suo mondo ideale confliggeva di nuovo con
quello reale. Poi, un’altra goccia fece traboccare il suo vaso. E fu
l’impedimento, compiuto con guanti di velluto, di concludere un’inchiesta sulla
Congrua del Clero italiano. I dati principali che gli servivano a tale scopo si
trovavano presso il Ministero dell’Interno e non erano coperti da segreto, anzi
avrebbero dovuto essere a disposizione di chi li volesse consultare. Per questo
egli aveva chiesto di poterlo fare. Il Ministero passò, per quello che seppi,
tale richiesta alla Questura di Milano. Avendo ancora qualche conoscenza fra
Carabinieri e Polizia il mio amico venne informato di ciò. Un funzionario ad
hoc si recò, infatti, a casa sua offrendosi, amichevolmente, di farglieli
avere. Ma quell’inchiesta si arenò in attesa di quei dati che da Roma stavano
arrivando, ma non arrivarono mai. E qualcuno che si diceva suo amico e stava in
Parlamento non si mosse. Me ne ricordo bene perché ciò si verificò poco prima
che lasciassi lo studio legale.
Intorno a quel periodo si riferiscono probabilmente
questi versi apparsi in una rivista, che ho ritrovato nella mia preziosa
biblioteca, il cui titolo forse potrebbe spiegare molte cose: Solo
Il
ponte, che univa la mia casa al paese, è giù nel fiume, l’acqua isterica,
sbatte, fango e detriti da ogni parte.
Quelli ch’erano con me si son gettati, ad uno ad uno, per non morire
qui. Ed io, ora, li guardo.
Direi che aveva scelto la via delle affinità elettive,
goethiane no; ma, più ancora, l’isolamento: troppo pochi per lui gli eletti e
non più pugnaci. Continuando a
considerare la politica infeconda o miope se non sorretta da chiare
impostazioni di carattere sociale e culturale. Del resto non aveva mutato
atteggiamenti anche da pubblicista. Sino a che non entrò in funzione, non
saprei come chiamarlo diversamente, un braccio secolare: qualcuno lo colpì
sulla fronte con un oggetto metallico. Provocandogli un’incrinatura, con
contraccolpo, sufficiente a metterlo fuori combattimento per mesi. E un
intervento pure qui, di non so bene chi, per confondere le carte in tavola. Penso,
tuttavia, che solo per raccontarne la meccanica ci sarebbe voluto un buon
scrittore di gialli, tanto questo episodio fu complesso. Anche per il periodo
in cui accadde a Milano.
Seguirono le interferenze più diverse. Fra le quali
l’esclusione del suo romanzo La rabbia morta sia dal premio letterario Bagutta,
di sinistra, che dal premio Madonnina, democristiano, con la motivazione
verbale che l’editore del volume era troppo vicino alla destra. La vera ragione
fu che egli aveva declinato l’invito di chi si era già offerto di riciclarlo
politicamente ed ora di presentarlo all’editore Einaudi. Mentre l’altra parte
non approvava, mi pare, come si concludeva il romanzo. In realtà, per l’una e
per l’altra parte in campo, l’autore era, solamente, un transfuga.
Chissà,
mi disse un giorno, se vi sarà un altro Federico Zardi capace di presentare i
personaggi che più si sono messi in evidenza sulla scena dal 1943 nel panorama
politico e sociale di questo Paese, come
egli ha fatto per la Rivoluzione francese in I Giacobini e I grandi camaleonti.
Un altro busillis ha rappresentato per me l’altro
romanzo La coscienza del limite. Ne vidi solo il voluminoso dattiloscritto,
perché dopo la morte di mio padre fui impegnato a lungo in Toscana dove sono
nato. E non si presentò più l’occasione di parlarne.
Altri episodi galleggiano nella mia memoria.
Nei primi anni Settanta Floriano si recò a Parigi,
dove era atteso per un meeting presso il Credit Commercial de France al 103
avenue des Champs-Elysées. In quei giorni io avevo un appuntamento con un
cardiologo francese che in precedenza aveva avuto in cura mio padre. Partimmo
insieme e scendemmo all’Hotel George V. La sera incontrammo un amico di
Floriano, da lui conosciuto anni prima a Orléans, ora docente alla Sorbona. Il
quale nel nostro secondo giorno di permanenza a Parigi, la mia visita
cardiologica e il meeting del mio amico conclusi, ci portò in una trattoria del
Quartiere Latino. Era il tempo in cui François Mitterand era di casa in quel
Quartiere e in quella trattoria anche per i suoi scopi elettorali, come l’amico
ci disse. Pure quel giorno il politico francese vi si trovava. Il nostro
accompagnatore lo conosceva, ci presentò e s’incominciò a parlare. In quella
mezz’ora o poco più passata al tavolo a parlare fu il mio amico. Non mi
sbagliavo: in Italia o all’estero, era sempre lo stesso. E me lo confermò, se
mai ve ne fosse stato bisogno, il suo amico francese mostrando meraviglia per
le parole scambiate con Mitterand, il quale, invece, appariva interessato.
Difatti, lasciato il locale, l’amico di Floriano, riferendosi alle parole
scambiate con Mitterand osservò, sans phrase: pensez-y toujours, n’en parlez jamais! Le parole scambiate fra i
due erano state incentrate sul dare un significato alla vita all’interno della
crisi generale dei valori in un mondo di conformismo e di convenzione. Mi
sembrò chiara la sua non approvazione. Il giorno seguente io feci ritorno a
Milano, lasciando il mio amico che aveva ricevuto un invito a pranzo presso
l’Aviation Club de France al 104 Avenue des Champes Elysèe.
A fine di quegli anni venne pubblicato il suo primo
volume della Storia di Concorezzo. Furono la prefazione del Prefetto della
Biblioteca Ambrosiana e la presentazione della Direttrice dell’Archivio di
Stato di Mantova a mostrarmi l’amico sotto una luce che da solo non ero
riuscito a scorgere. Entrambi scrissero che il Pirola non era uno storico di
professione. Il che poteva significare, a parer mio, che lo si volesse
collocare in una categoria a sé; ma anche che lo si volesse indicare agli
storici di professione come uno che di storia, locale o no che fosse, trattava
la storia in maniera nuova. Non fu solo
questo. La Direttrice dell’Archivio di Stato di Mantova titolò la sua
presentazione: Storia di Concorezzo di Floriano Pirola. Un libro diverso.
Presentazione che comparve pure in un periodico. Alla fine qualcuno aveva colto
nel segno: la diversità del Pirola. E’ sulla diversità che s’impernia la sua
personalità, fuori dagli schemi comuni. Ma a che cosa serve un simile stato di grazia in una società come
quella nella quale egli vive e per la quale non trova l’ubi consistam per muoverla?
A me almeno ricordava qualcosa che
poteva assomigliare al supplizio di Sisifo. Con la differenza che Sisido era un
personaggio mitologico.
A breve distanza di tempo ne ebbi altra conferma. E fu
nel Centro di Formazione che dirigeva: un suo cosiddetto amico della direzione
di Milano insieme alla ragioniera, dallo stesso messagli accanto per il lavoro
amministrativo e d’ufficio da svolgere nella Villa in cui si tenevano i corsi, complesso
sul quale gli interrogativi si intrecciavano come i vimini di un canestro,
tesero una rete non meno aggrovigliata, da creargli problemi che gli alienarono
importanti rapporti che aveva nel mondo bancario e che continuarono a seguirlo
in più di un settore. E’ proprio vero che a scaldare la serpe in seno, ti renderà veleno. Lui si scompose? Una volta
ancora solo molto deluso.
Così, fra alti e bassi, andò fino alla sparizione
delle carte antiche (nella speranza di recuperarne di recenti da parte di chi
le fece sottrarre? Non interessato certo a quel tipo di storia). Questo sul
principio degli anni Novanta. Fu allora che uscì con queste parole che mi sono
rimaste impresse: Ti sembra possibile che
ogni pataccaro che incontro sulla mia
strada e che riesce a montare in scranno si trasformi in un moloch che voglia avermi come sua vittima da
sacrificare, specie quando dal suo armadio
incominciano a cadere fuori scheletri?
Allora fui io ad illudermi che, avendo egli nominato
quel meschino meccanismo che inquina spesso la vita di chi regge la cosa
pubblica, abbandonasse finalmente l’antica strada. Così non fu.
A distanza di pochi anni, con una manovra, direi più
abilmente eseguita, approfittando ancora di un trasloco, sparì quasi l’intera
sua corrispondenza personale, comprese foto e altro, raccolta in due album per
fotografie (uno scatolone), probabilmente con la medesima speranza nutrita per
le carte antiche. Quel che so è che si salvò la corrispondenza meno importante
che era sparsa fra libri in altri scatoloni. Lo vidi subito dopo il trasloco e
ho ancora presente la sua ira e il suo sconforto per avere infilato di nuovo la
testa nel sacco di un Giuda. Questa volta ne parlò meno: era troppo
irritato. Tuttavia neanche qui ho visto qualcosa cambiare nel suo modus
operandi.
A questo punto avevo bisogno di qualcuno che potesse
aiutarmi a inquadrare meglio ciò che accadeva al mio amico. Difatti, un paio di mesi fa ebbi occasione di
parlare con un vecchio amico, già magistrato. Gli parlai un po’ più di
Floriano, anche se lui non lo conosceva di persona. Dopo avermi ascoltato, mi
disse che azioni come quelle che gli avevo esposte si potevano attribuire più
che a un Sistema a uno individuo, o famiglia, con un certo potere che poteva far
ricorso a una persona di fiducia o a un investigatore privato per portarle a
compimento. E i rapporti di non poco
conto che egli ebbe nel passato, i cui protagonisti potrebbero non averli
dimenticati, aggiunsi? Allora non ci
sarebbe da stupirsi se ciò potesse far comodo pure a quelli, e magari per ben
altre ragioni. Se, però, le cose stessero così, si andrebbe incontro a un
intrico inestricabile, un cul-de-sac, e direi che sia meglio starne fuori, mi
rispose.
In un caso o nell’altro, di fronte a simili situazioni
una persona qualsiasi avrebbe se non previste, almeno temute altre sorprese.
Tanto che non mi meraviglierei se ciò finisse per stritolarlo nel fisico (già
si é provato attraverso un addetto ai lavori, che di Ippocrate…), altrettanto
nelle finanze dove si è vista di nuovo la mano, non la faccia. Di queste
ostilità unilaterali, almeno per Floriano personalmente, iniziate prima del
1960 fino a pochi anni fa, ora nutro dubbi sulla mano che le ha compiute. Ad
ogni modo le prove concrete sono lì, tangibili. Senza contare l’altro denaro,
che so che ha perso (nel campo della compravendita d’immobili) in questi anni.
Senza contare le carte antiche, per diverse delle quali so che aveva speso non
pochi soldi presso antiquari, e la corrispondenza personale. Non è bastato
tutto ciò per far finire almeno le aperte polemiche del ribelle il quale
lamenta che l’albero Italia dalla
politica, dalla finanza, e giù giù, per la scala sociale da troppi, si
partecipa allegramente a far rinsecchire attraverso la corruzione, il malaffare
e manipolazioni di ogni sorta della povera gente.
Neppure con i risultati ottenuti? Direi di no. Quella classe dirigente arrogante e in tutt’altri affari affaccendata
che non a curare gli interessi della
gente comune, arroccata intorno a un potere emanante anche da incestuosi
connubi e sostenuto dall’ignoranza di un gregge volubile, da lui evocata,
non é certo quella che abbia paura di sole parole.
Non, in ogni caso, di una paura simile a quella per
Virginia Wolf. Altrimenti che cosa si continuerebbe a cercare nella
consapevolezza, si direbbe dai modi di procedere, che c’è chi conta e non solo
non collabora, e, sapendo, che forse rimane in attesa. Ma pure qui, di che
cosa?
Del resto si assiste di frequente a strani crolli
borsistici e politici in molti bacini dai quali si pesca l’oro che porta la
fortuna fra i manutengoli del potere e la rovina al Paese, come sosteneva il
mio amico. E che cosa si fa?
Qui giunto, vorrei chiedere, però, a lui se il cupio
dissolvi in… chi, in che cosa? è la sua meta finale. Vivere in eterno vale per
le religioni salvifiche; ma vivere male qui ed ora, vale per noi.
Ogni tanto, tra tutti questi ricordi, emerge
un’immagine, ed è quella di sua madre: una bella distinta signora, un po’ austera,
con il pensiero rivolto alla chiesa e a un passato sviluppato in un arco di
secoli, come ricorda un ampio territorio, segnato dal cognome di quella famiglia,
che andava da Pavia a Piacenza tra il Piemonte e la Liguria. E che più di una
volta ho visto in ansia per il figlio. Sorridente soltanto quando egli si
fidanzò con una ragazza, che conobbe presso l’Istituto di Studi di Politica
Internazionale in via Clerici a Milano dove Floriano mi fece conoscere qualche
diplomatico, discendente di un da Romano che dalla Marca Trevigiana si era
messo al fianco di Federico II. C’est la vie.
In questi brevi momenti di memorie non vorrei avere
primeggiato, qui o là, nella sinchisi, con la quale i retori greci e latini
indicavano una figura retorica, la mixtura verborum, che poteva degenerare, e
degenera sempre nel vizio della confusione, che disorienterebbero chi è fuori
dal gioco nel suo giudizio sui fatti e sulle immagini da me evocati. E che producono altre fibrillazioni al mio
cuore.
Pànta rhèi. E l’uomo non può fermarsi né dinanzi a
vortici né a marosi. Amen?
Nel momento in cui sono costretto a concludere, si
inseriscono, di forza quasi, nel mio pensiero divagante alcuni versi
delle Laudi del D’Annunzio: E’ piena di fato la muta ruina. All’ombra dei marmi la via cittadina si
tace pensando che l’ora è vicina.
Un anno fa, a causa della mia malattia di cuore, mi
sono trasferito nella villa della mia compagna sul lago. Non senza domandarmi se il Censore rientrerà a Milano per andare ad abitare, come mi aveva
detto prima che perdessimo i contatti, nel palazzo in viale Piave, che si apre
sul giardino dell’Hotel Diana, nel quale vive attualmente il mio conterraneo, Indro
Montanelli. E se, quando lo farà, si farà finalmente risentire.
A me non rimane, fin che l’acqua nel fiume continuerà
a rotolare, la mia biblioteca e alla mia compagna, che ai libri preferisce la
Natura, il suo giardino, nell’attesa di Charun…dell’Erebo.
Omen.
Tusco
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