venerdì 6 dicembre 2013

Ricordi di un amico alla fine della sua vita (fine '900)

Who’s in Search of Floriano Pirola?
La comparsa nel mio blog del “Tentativo di profilo: Floriano Pirola”, e relative documentazioni, ha prodotto altri particolari che ritengo possano portare avanti la mia ricerca sul soggetto. Le ripetizioni che vi compaiono non mi sembra cambino la struttura di quanto ho cercato di ricostruire in precedenza.
Inizierò con i ricordi di un suo compagno di liceo e amico fin quasi al termine del secolo scorso, quando i contatti fra loro s’interruppero a causa dei continui spostamenti di sede del Pirola.  Le sue parole mi hanno spinto ad andar oltre nella mia ricerca.  Vi è, infatti, qualcosa in queste considerazioni e valutazioni, estratte dalle carte del loro estensore passate con la sua biblioteca ad uno di quei librai antiquari che rilevano il materiale cartaceo che interessa loro, ma forse ancor più a ricercatori e a collezionisti, che dà la sensazione di trovarsi di fronte ad una vita che sta per toccare il suo nadir. 
Ho appreso così di situazioni che per l’uomo della strada rientrano, forse, nella fiction. E che, invece, per qualcuno nella vita di tutti i giorni, a quanto pare, tra queste non rientrano.
E’stato possibile che lo scritto arrivasse a me avendolo egli cucito sopra la copertina del numero 2 della Rivista Libri & Documenti dell’ Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana  - Castello Sforzesco – Milano, del 1991, in cui compare la ricerca di Floriano Pirola su Giuseppe Prina: per natura inclinato  a sperar bene?  Mi è venuto spontaneo chiedermi che motivo potesse avere il suo amico per scegliere proprio il Prina, data la sua orribile fine. 
Ma vediamo il testo.

Nel recto del primo foglio:

“ Questi sono i ricordi di Tusco, (come mi chiama Floriano, da me chiamato Censore) affiorati dal profondo del mio passato in questi giorni di pioggia in prossimità della fine del Novecento.

e il testo:

Ho incontrato tante persone nel corso della mia vita, ma Floriano, del quale da più di due anni ho perso le tracce, è uno dei pochi che abbia lasciato un solco nella mia memoria. E non soltanto per quegli anni di liceo quando la guerra imperversava, fra contrasti di idee e di paura anche nei quartieri della città. Anni in cui da lui tutto era considerato sotto vuoto spinto e… in seguito tutto era aria fritta, salvo poche aree culturali non ancora addomesticate. La causa? Fra coloro che durante la guerra parlavano e straparlavano di portare democrazia e libertà nel nostro Paese, quanti sono quelli che, potendo farlo, lo hanno fatto? Demagogi e mendaci!, ripeteva.
Egli, fra l’altro, non ha mai capito perché un individuo avesse bisogno di un’imposizione, di un ordine per fare ciò che va fatto, ieri come oggi. Solo perché lui é dotato di uno spiccato senso critico e di autocritica? O perché a tutti lui attribuiva un’intelligenza reale che non sviluppavano o non utilizzavano a causa della pigrizia mentale o  da quanto inculcato nelle loro menti dalle istituzioni, da quelle politiche a quelle religiose? Pensavo che ciò fosse dovuto al fatto che lui si perdeva spesso fra i classici italiani e latini, tra la filosofia, la scienza e i suoi progressi, alla ricerca non capivo ancora bene di che cosa. Leggeva, leggeva.
Al liceo si potevano contare, dati i tempi, i professori che lo avrebbero voluto nella loro classe. Una volta, ricordo, un suo tema su Enea, considerato dal professore piccola tesi, ineccepibile per la forma, fu classificato con uno zero perché non teneva conto che nella scuola esistevano certi limiti che non si dovevano superare.  Non capivo, inoltre, come trovasse il tempo per aiutare qualche compagno in difficoltà nella stesura di un tema: integralista, altruista… Anche nelle interrogazioni lui superava i limiti stabiliti dai programmi che sollevavano problemi per l’insegnante. 
Imparare a memoria per lui non serviva a nulla. Tanto che un insegnante di filosofia arrivò a definirlo: un autodidatta costretto in una aula scolastica. Se così, però, si trattava di un autodidatta spinto da una bramosia inesausta di conoscere. Aveva già compreso che per acquisire, approfondire il vero sapere si deve voler andare oltre la scuola.
Ma fu solo più innanzi nel tempo che capii: pensava troppo con la sua testa e non amava le imposizioni. Spesso un vero guaio nella vita, soprattutto, per un lontano naturale emulo di Saint-Just, quando si è soli, non in una rivoluzione e senza un Robespierre. Quindi, predestinato a finire sotto l’affilata lama di una sia pur moderna vedovella. 
Floriano, considerati i tempi, l’ambiente in cui crebbe, e il punto di cultura al quale è pervenuto, è veramente da considerare una vittima sacrificale di una società in cui l’apparenza conta più dell’essere, nella quale le mani son ma chi pon legge ad esse?  e i costumi declinano ogni giorno sempre più. Non si può dar credito a quelle statistiche che stanno un gradino sopra le bugie, come i fatti evidenziano.
E non è facile capire un altruista nato che in più circostanze si presenta inflessibile.  Ci sono voluti, difatti, degli anni perché potessi capirlo. Anche senza conoscere come lui le lingue vive e morte per le quali era portato. Diceva, invece, di non essere altrettanto portato per la matematica, ma, per quel che ho potuto constatare io, non lo era solo nella parte che a lui non poteva servire.
Uno degli ostacoli sulla sua strada è stato anche non voler rendersi conto che non tutte le persone con le quali aveva a che fare possedevano il suo stesso background, il suo senso critico e la rapidità di passare da un argomento ad un altro senza che si creasse un gap nell’ argomentare. Un po’ come per quell’intelligenza reale cui ho accennato.
Quello che proprio non ho capito é come, malgrado i tempi, sia riuscito a passare indenne, nella guerra civile 1943 -1945  fra i compagni, dichiarati simpatizzanti per i fascisti.  Uno dei quali egli difese, dopo il 25 aprile 1945, in quelle specie di tribunali improvvisati. Mi spiegò che si trattava di un debito di riconoscenza: lo aveva avvertito di una segnalazione di sospetto antifascista fatta nei suoi confronti a un comando delle brigate nere l’anno precedente. Per il quale era intervenuto in suo favore un funzionario di un ministero della RSI. So che aveva rapporti con un prete che fu vicino a capi del CNL e con un agente americano che fu suo ospite alla fine delle vacanze estive del 1943 in montagna. Ma nessuno nella scuola penso che ne fosse al corrente. Difatti ,io lo appresi a guerra conclusa per quella jeep che poco lontano da scuola ogni tanto lo aspettava e della quale mi interessai. Altrettanto si verificò per il servizio di leva. Diciamo che per capirci qualcosa più di lui, finii per perdermi. Arrivai poi al punto da domandarmi se non lo considerasse già un cane sciolto senza collare.     
Pensavo, comunque, che gli anni dal 1943 al 1948 fossero stati per lui quelli più a rischio. Mentre lo furono quelli della politica che seguirono. Non solo per gli individui con i quali ero certo che non avrebbe potuto durare più di tanto. Non può sopravvivere, infatti, un idealista come lui fra gente che non crede a niente, é disposta a tutto, giurando e spergiurando qualsiasi falsità e giustificandosi con le parole: la politica è l’arte del possibile. Pensavo di riuscire a capire qualcosa di più vedendo i suoi genitori. Suo padre era un uomo curato nell’aspetto, dagli occhi penetranti. Non ricordo di aver sentito, però, la sua voce e non riuscii, neppure in seguito, a farmene un’idea. Neppure quando chiesi al mio amico di chi erano quei libri, che avevo visto su uno scaffale della libreria in casa sua: Civiltà romana, dell’Istituto nazionale di cultura fascista; Mein Kampf di Hitler; accanto al De bello gallico di Giulio Cesare; La vita di Giulio Agricola di Tacito; Gli amici di Cicerone di Bossier, Il Leviathan di Hobbes ed altri. Ero quasi convinto che vi fosse in ciò la mano del padre; ma di lui non lo sentii mai parlare. Difatti, la risposta alla mia domanda sulla provenienza di quei libri fu: da uno zio materno docente di materie umanistiche. Senza null’altro aggiungere. Come li vidi un bel po’ di anni dopo nella sua libreria nella casa al mare tra L’essenza del Cristianesimo di Feuerbach; La vita di Gesù di Renan; il Dizionario filosofico di Voltaire; L’origine della famiglia, …di Engels; Psicologia delle folle di Le Bon; Il materialismo dialettico di Lefebvre e molti altri più recenti che, accortosi che li osservavo, lui mi precisò che al tempo in cui scriveva doveva necessariamente conoscere questi e altri autori se voleva permettersi dei confronti con le altre parti.
Veniamo ai fatti ai quali ho fatto cenno sopra. Il primo accadde agli inizi degli anni Cinquanta quando era inviato speciale di un quotidiano. I miei ricordi a distanza di quasi cinquant’anni non sono, purtroppo, come quelli immortalati da una macchina fotografica. So che il suo direttore gli propose un servizio particolare: partecipare a un convegno della gioventù comunista mondiale in un paese oltrecortina. Lui accettò, ma tale incarico, che non avrebbe dovuto essere  ufficiale, rese le cose per nulla semplici e, di conseguenza, s’ingarbugliò non a causa del direttore nè del mio amico. Se non sbaglio, direi che poi si sia optato per un servizio in un paese non lontano da quell’area.   
Non molto tempo dopo, a Roma, dove aveva fatto degli studi per un presule maior, non ricordo in quale rapporto di parentela con la famiglia della madre, o con chi, il quale gli comunicò che un’istituto di credito aveva intenzione di aprire un ufficio stampa: un posto che poteva andar bene per lui.  Da quel poco che compresi pure qui, egli entrò, non per colpa nè merito suo, in un campo minato.  In quell’istituto non vi fu mai un vero ufficio stampa. Il suo percorso fu ad ostacoli, fino al momento che arrivò al Centro di Formazione. La sua prima disillusione; che liquidò attribuendola a arcana. Che a me non dicevano più di tanto. Pur non comprendendo, non insistetti.  I suoi rapporti rimasero, invece, buoni con il direttore e ottimi con il capo redattore del quotidiano nel quale aveva prestato la sua opera.  Questo un primo capitolo, importante per la vita del mio amico, ma, ripeto, incompleto nei miei ricordi, né forse potrebbe non esserlo, presentando i ricordi del mio passato qualche lacuna. 
Ora il suo mondo ideale confliggeva di nuovo con quello reale. Poi, un’altra goccia fece traboccare il suo vaso. E fu l’impedimento, compiuto con guanti di velluto, di concludere un’inchiesta sulla Congrua del Clero italiano. I dati principali che gli servivano a tale scopo si trovavano presso il Ministero dell’Interno e non erano coperti da segreto, anzi avrebbero dovuto essere a disposizione di chi li volesse consultare. Per questo egli aveva chiesto di poterlo fare. Il Ministero passò, per quello che seppi, tale richiesta alla Questura di Milano. Avendo ancora qualche conoscenza fra Carabinieri e Polizia il mio amico venne informato di ciò. Un funzionario ad hoc si recò, infatti, a casa sua offrendosi, amichevolmente, di farglieli avere. Ma quell’inchiesta si arenò in attesa di quei dati che da Roma stavano arrivando, ma non arrivarono mai. E qualcuno che si diceva suo amico e stava in Parlamento non si mosse. Me ne ricordo bene perché ciò si verificò poco prima che lasciassi lo studio legale.
Intorno a quel periodo si riferiscono probabilmente questi versi apparsi in una rivista, che ho ritrovato nella mia preziosa biblioteca, il cui titolo forse potrebbe spiegare molte cose: Solo
Il ponte, che univa la mia casa al paese, è giù nel fiume, l’acqua isterica, sbatte, fango e detriti da ogni parte.  Quelli ch’erano con me si son gettati, ad uno ad uno, per non morire qui. Ed io, ora, li guardo.
Direi che aveva scelto la via delle affinità elettive, goethiane no; ma, più ancora, l’isolamento: troppo pochi per lui gli eletti e non più pugnaci.  Continuando a considerare la politica infeconda o miope se non sorretta da chiare impostazioni di carattere sociale e culturale. Del resto non aveva mutato atteggiamenti anche da pubblicista. Sino a che non entrò in funzione, non saprei come chiamarlo diversamente, un braccio secolare: qualcuno lo colpì sulla fronte con un oggetto metallico. Provocandogli un’incrinatura, con contraccolpo, sufficiente a metterlo fuori combattimento per mesi. E un intervento pure qui, di non so bene chi, per confondere le carte in tavola. Penso, tuttavia, che solo per raccontarne la meccanica ci sarebbe voluto un buon scrittore di gialli, tanto questo episodio fu complesso. Anche per il periodo in cui accadde a Milano.   
Seguirono le interferenze più diverse. Fra le quali l’esclusione del suo romanzo La rabbia morta sia dal premio letterario Bagutta, di sinistra, che dal premio Madonnina, democristiano, con la motivazione verbale che l’editore del volume era troppo vicino alla destra. La vera ragione fu che egli aveva declinato l’invito di chi si era già offerto di riciclarlo politicamente ed ora di presentarlo all’editore Einaudi. Mentre l’altra parte non approvava, mi pare, come si concludeva il romanzo. In realtà, per l’una e per l’altra parte in campo, l’autore era, solamente, un transfuga. 
Chissà, mi disse un giorno, se vi sarà un altro Federico Zardi capace di presentare i personaggi che più si sono messi in evidenza sulla scena dal 1943 nel panorama politico e  sociale di questo Paese, come egli ha fatto per la Rivoluzione francese in I Giacobini e I grandi camaleonti.
Un altro busillis ha rappresentato per me l’altro romanzo La coscienza del limite. Ne vidi solo il voluminoso dattiloscritto, perché dopo la morte di mio padre fui impegnato a lungo in Toscana dove sono nato. E non si presentò più l’occasione di parlarne.        
Altri episodi galleggiano nella mia memoria.
Nei primi anni Settanta Floriano si recò a Parigi, dove era atteso per un meeting presso il Credit Commercial de France al 103 avenue des Champs-Elysées. In quei giorni io avevo un appuntamento con un cardiologo francese che in precedenza aveva avuto in cura mio padre. Partimmo insieme e scendemmo all’Hotel George V. La sera incontrammo un amico di Floriano, da lui conosciuto anni prima a Orléans, ora docente alla Sorbona. Il quale nel nostro secondo giorno di permanenza a Parigi, la mia visita cardiologica e il meeting del mio amico conclusi, ci portò in una trattoria del Quartiere Latino. Era il tempo in cui François Mitterand era di casa in quel Quartiere e in quella trattoria anche per i suoi scopi elettorali, come l’amico ci disse. Pure quel giorno il politico francese vi si trovava. Il nostro accompagnatore lo conosceva, ci presentò e s’incominciò a parlare. In quella mezz’ora o poco più passata al tavolo a parlare fu il mio amico. Non mi sbagliavo: in Italia o all’estero, era sempre lo stesso. E me lo confermò, se mai ve ne fosse stato bisogno, il suo amico francese mostrando meraviglia per le parole scambiate con Mitterand, il quale, invece, appariva interessato. Difatti, lasciato il locale, l’amico di Floriano, riferendosi alle parole scambiate con Mitterand osservò, sans phrase: pensez-y toujours, n’en parlez jamais!  Le parole scambiate fra i due erano state incentrate sul dare un significato alla vita all’interno della crisi generale dei valori in un mondo di conformismo e di convenzione. Mi sembrò chiara la sua non approvazione. Il giorno seguente io feci ritorno a Milano, lasciando il mio amico che aveva ricevuto un invito a pranzo presso l’Aviation Club de France al 104 Avenue des Champes Elysèe.
A fine di quegli anni venne pubblicato il suo primo volume della Storia di Concorezzo. Furono la prefazione del Prefetto della Biblioteca Ambrosiana e la presentazione della Direttrice dell’Archivio di Stato di Mantova a mostrarmi l’amico sotto una luce che da solo non ero riuscito a scorgere. Entrambi scrissero che il Pirola non era uno storico di professione. Il che poteva significare, a parer mio, che lo si volesse collocare in una categoria a sé; ma anche che lo si volesse indicare agli storici di professione come uno che di storia, locale o no che fosse, trattava la storia in maniera nuova.  Non fu solo questo. La Direttrice dell’Archivio di Stato di Mantova titolò la sua presentazione: Storia di Concorezzo di Floriano Pirola. Un libro diverso. Presentazione che comparve pure in un periodico. Alla fine qualcuno aveva colto nel segno: la diversità del Pirola. E’ sulla diversità che s’impernia la sua personalità, fuori dagli schemi comuni. Ma a che cosa serve un simile stato di grazia in una società come quella nella quale egli vive e per la quale non trova l’ubi consistam per muoverla?  A me almeno ricordava qualcosa che poteva assomigliare al supplizio di Sisifo. Con la differenza che Sisido era un personaggio mitologico.
A breve distanza di tempo ne ebbi altra conferma. E fu nel Centro di Formazione che dirigeva: un suo cosiddetto amico della direzione di Milano insieme alla ragioniera, dallo stesso messagli accanto per il lavoro amministrativo e d’ufficio da svolgere nella Villa in cui si tenevano i corsi, complesso sul quale gli interrogativi si intrecciavano come i vimini di un canestro, tesero una rete non meno aggrovigliata, da creargli problemi che gli alienarono importanti rapporti che aveva nel mondo bancario e che continuarono a seguirlo in più di un settore. E’ proprio vero che a scaldare la serpe in seno, ti renderà veleno. Lui si scompose? Una volta ancora solo molto deluso.
Così, fra alti e bassi, andò fino alla sparizione delle carte antiche (nella speranza di recuperarne di recenti da parte di chi le fece sottrarre? Non interessato certo a quel tipo di storia). Questo sul principio degli anni Novanta. Fu allora che uscì con queste parole che mi sono rimaste impresse: Ti sembra possibile che ogni pataccaro che incontro sulla mia strada e che riesce a montare in scranno si trasformi in un moloch che voglia avermi come sua vittima da sacrificare, specie quando dal  suo armadio incominciano a cadere fuori scheletri?     
Allora fui io ad illudermi che, avendo egli nominato quel meschino meccanismo che inquina spesso la vita di chi regge la cosa pubblica, abbandonasse finalmente l’antica strada.  Così non fu.    
A distanza di pochi anni, con una manovra, direi più abilmente eseguita, approfittando ancora di un trasloco, sparì quasi l’intera sua corrispondenza personale, comprese foto e altro, raccolta in due album per fotografie (uno scatolone), probabilmente con la medesima speranza nutrita per le carte antiche. Quel che so è che si salvò la corrispondenza meno importante che era sparsa fra libri in altri scatoloni. Lo vidi subito dopo il trasloco e ho ancora presente la sua ira e il suo sconforto per avere infilato di nuovo la testa nel sacco di un Giuda. Questa volta ne parlò meno: era troppo irritato. Tuttavia neanche qui ho visto qualcosa cambiare nel suo modus operandi.
A questo punto avevo bisogno di qualcuno che potesse aiutarmi a inquadrare meglio ciò che accadeva al mio amico.  Difatti, un paio di mesi fa ebbi occasione di parlare con un vecchio amico, già magistrato. Gli parlai un po’ più di Floriano, anche se lui non lo conosceva di persona. Dopo avermi ascoltato, mi disse che azioni come quelle che gli avevo esposte si potevano attribuire più che a un Sistema a uno individuo, o famiglia, con un certo potere che poteva far ricorso a una persona di fiducia o a un investigatore privato per portarle a compimento.  E i rapporti di non poco conto che egli ebbe nel passato, i cui protagonisti potrebbero non averli dimenticati, aggiunsi?  Allora non ci sarebbe da stupirsi se ciò potesse far comodo pure a quelli, e magari per ben altre ragioni. Se, però, le cose stessero così, si andrebbe incontro a un intrico inestricabile, un cul-de-sac, e direi che sia meglio starne fuori, mi rispose. 
In un caso o nell’altro, di fronte a simili situazioni una persona qualsiasi avrebbe se non previste, almeno temute altre sorprese. Tanto che non mi meraviglierei se ciò finisse per stritolarlo nel fisico (già si é provato attraverso un addetto ai lavori, che di Ippocrate…), altrettanto nelle finanze dove si è vista di nuovo la mano, non la faccia. Di queste ostilità unilaterali, almeno per Floriano personalmente, iniziate prima del 1960 fino a pochi anni fa, ora nutro dubbi sulla mano che le ha compiute. Ad ogni modo le prove concrete sono lì, tangibili. Senza contare l’altro denaro, che so che ha perso (nel campo della compravendita d’immobili) in questi anni. Senza contare le carte antiche, per diverse delle quali so che aveva speso non pochi soldi presso antiquari, e la corrispondenza personale. Non è bastato tutto ciò per far finire almeno le aperte polemiche del ribelle il quale lamenta che l’albero Italia dalla politica, dalla finanza, e giù giù, per la scala sociale da troppi, si partecipa allegramente a far rinsecchire attraverso la corruzione, il malaffare e manipolazioni di ogni sorta della povera gente.
Neppure con i risultati ottenuti?  Direi di no. Quella classe dirigente arrogante e in tutt’altri affari affaccendata che non a curare gli interessi della gente comune, arroccata intorno a un potere emanante anche da incestuosi connubi e sostenuto dall’ignoranza di un gregge volubile, da lui evocata, non é certo quella che abbia paura di sole parole.
Non, in ogni caso, di una paura simile a quella per Virginia Wolf. Altrimenti che cosa si continuerebbe a cercare nella consapevolezza, si direbbe dai modi di procedere, che c’è chi conta e non solo non collabora, e, sapendo, che forse rimane in attesa. Ma pure qui, di che cosa?
Del resto si assiste di frequente a strani crolli borsistici e politici in molti bacini dai quali si pesca l’oro che porta la fortuna fra i manutengoli del potere e la rovina al Paese, come sosteneva il mio amico. E che cosa si fa?
Qui giunto, vorrei chiedere, però, a lui se il cupio dissolvi in… chi, in che cosa? è la sua meta finale. Vivere in eterno vale per le religioni salvifiche; ma vivere male qui ed ora, vale per noi.   
Ogni tanto, tra tutti questi ricordi, emerge un’immagine, ed è quella di sua madre: una bella distinta signora, un po’ austera, con il pensiero rivolto alla chiesa e a un passato sviluppato in un arco di secoli, come ricorda un ampio territorio, segnato dal cognome di quella famiglia, che andava da Pavia a Piacenza tra il Piemonte e la Liguria. E che più di una volta ho visto in ansia per il figlio. Sorridente soltanto quando egli si fidanzò con una ragazza, che conobbe presso l’Istituto di Studi di Politica Internazionale in via Clerici a Milano dove Floriano mi fece conoscere qualche diplomatico, discendente di un da Romano che dalla Marca Trevigiana si era messo al fianco di Federico II. C’est la vie.  
In questi brevi momenti di memorie non vorrei avere primeggiato, qui o là, nella sinchisi, con la quale i retori greci e latini indicavano una figura retorica, la mixtura verborum, che poteva degenerare, e degenera sempre nel vizio della confusione, che disorienterebbero chi è fuori dal gioco nel suo giudizio sui fatti e sulle immagini da me evocati.  E che producono altre fibrillazioni al mio cuore.
Pànta rhèi. E l’uomo non può fermarsi né dinanzi a vortici né a marosi. Amen? 
Nel momento in cui sono costretto a concludere, si inseriscono, di forza quasi, nel mio pensiero divagante alcuni versi delle Laudi del D’Annunzio: E’ piena di fato la muta ruina. All’ombra dei marmi la via cittadina si tace pensando che l’ora è vicina.    
Un anno fa, a causa della mia malattia di cuore, mi sono trasferito nella villa della mia compagna sul lago.  Non senza domandarmi se il Censore rientrerà a Milano per andare ad abitare, come mi aveva detto prima che perdessimo i contatti, nel palazzo in viale Piave, che si apre sul giardino dell’Hotel Diana, nel quale vive attualmente il mio conterraneo, Indro Montanelli. E se, quando lo farà, si farà finalmente risentire.
A me non rimane, fin che l’acqua nel fiume continuerà a rotolare, la mia biblioteca e alla mia compagna, che ai libri preferisce la Natura, il suo giardino, nell’attesa di Charun…dell’Erebo.

Omen.                Tusco

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