martedì 10 gennaio 2017

Il nome di luogo Concorezzo, Mr.Joseph Biddulph, don Ercole Gerosa




Sapere tutto di un dato argomento è, senza dubbio, importante, anche se difficile. Ma più importante e più difficile è saperne ricavare una sola risposta, che abbia un significato preciso e una utilità per chi legge e vuole conoscere la storia della nostra comunità nei secoli.
Difatti, la cultura dell’uomo non può essere soltanto una sequela più o meno varia di nozioni. Tutto ciò che egli sa deve avere una realtà umana e viva che coniughi alle nozioni i fatti, così che le pagine che li contengono divengano un sussidio per ogni cittadino interessato al passato di Concorezzo.
  
Una delle parti che non sono comparse nel secondo volume  

Il nome di luogo  CONCOREZZO

di   Floriano Pirola


Un nome del tempo in cui per l’uomo la natura era sacra; ma non più inviolabile.
 
Questo non è  il lavoro di un etimologista, bensì quello di un ricercatore di storia lombarda,  dal medioevo all’età moderna,  che ad etimologi ed a toponomasti ha fatto ricorso.
Lo svolgimento di questo tema non vuole invilupparsi in una forma di erudizione accademica; ma diventare matrice di informazione e cultura. Attraverso una sorta di irruzione in campo linguistico  su un tema in ogni tempo di attualità.  Che, come tutte le irruzioni, è senza ordine sistematico, con una logica propria, alla ricerca di ciò che può costituire motivo nuovo o diverso di riflessione, invito a considerare il problema da un’ottica nuova o diversa.
 Se le attitudini esistono dalla nascita; si evidenziano e sviluppano, però, nel corso della vita.  Specie se fin dall’infanzia, nonno e madre dei De Giorgi, con le radici fra Pavia e Castellaro  De’ Giorgi e la memoria nel passato remoto, vi apportano la loro  parte. Lo compresi, ovviamente, più tardi, nel corso di una tavola rotonda quando uno psicologo paragonò la psiche alla plastilina. Nella quale, empiricamente, chi mette le mani lascia l’impronta; ma, a volte, anche la modella. Difatti,  tutto era passato nei miei primi anni di vita quasi come un trasparente che scorre lasciando il posto a nuove sequenze.  Ma parcheggiata nel freudiano interno paese straniero, l’impronta riaffiorò nei primi anni di scuola frequentando le case che dal Cinquecento signori di città avevano acquistato o fatto erigere in Concorezzo.  Quelle immagini rimasero impresse chiaramente nella mia memoria. Quei muri, quegli scaloni, quei saloni, quei sotterranei bui… E due luminosi giardini. L’uno, con al centro la montagnetta sulla quale con Arnaldo Scaccabarozzi si saliva a scrutare l’orizzonte che gli annosi alberi ed il muro di cinta strusciato dalla sinuosa roggia Ghiringhella  più non limitavano.  L’altro, a nord-est aveva l’oratorio maschile S. Luigi, in cui la domenica don Francesco Gianoli e Pasquale Lissoni, rispettivamente Assistente e Prefetto dell’oratorio, faticavano non poco a procurare una giornata di festa ai ragazzi pieni di vita. Mentre a nord- ovest il giardino era diviso in due da un’area a coltivo tra la roggia e l’ultimo tratto di via Manzoni. Area poi destinata al campo sportivo.  Il primo giardino apparteneva alla casa, nel Cinque-Seicento  degli Inzino-Mantelli, tra l’Otto e il Novecento dei Pini, in quegli anni abitata dagli Scaccabarozzi, detti buron; il secondo, con alberi, specie da frutto, filari di viti ed arnie,  alla villa passata ai Durini  di Milano per il matrimonio dell’ultima erede della famiglia Zanatti di Monza, ed, infine, ai Paravicini.  Da questi legata all’Ospedale di Morbegno, e abitata dai Teruzzi.  Fu tutto ciò a suscitare in me interesse, dando la prima forma alle mie attitudini.
Non minore interesse esercitarono su di me: le grandi aule della scuola elementare, ricavate nel palazzo già dei De Capitani di Scalve, e l’ampio giardino retrostante, in parte acquistato  dai Brambilla di Marcusate, Burago, detti marcusà, quando vennero venduti gli ultimi beni di quella famiglia feudataria in estinzione.   E gli ultimi cortili di contadini.  Come la curt del Barba, detto dei bigulitt  con un piccolo granaio sotto il portone di ingresso e  fra le robuste travi, che ne sostenevano il soffitto, ad ogni inizio di primavera nidificavano le rondini; all’interno, su un lato un imponente gelso, una stalla e soprastante fienile;  sull’altro una latrina, un carretto, una stia e... tanta acqua e fango nei giorni di pioggia. Che ricordo, perché da questo cortile, con la fronte sulla acciottolata via Manzoni angolo via Paterini, attraverso una porticina si accedeva al giardino dell’ex Villa Paravicini, in seguito Teruzzi. Per la quale passai nell’infanzia insieme ad Enrico e a suo nonno Felice.  Molti i ricordi che si agitano nella mia mente, come in un caleidoscopio scosso da mano vigorosa, per poterli ridurre in poche righe.
Venne l’adolescenza ed iniziai a pormi le prime domande sui nomi di luogo.  Durante le vacanze estive, con Enrico Teruzzi, amico dagli anni dell’infanzia, quando non trascorrevamo le giornate di pioggia fra libri di narrativa, diari di esploratori o di storia, percorrevamo sotto il sole, in bicicletta, le strade della Brianza. Strade provinciali asfaltate, che avevano ai bordi  paracarri ed indicatori di granito con la distanza e il nome delle località; strade  comunali sterrate, polverose o cosparse di ghiaia; selciate all’interno di  un paese  e dissestate  in un altro.  Attraverso una campagna verdeggiante, macchiata qui e là di boschi, filari di gelsi, sentieri segnati da robinie, che per confini aveva i campanili delle chiese sotto un cielo pulito.  
Usciti da Concorezzo, a Vimercate, superato il ponte del torrente Molgora, la strada saliva leggermente e…Oldaniga… Ruginello.   Qui lo scheletro in pietra della Morte, con in pugno la falce all’ingresso del cimitero,  intimoriva chi, a piedi, si recava da quei paesi al mercato del venerdì a Vimercate o per le visite  a degenti in ospedale. A destra la via per Sulbiate, mentre davanti a noi si apriva la strada di Imbersago, che, dopo un lungo pedalare, ci portava nei pressi dell’omonimo paese, e poi, o su, al Santuario della Madonna del Bosco, o giù, al traghetto per Villa d’Adda.   
A volte, invece, si andava ad Oreno, Arcore, Lesmo e Canonica al Lambro; o da Villasanta  a Lecco in un susseguirsi di denominazioni territoriali,  che distinguevano le località che  attraversavamo.   
I vecchi angoli di quei paesi mi incuriosivano. Altrettanto i loro nomi, che mi accompagnavano talvolta insieme alle sensazioni che quei luoghi avevano sollevato in me.  Mi domandavo come essi si fossero formati e chi li avesse così denominati.  Il professore  di storia che interpellavo  mi dava risposte che, alla luce delle mie cognizioni di poi, corrispondevano alla cultura scolastica del tempo.   Impegnato a ricreare il tessuto vitale del passato attraverso le pagine dei testi scolastici di storia, non credo che egli avrebbe potuto fare altrettanto per l’area oscura della preistoria.    E non tanto perchè per leggere i documenti più antichi vi sia chi sostiene che non occorrono lenti speciali, ma preparazione paleografica e storiografica. Perché una simile preparazione non mancava.  Semmai più circoscritta era  quella sulla toponomastica.  Gli studi di questa disciplina, affrontati con metodo scientifico, sono, infatti, relativamente recenti in Italia.
Le mie domande andavano oltre le parole di Beard : “…la storia di ogni periodo abbraccia tutte le realtà che vi sono  comprese;  ma  la documentazione e la ricerca sono parziali. Ne segue, quindi, che la realtà completa non è di fatto conoscibile da nessuno storico, laborioso, imparziale o costante egli possa essere nei suoi procedimenti…”.  Ed incominciavano ad avvicinarsi a queste altre: “ Gli storici, se intendono scrivere la vera storia dell’umanità, e non semplicemente la storia quale è stata vista da quelle esigue minoranze specializzate che avevano l’abitudine di imbrattar carte, devono guardare con occhio nuovo ai documenti, porre loro nuove domande, ed usare tutte le risorse dell’archeologia, dell’iconografia e dell’etimologia per trovare risposte anche quando gli scritti dell’epoca tacciono…”1 E soprattutto tenere sempre presente che la storia non é ma diviene.  Nel caso nostro, però, si tratta della protostoria che abbraccia poco più di un millennio e che costituisce la parte finale della preistoria in cui si incontrano le età archeologiche del Bronzo finale e  della seconda età del Ferro.   Periodo durante il quale la nostra regione fu in contatto prima con la civiltà etrusca e, in seguito, con  quella romana.  Nel quale l’uso della scrittura come mezzo di comunicazione per la conservazione delle nozioni  qui non era conosciuto.  Non é che il possesso di un sistema di scrittura si identifichi necessariamente con l’intelligenza o la vitalità di un popolo. 
Mentre il limite tra preistoria e storia è il vallo in cui sono sepolte ancora informazioni importanti sulla vita dell’uomo in alcune aree dell’Italia settentrionale.

Il linguaggio e la lingua

Il linguaggio, la capacità elocutoria insita in ogni essere umano, strumento umano del dialogo, è costituito da segni e simboli. “Esso è una specie di terreno sedimentario nel quale sono depositate esperienze ed idee che risalgono a momenti diversi nella storia dell’umanità. Lo studio dell’origine di una parola può rivelarlo non meno dell’analisi dei resti archeologici”.
La comunicazione verbale si fonda specificatamente su segni che hanno un significato convenzionale, linguaggio fonetico e verbale propriamente detto. La lingua è, invece, ciò che si intende parlando di latino, di dialetti o di gerghi.
Mentre la parola é l’atto linguistico individuale, la base strutturale del linguaggio; presa isolatamente è un segno, un segno convenzionale. “ Non tutti i segni, però, sono simboli anche se i simboli sono segni.”  In origine vi erano solamente linguaggi convenzionali gestuali. Dal linguaggio cinetico o a segni l’uomo era passato al linguaggio fonetico e da questo alla lingua scritta.
La linguistica, atta ad individuare le varie tappe dell’umanità riflesse in formule precise, scritte o non scritte, è stato il mezzo di ricerca utilizzato dagli specialisti dopo qualche millennio.  In essa è invalso l’uso di chiamare indoeuropeo il linguaggio del nucleo originario di popolazioni che, provenienti da un’area ai confini dell’ Europa con l’Asia, migrarono in tutte le regioni dell’Europa occidentale e meridionale, sostituendosi, in alcune regioni, a popolazioni preesistenti.
Delle prime tribù protoceltiche di origine indoeuropea stanziatesi, dopo la metà del II millennio a.C., sulle nostre terre, era unica  la parlata primordiale.  Che avrebbe dato origine a molte lingue moderne. E’ stato, insomma, seguendo queste tracce  che  gli specialisti sono giunti ai successivi stadi linguistici che quella parlata varcò.
“ La grammatica comparata delle lingue celtiche, che consentono di ritrovare le tracce di queste lingue scomparse, venne elaborata partendo  dal gaelico d’Irlanda, Scozia e dal bretone del Galles, Cornovaglia britannica e dell’Armorica. I documenti linguistici che hanno permesso di approdare ad una certa conoscenza del celtico continentale sono pervenuti direttamente a noi – iscrizioni in lingua celtica-  o indirettamente- voci passate attraverso autori greci e latini ed introdotti nelle lingue romanze, germaniche… Lo studio dei nomi di luogo ha apportato un contributo molto importante alla conoscenza del popolamento protostorico, poiché i toponimi costituiscono la sola traccia linguistica dell’occupazione di certe regioni da parte delle popolazioni  successive…”, scrive Venceslas Kruta, uno studioso dei Celti. Popoli appartenenti alla famiglia etnica indoeuropea, noti con il nome latino di Galli o greco di Galatai o Galati.
Spetta, quindi, agli specialisti ritrovare il significato delle creazioni antiche o dei nomi deformati, che è la grande maggioranza.  Sebbene sia imprudente persino  per uno specialista affrontare la ricerca etimologica di un nome di luogo facendo assegnamento unicamente sulla forma attuale. In ogni tempo le popolazioni di un paese, che si sono scontrate o amalgamate, hanno cambiato, infatti, vocaboli delle loro rispettive lingue. Lingue che hanno potuto emigrare anche lontano dal loro paese d’origine.  
” La meta a cui deve tendere lo studio scientifico dei nomi di luogo in una data unità regionale è stata giustamente individuata nella ricostruzione dei paesaggi fisici ed umani, in continui rapporti l’uno con l’altro e con l’evoluzione della storia umana. Si tratta di uno studio che i  glottologi rivendicano giustamente a se stessi in quanto nessuno può interpretare a fini storici un toponimo quando non sia in grado di intenderlo come un prodotto linguistico. Spesso, tuttavia, il glottologo tende a lavorare astrattamente, senza tenere adeguato conto del quadro storico-topografico che lega i nomi di una medesima zona. Di qui una certa diffidenza degli storici e l’invito ad accogliere con cautela le conclusioni dei linguisti e, in particolare, dei toponomisti che lavorano lontano da ogni preoccupazione storica…lo storico, tenendosi informato sugli studi di toponomastica condotti dai linguisti, ne fa un uso critico partendo dalla consapevolezza che, nel settore specifico, l’indagine è piena di pericoli e che essa presuppone una conoscenza non superficiale dei luoghi, della rete attuale degli insediamenti rurali e delle fonti che li riguardano. E’ quest’ultimo l’atteggiamento che ci sembra più utile, specialmente quando non richiede di addentrarsi in troppo sottili e controverse questioni di sostrati e parastrati o di riflessi linguistici sui quali è indispensabile l’intervento dello specialista. Le vicende del popolamento e le modificazioni del paesaggio rurale – che si succedono per lo più secondo ritmi molto lenti -- non sempre sono state registrate in modo esplicito dalle fonti scritte né sono facilmente attingibili dallo scavo archeologico o da altre costose e raffinate tecniche di analisi del suolo…”2
E’ stato scritto, altresì, che : “I nomi di luogo consentono di ritrovare o configurare gli spostamenti di frontiere linguistiche su un dato territorio, come nella Gallia cisalpina…Per sostenere  le etimologie, le forme più probanti sono quelle che risalgono  all’epoca gallo romana: sfortunatamente  ben pochi nomi di luogo possono fornire titoli di nobiltà così antichi…è necessario risalire  nel passato e riannodare pazientemente la catena delle forme che l’hanno precedute fino alla più antica di cui la storia faccia menzione… Solo la storia ci insegna se il nome non è stato trapiantato da una regione ad un’altra; la trafila delle forme ci consentirà di scoprire le alterazioni che il nome ha spesso subìto nel corso di un lungo cammino attraverso le epoche, di discernere omonimi recenti che il caso ha riunito, o, al contrario, di ricostruire temi comuni che le fonetiche regionali, l’analogia …”  o errori di scrittura hanno cambiato.
Infatti, quando si fa ricorso agli specialisti, etimologi, linguisti per ritrovare il significato di un toponimo rari sono quelli che si sentono di dare una risposta definitiva.  O, nel migliore dei casi, ricorrono alla grammatica contrastiva: comparano cioè due sistemi linguistici, ne rilevano e ne descrivono le differenze e gli elementi comuni sul piano fonologico, morfologico e semantico. Il non specialista avrà accresciuto le sue nozioni linguistiche; ma nulla più.
L’esperienza da me fatta, prima con etimologi italiani e stranieri allo scopo di conoscere il significato del nome di luogo Concorezzo,  si può riassumere con le parole di Mumford: “L’abilità del non specializzato non consiste nel dissotterare nuove prove, ma nel mettere assieme frammenti autentici contenuti, casualmente, e a volte arbitrariamente, separati, perché gli specialisti tendono a rispettare con troppo rigore il tacito patto di non invadere i territori altrui…Tuttavia, quando tenta di riunire le diverse prove in un mosaico più significante, il non specialista deve rispettare certe regole. Anche quando gli sembra di essere vicino a completare un nuovo disegno, non può tirar fuori furtivamente una tessera che gli si adatti,  come in un puzzle, né tanto meno fabbricarne una che gli permetta di riempire il suo disegno, benchè sia ovviamente autorizzato a cercare quel che gli manca nei luoghi più improbabili. Nello stesso modo deve essere pronto a scartare qualsiasi prova, per quanto cara possa essergli, non appena un suo collega specialista scopra che è sospetta…Tuttavia anche gli studiosi specializzati, sempre pronti a deplorare le congetture, a esse spesso soccombono, soprattutto presentando conclusioni puramente congetturali come se fossero fatti ampiamente provati e senza ammettere ipotesi alternative…”3    
Se il cammino della scienza è disseminato più di ipotesi che di certezze; il cammino della toponomastica è, dunque, solo di verosimiglianze. 

Metrica dell’incertezza
Questa posizione di partenza  mi ha condizionato non poco a scrivere sul nostro toponimo.
Anche se una rilettura del nome di luogo Concorezzo  è  iniziata  con un noto etimologo italiano, Vittore Pisani 4,  il quale, dopo qualche incontro, mi scriveva:”Caro Pirola,…. certo, cum curte regia non fa una piega, da un punto di vista fonetico, ma c’é qualche probabilità che a Concorezzo vi sia stata una tale curtis, e che significato ha il cum?…  Anche il cocculus di Olivieri può foneticamente andare (r per l  è il noto rotacismo di buona parte della Lombardia, cfr. Marignano / Melegnano). Ma (anche, coccurus) naturalmente è un’ipotesi. E allora? Se in tanti casi è difficile o impossibile stabilire con sicurezza l’etimologia di una parola di cui almeno conosciamo il significato, figuriamoci come ciò sia da dire ancora più per un toponimo, il cui valore semantico ci sfugge. Con questa malinconica constatazione…”.  Ne parlai con l’amico prof. Natale, direttore dell’Archivio di Stato di Milano, paleografo e storico.  
Mentre successivamente il prof. Pisani, non discutendo il punto di vista storico, proseguiva :“l’ipotesi di romanizzazione di un toponimo precedente è più che plausibile…”  E, aggiungeva, citando l’Holder in Halt-Celtischer Sprachaltz e il Darmstadter in Das Reichsgut in der Lombardei und Piemont: “ se si volesse parlare di Celti… Concuruz  o., , Concoret,  Conquereuil in Francia; Congretegio a oriente di Monza… Semplice caso? Un grand peut ètre, vien fatto di dire col Rabelais…I toponimi si sottraggono all’evoluzione fonetica o si trasformano nei suoni in modo diverso dalla norma locale…Che dire poi di certi castelli di carta eretti con speculazioni a suon di radici condotte su nomi propri, antroponimi o toponimi di cui non conosciamo il significato ?…Con siffatti metodi si possono sfornare grandiosi e perfettamente inutili descrizioni di lingue poco note..”5  
Qualche contatto con altri studiosi della materia anche fuori d’Italia. Ed i problemi su questa disciplina incominciarono a complicarsi, raggiungendo una sottigliezza che moltiplicò e diversificò domande e risposte. La conclusione: probabilità; ma le probabilità non sono certezze.  Così, a dubbio si aggiunse dubbio.
Fermandomi qui sarebbe stato un modo per risparmiarmi altri problemi; ma soprattutto facili critiche alla conclusione della mia ricerca.
L’interpretazione ufficiale del nostro toponimo, cumcurteregia, rientrava oramai  nella tradizione.  Anche se tale interpretazione non veniva confermata dalle ricerche storiche da me condotte in tale direzione.
Che il folclore sia una riserva inesauribile di miti, leggende, costumi e tradizioni,  una vera e propria letteratura delle società del passato, è fuor di dubbio.  Sono molte le leggende, arrivate sino a noi nel folclore, di genti più diverse, in cui si può riconoscere l’influenza di antichi costumi e di antiche pratiche sociali.  Le tradizioni, formatesi in tempi in cui l’indagine obiettiva era il più delle volte impossibile, hanno creato e spinto innanzi, purtroppo, interpretazioni errate specie di nomi di luogo, tra i quali il nostro, il cui significato era andato perduto da tempo immemorabile.  Ma se  interpretazione e proiezione hanno generato i miti, la cui efficacia deriva essenzialmente dalla credenza; il patrimonio di leggende, proverbi, credenze, superstizioni e pregiudizi derivatone può offrire, però, materia di raffronti. Anzi, in qualche caso, é un primo passo  per scoprire analogie e concomitanze che a volte possono sorprendere. Finita un’epoca storica, il suo ricordo si ritrova quasi fossilizzato e stratificato nelle età successive sotto forma di tradizioni ed abitudini spesso incomprensibili.
Insomma, qualcosa bisognava fare se si voleva superare  la soglia e giungere al significato del nostro nome di luogo.  
Sia pure tenendo presente come, già nel 1794, il canonico Anton-Francesco Frisi avesse iniziato il primo dei tre volumi delle  Memorie storiche  di Monza e sua Corte: ” Non v’è chi non sappia essere stato comune il prurito fra gli antichi Scrittori di dare agli argomenti delle loro storie, o per pompa d’ingegno, o per vaghezza di novità, o per soverchio amore alle rispettive patrie e Nazioni, le origini più remote e sorprendenti. L’autorità di un Autore, qualunque egli sia, che d’ordinario visse molti secoli dopo l’origine pretesa, fu il loro appoggio, o tutt’al più un oscuro e male inteso testo di scrittor non volgare ne somministrò ad essi il debole fondamento. Infatti se noi pure non ci crediamo lecito il fingere, né l’interpretare mal a proposito ciò, che sembrar potrebbe all’intento nostro opportuno; che mai diremmo relativamente alle origini di luoghi veramente antichi, anteriori ai secoli barbari, e dei quali non ci rimane al più che uno sterile cenno di autorevole scrittore, o un’arguta illazione tratta da qualche avanzo di romana grandezza?…”. . 
Anche se quelle sagge parole non erano la risposta che si attendeva chi  mi domandava quale fosse il significato del nome di luogo Concorezzo, scartato il suggestivo cumcurteregia che piaceva  a tutti.

Inverosimiglianze etimologiche?
Non mi restava che riesaminare il passato.
Le domande si affacciavano numerose. Innanzitutto si trattava di sapere come l’uomo percepiva il territorio nel tempo in cui aveva coniato il nome Concorezzo.
O cercare da quale realtà questo nome di luogo poteva essere stato generato.
Iniziai compulsando i cinque volumi  Lexicon totius latinitatis del Forcellini, 1940. Poi, feci di nuovo ricorso al non meno voluminoso Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis,  Caroli du Fresne domini Du Cange, del 1710.
Concorezzo derivava da  congiusrectus (congius = 6 sestari, misura di volume), da cui congiorecto, congorecto (una parola omofona: etto da ecto), dove si fabbricavano contenitori per liquidi, anfore, di giusta misura?  Subito accantonato per il  verbo latino concrescere: formarsi, sorgere, concrescere,  e più esattamente per l’aggettivo  concretus, consolidato, cresciuto, composto di.  Sul quale ebbe presto il sopravvento concretio  che significa: aggregazione di parti, come, per esempio, di coorti romane, di truppe ausiliarie ad una legione. Ma che in geologia ha il significato di deposito minerale o sedimentario,  un significato più concreto per il nostro territorio dove l’argilla non mancava. 
Le figlinae, contrazione di figulinae, oggi figine, giacimenti di argilla nelle quali   lavoravano vasai, figulinai e orciolai, dette più tardi “officine”; in seguito fornaci, in cui si incontrano ancora nel  XV secolo e, più avanti, fornaciai tanto di pietra che di calcina, per la  produzione di mattoni, tegole, lucerne e anfore, erano  diffuse nell’Impero romano. Famosi i mattoni sesquipedali (di dimensioni molto più grandi dei nostri) nella Cisalpina in età repubblicana.  Inoltre, fino alla metà del I secolo d.C. le officine cisalpine esportarono ceramica in buona parte delle province transalpine. Mentre speciali fabbriche di laterizi per l’uso della proprietà e senza scopo commerciale erano nelle grandi proprietà fondiarie. Marco Terenzio Marrone reatino (116-27 a.C.), grande erudito latino che visse tutta l’età sillana e cesariana, storico ante litteram degno della nuova storia vaticinata da Jacques Le Goff, consigliava nel De re rustica, I, 2, (21-23) di porre nei fondi artefici fra i quali i figuli.
Sodalizi di figuli si trovavano nelle fabbriche di laterizi in Gallia. 
Eugenio Ghilarducci  in Antiche genti di Liguria.  Storia di Cogoleto  ipotizzava, infatti,  che questo nome di luogo  potesse significare il posto dove si  cuoce la pietra (coquere lithos), e cioè  dove  i Romani  forse  fabbricavano la calce. Inoltre, in documenti dell’alto e basso medioevo,  Cogoleto  é scritto: Cogoretio, Cogoreo, Cogoretium, Cogoreto, Cogoleno dove la g rappresenta la normale risoluzione di un k intervocalico ed è quindi un caso di fonetica sintattica. E, a volte,  Cocoletum, Cocurezo, Concorezo:  così scritto solo per  errate trascrizioni di scriba?   Non tutti gli storici e toponomasti dell’antica Liguria concordano su questa interpretazione del toponimo, che sarebbe nato, invece,  nei secoli in cui i Liguri erano sparsi fra Italia e Francia, prima dei Celti.
Scriveva sempre Vittore Pisani: “....La lingua celtica, come la germanica, la latina ed altre, hanno specie negli stadi antichi tante somiglianze nel lessico e nella grammatica inspiegabili coll’ipotesi di imprestiti scambievoli in età recente,  che ci è giocoforza pensare che esse risalgano a dialetti i quali un tempo formavano una unità…e forse già inizialmente nel seno della quale si sono venute distinguendo …”.
Non volevo escludere  l’ipotesi che  attribuiva al nostro toponimo un rapporto  con la natura del terreno;  oppure  che la sua radice affondasse in una visione della natura con i suoi contrasti e le sue ambivalenze.  Certamente potevo comprendervi nomi legati a conca, conchiglia che designano una valle a forma di cunetta, derivante dal gallico cumb-, cui si era aggiunto, alternandoli, i suffissi diminutivi ula ed icius. E pure ettus   desinenza, tardo latina, insignificante.  Nomi che erano nati anteriormente alla presenza di Roma nella Gallia Cisalpina, tra le pieghe di una lingua di un popolo più antico.
I nomi di luogo liguri, celtici o gallici  comparvero  scritti nel periodo in cui Roma penetrò ed occupò le Gallie, cisalpina e transalpina.  Essi vennero scritti secondo la parlata delle popolazioni locali  e adattati alla scrittura latina.  Ed ecco che incontriamo nella Gallia Transalpina il nome  Concoret, e in quella Cisalpina il nome  Concoreto o Concoretio.   Se la somiglianza e,  qualche volta, l’identità dei significanti senza la più piccola relazione semantica non è infrequente fra le lingue imparentate; le lingue parenti sono forme della lingua comune  con diversa evoluzione.  Un’evoluzione, però, non significativa per i due nomi.     
E se ogni elemento di lingua si fonda sull’associazione di un significato e di un complesso di fonemi, vale dire sull’associazione di un significato e di un  significante;   nel caso nostro nessuno ha ancora stabilito con precisione  a quale vocabolario di base  essi appartengano.
Mi si spiegò, allora, che bisognerebbe conoscere i nomi di luogo che si sono formati con le lingue parlate nella zona all’epoca della loro creazione e trasformati seguendo le leggi foniche proprie agli idiomi che possono avere soppiantato di volta in volta l’idioma originario.
E si ritornava al sermo cotidianus, la lingua parlata, familiare, di tutti i giorni; al gergo degli accampamenti, sovrastruttura grossolana del linguaggio normale; al latino  deformato dall’incalzare delle lingue barbare, parlate rozze ed incolte.
Che per ritrovare la loro etimologia bisogna conoscere nel suo meccanismo complesso l’evoluzione sul suo territorio del latino volgare e dei molteplici dialetti che si sono sviluppati e che necessitano di studi e ricerche.  Oltre che possedere le nozioni  raccolte dalla scienza sulle lingue che hanno preceduto il latino in Alta Italia.
Ma, se la nostra conoscenza del ligure è quasi nulla, e quella del gallico è lontana dall’essere completa...  E’ vero che a tale insufficienza si cerca di rimediare con il metodo cosidetto delle aree o meglio con la geografia linguistica supportata dalla storia. 5*
Ero giunto a questo punto della ricerca, quando la sollecitazione a scrivere la parola fine all’esplorazione dei fondi d’archivio arrivò dal Centro Civico-Biblioteca, a sua volta sollecitato dall’Amministrazione comunale giunta al suo termine.  Dovetti lasciare com’era il toponimo in compagnia dei miei dubbi, con le altre carte che avevo  ancora da esaminare, e dare alle stampe,  dopo un  rapido  assemblaggio, la  Storia di Concorezzo.

Radici nella preistoria
Insodisfatto, non riuscii a restare inoperoso a lungo, convinto che un prima inesplorato riaffiori sempre. Basta cercare.
Intrapresi l’esame delle carte non entrate a far parte di quella Storia e di nuovi documenti. 
Per il toponimo rilessi quanto avevo citato  nel 1978 alla pagina 17, nota 1: “ La toponomastica se esaminata seriamente e se depurata dalle fantasticherie popolari si riduce a ben poco di interessante. Sarebbe più attraente una raccolta delle false etimologie escogitate da storici e letterati, da giornalisti e da professori, da avvocati e da pievani allo scopo o di gratificare qualche loro asserzione o per creare tradizioni poi dette popolari allo scopo di dare una certa rinomanza al paesello nativo. Quel poco che c’è di serio e di vero nella toponomastica può, però, servire agli studiosi di storia preromana per ampliare le poche cognizioni che abbiamo dei popoli che vissero nelle regioni dell’Alta Italia prima che Roma li assoggettasse e sui loro linguaggi…”. Tutto vero, ma se così l’uomo  avesse continuato a muoversi  trascorreremmo ancora pomeriggi di festa per i sentieri  di campagna ai cui bordi occhieggiavano le violette. Male, bene? Solo chi l’ha vissuto può rispondere, anche se un po’ tardi. Il tempo allora come oggi non si ferma. E l’uomo si succede, generazione dopo generazione, comportandosi come se egli fosse il primo uomo sbarcato sul pianeta terra.
Continuando a cercare mi resi conto che molte radici di toponimi, tra Milano e Como,  indicano chiaramente la presenza di acqua, di corsi d’acqua, di strade e di stanziamenti umani più remoti difficilmente identificabili.
E pure un Accademico dei Lincei, il  prof. Massimo Pallottino, mi parve orientato in tale direzione. Egli, infatti, ricercando le antiche radici delle città italiane, aveva portato alla luce la stratificazione linguistica della toponomastica italiana.  Nel 1987 egli scriveva: “ L’ansia di conoscere i segreti delle nostre antiche origini è sempre più diffusa nella cultura d’oggi. Naturalmente una ricostruzione storica vera e propria è possibile fin dove arrivano, risalendo indietro nel tempo, i racconti e le informazioni delle fonti scritte, siano esse testi letterari o documenti d’archivio o testimonianze epigrafiche. Andando ancora oltre verso il più lontano passato non possediamo che i resti materiali della vita delle società primitive: tracce di abitati, sepolture, manufatti, segni ornamentali e figurati, che pur nella loro scarsa eloquenza ci hanno permesso di intravedere alcune grandi linee del progresso umano. C’è, però, accanto all’evidenza archeologica, un altro genere di indizi che generalmente sfugge alla curiosità degli indagatori e del grande pubblico. Mi riferisco ai relitti rappresentati dai nomi di luoghi, cioè di territori, di fiumi, di montagne, di città, sopravvissuti talvolta con incredibile tenacia attraverso i secoli e i millenni. Essi attestano stratificazioni di presenze umane parlanti, rievocandoli anche quando le loro lingue sono scomparse da tempi remotissimi, così come gli avanzi archeologici mostrano il sovrapporsi di livelli culturali diversi quando si scava nel sottosuolo …la stragrande maggioranza delle denominazioni di città, regioni, fiumi, montagne d’Italia attestate dagli scrittori classici e dalle fonti epigrafiche di età romana, non è creazione latina di questo periodo. Pur nella comune forma latinizzati si tratta di un patrimonio linguistico antecedente alla romanizzazione, estremamente eterogeneo e sovente antichissimo…Ci troviamo qui di fronte ad un fatto  sorprendente perché è lo stesso nucleo essenziale della toponomastica italiana che ci viene sì tramandato dall’antichità classica,  ma ha in verità le sue radici nella protostoria e nella preistoria. La fase romana di questa nomenclatura non è che un fenomeno di trasparenza… Il fatto è che se si va  più in fondo ci si accorge che per tanta toponomastica di base riguardante contrade, centri abitati, rilievi, soprattutto fiumi, non esiste la possibilità di spiegare l’origine delle parole con il vocabolario di lingue conosciute; ma quel che più conta si incontrano impressionanti corrispondenze con nomi geografici di tutto il Mediterraneo e in parte dell’Europa….Si è potuto così pensare all’esistenza di un popolamento del nostro Paese anteriore al diffondersi delle lingue indoeuropee e delle genti che avranno una funzione storica. Ed è alle stratificazioni linguistiche di questi abitatori preistorici, in parte comuni con aree geografiche più o meno collegate con l’Italia, che saranno da attribuire le designazioni geografiche conservate con incredibile durevolezza attraverso il lungo svolgersi del tempo…”
Quindi non  solo affinità foniche. In molti casi, una nascita per irradiazione da un  abitato originario prossimo, ma anche lontano.
Nelle interpretazioni del significato di un nome di luogo proiettare i problemi nell’antichità, nella prelatinità, come abbiamo visto, non è raro.  Altrettanto studiare i nomi di luogo per avvicinarsi alla conoscenza del popolamento protostorico.
E qui, per la preistoria, entra in campo il non specialista. Il quale dovrebbe riunire settori separati, e palettati dagli specialisti, in un’unica area.
Incominciamo a domandarci: se per  il nostro borgo mancano iscrizioni e  reperti archeologici, lo si deve  solamente a quello che avvenne nel borgo tra l’Otto e il Novecento; e cioè a scavi casuali e selvaggi dei cui esiti pochi seppero e il loro sapere con essi scomparve? 
Effettivamente non mi è noto  se  da noi possano esservi state  testimonianze di scrittura antiche.
Magari non come l’iscrizione incisa su un gradino di arenaria di quasi quattro metri scoperto nel 1966 a Prestino, nell’area dell’abitato protostorico presso Como, datata, per i caratteri arcaici dell’epigrafe, fra il VI e il V secolo  a. C.  Le iscrizioni, scoperte e decifrate,  in caratteri dell’alfabeto etrusco, appartenevano alla cultura detta di Golasecca. Località, oggi in provincia di Varese, che fu centro di commerci con Etruschi e Celti transalpini. La cultura di Golasecca, attribuita a stirpi Liguri, era diffusa in Piemonte, Lombardia e Liguria, occupando cronologicamente  la fine dell’Età del Bronzo e l’arrivo dei Romani. Essa prese il nome dalla vasta necropoli ad incinerazione detta di Golasecca  dove aveva il suo epicentro.
L’archeologia protostorica ha chiamato convenzionalmente golasecchiani la gente di una cultura della prima Età del Ferro. Una popolazione celtica insediatasi nell’Italia del Nord, area lombarda prealpina fin quasi al fiume Serio, parte del Piemonte, Canton Ticino e Val Mesolcina nei Grigioni, a partire dal IX a. C. Della quale sono stati scoperti numerosi centri demici, gli uni a breve distanza dagli altri.  La cultura di Golasecca svolse la funzione di intermediario nello sviluppo dei commerci fra mondo mediterraneo e mondo centroeuropeo.  Il commercio dell’Etruria padana  con i paesi del Reno e del mare del Nord passano da Golasecca. Ad essa appartenne anche  la sponda occidentale del Lambro.  Lo testimoniano i ritrovamenti del maggio 1966 alla cascina Marianna di Biassono.
Concorezzo, invece, a sud-est, e poco più discosto dal Lambro di Biassono, ma sempre sulla sponda, sia pur orientale, dello stesso fiume, a quale cultura celtica appartenne? 
Non si può addebitare proprio e solamente alla storia, a lungo aristocratica, con le sue preferenze interessate,  la perdita di un tesoro di memorie,  quali centurie epigrafiche scolpite nella memoria, tramandate a voce da quei primi abitatori che  conservavano religiosamente ciò che  gran parte degli storici può avere dimenticato per le più svariate ragioni.  Anche se i ricercatori di storia hanno compreso con precisione in quale enorme misura si sia stati influenzati dai documenti storici. I documenti scritti ai quali ci si affidava nel passato rappresentavano, salvo rare eccezioni, la voce del sovrano e rispecchiavano il suo modo di pensare e le cose di cui esso desiderava parlare. Non certo quello dei nove decimi della popolazione che rimanevano analfabeti e privi di mezzi di espressione.
Per questo non si deve tralasciare di indagare alcun punto non chiarito in questa ricerca:  come si può intuire, vi è ancora un mondo che attende di essere portato alla luce.
I più antichi testi scoperti non lontano da noi sono stati giudicati anteriori all’invasione storica dei Galli dell’inizio del IV secolo a.C.  e depongono per una celticità di quella popolazione. E la lingua celtica ante 400 a. C. ha caratteristiche comuni  con il gallico.
“ Non è più possibile considerare i Celti cisalpini come un insieme monolitico e immutabile. I grandi popoli del III secolo sono apparentemente il risultato di evoluzioni complesse e in parte divergenti…” sottolinea il Kruta.
“I Celti continentali arrivano al passaggio dalla protostoria alla storia conoscendo la scrittura e lasciando un numero relativamente alto di documenti epigrafici: iscrizioni, graffiti, legende monetarie. Il loro carattere laconico non consente di utilizzarle per ora come fonte storica, servire agli studiosi di storia preromana per ampliare le poche cognizioni che abbiamo dei popoli che vissero nelle regioni dell’Alta Italia prima che Roma li assoggettasse e sui loro linguaggi…”.   

Il nome Concorezzo dall’oralità alla scrittura

Se,  dopo un numero imprecisato di secoli, l’uomo è passato dal linguaggio cinetico al linguaggio fonetico e  da questo alla trascrizione fonetica, non mi rimaneva che tornare ad osservare la grafia del nostro toponimo. 
Esso lascia l’oralità per la scrittura solo nel 700, secolo in cui ritroviamo documenti sul passaggio di proprietà immobiliari nel vico e nel territorio di Concoretio?  I nomi di luogo, che sono particolarmente conservativi, hanno serbato traccia dell’ablativo locativo, nel caso nostro Concoretio.
Le parlate celtiche delle Gallie (trans e cisalpina) vennero con Roma  uniformate, dando una forma all’alfabeto orale di quelle popolazioni.  Da qui Concoretio… Concoret…Concorés…
A questo punto potrebbe esservi ancora chi si domandi come  un nome abbia potuto attraversare un lungo periodo di tempo oralmente. Tale modo di tradizione nell’antichità  non costituiva l’eccezione, ma la regola. Basti pensare  all’epica omerica della quale non è mai esistita, e per più di tremila anni, una versione scritta. I suoi diecimila versi sono stati tramandati da cantastorie e da aedi di corte. Fino ai nostri anni Settanta non esisteva alcuna fonte celtica  antica di carattere storico. Quasi tutto quello che si sapeva sugli avvenimenti di cinque secoli della protostoria celtica lo fornivano i testi greci e latini.
Anche per il gaelico d’Irlanda, la lingua nazionale celtica, la più significativa ed importante, i documenti più antichi sono gli scritti in latino di S. Patrizio del V secolo della nostra Era, preceduti, però, da antichissime tradizioni orali gaeliche trasmesse dalle scuole dei Filì, cantori e poeti depositari delle concezioni pagane. Ai Celti appartiene pure un ciclo di contenuto mistico cavalleresco il cui eroe è Percival, più noto con il nome di Parsifal. Il cristianesimo ha conservato nei paesi celtici tracce delle antiche credenze, in Irlanda, Scozia e Bretagna, come la leggenda del santo Graal. Ma dobbiamo arrivare al VII secolo perché esse prendano forma e vengano tradotte in forma scritta. Quando già le versioni originali hanno subìto trasformazioni e assimilato influenze della letteratura classica e della cultura monastica.  Inoltre di questa prima produzione  sono arrivate fino a noi soltanto rielaborazioni dei secoli XII-XVI.  Delle tradizioni  di quei  Celti, che  erano arrivati in Irlanda fra il 600 e il 500 a. C. diffondendovi la civiltà del Bronzo e il sistema tribale, che continuerà in epoca storica, e fissando i caratteri etnici e linguistici dell’isola, non si raccolsero che le poetiche.
Il nome Concorezzo, quindi,  non ha faticato a superare i secoli attraverso le voci di tutti coloro che vi  hanno vissuto. Pur avendo perso per chi lo pronunciava, il suo significato originario: prima o dopo la presenza romana? Un’altra domanda alla quale potrebbe non esservi risposta.
Alle storpiature  del nome antico secondo le caratteristiche fonetiche dei dialetti locali si unirono  con il trascorrere dei secoli alcune libere trascrizioni di amanuensi  e la ricostruzione erudita di notai. Era più facile per la gente comune adoperare un vocabolo barbarico, che udiva ogni giorno, anziché il corrispondente latino, prestandogli il notaio desinenza e forma latina nella veste esteriore.  
Ma quando esso passò veramente dall’oralità nello scritto per la prima volta?   Nel IV secolo, quando Milano fu capitale politica e sede dell’Impero d’Occidente, esercitando un’influenza sull’economia della Padania, mentre Monza fu frequentata dalla corte imperiale?
Alla metà del III secolo d. C. gruppi di Alamanni  raggiunsero Milano.  Se pur respinti, nell’Italia settentrionale venne a crearsi una situazione di pericolo che costrinse alla difesa. A Milano si insediò la corte imperiale ed alla regione fu restituita una funzione di controllo militare. 
Venne pure rimarcata la centralità di Milano quale nodo principale non soltanto della rete viaria, ampiamente restaurata in questo periodo come attestano numerosi miliari. Mentre la trasformazione  della città in capitale comportò la sua ristrutturazione urbana ed al tempo stesso un consolidamento delle difese in tutta la regione. In simili condizioni i villaggi sparsi per il territorio vennero acquistando importanza secondo la loro posizione strategica. L’assetto urbanistico di Concorezzo  ne risentì in qualche misura? 
L’antica Cisalpina era considerata, ormai, mediatrice commerciale di prodotti locali, come lana e suini,  e, soprattutto, di generi d’importazione dall’Adriatico verso le Gallie e viceversa. 
Intanto l’incremento demografico delle popolazioni d’Oltralpe non conosce confini nè eserciti. Ed é quando le popolazioni germaniche accrescono la pressione ai confini dell’Impero che la decadenza di Roma si rivela nella sua realtà.
Nel 410  l’imperatore Onorio, figlio di Teodosio,  sotto la spinta dei Visigoti di Alarico  trasferì la capitale da Milano a Ravenna essendo  divenuta insostenibile la difesa della città e della regione. Questa crisi portò alla decadenza estrema il prestigio di Roma.  Insieme al resto decadde la rete viaria che collegava gli antichi insediamenti; gradualmente scomparvero le vie consolari per la totale mancanza di manutenzione. Rimasero le pietre miliari, o pilastrelli, divelte o disperse. Gli abitanti delle campagne che le trovarono in seguito,  ignorando che cosa esse fossero veramente e da dove venissero,  le scambiarono, per le iscrizioni  che portavano incise non più leggibili, per oggetti  misteriosi o sacri. E, in più di un caso, attorno ad essi buona parte di quei rurali, convertiti al Cristianesimo, eressero oratori o chiesette.
Le scorrerie di Goti e Unni non risparmiarono alcuna parte della pianura padana  sconvolgendo l’assetto rurale romano, dalla rete viaria alla divisione agraria ed alla regolamentazione delle acque.  Non migliore fortuna toccò alle proprietà dei Romani e degli Italici.  
Ancora nei primi anni dell’occupazione longobarda  Paolo Diacono  accenna, parlando dei dieci anni di anarchia seguita alla morte del re Clefi: 6 ” …In questo periodo molti nobili Romani furono fatti uccidere per soddisfare l’avidità dei vari capi longobardi; gli altri Romani furono divisi fra i conquistatori e assoggettati al pagamento di un tributo, in ragione di un terzo delle loro rendite…”.     
Poi i  Longobardi fecero proprio l’ordinamento fondiario  dell’età romana,  come Roma aveva fatto, sconfitti, da Lucio Valerio Flacco, Boi ed Insubri nel 194 a.C.   “Roma, scrisse il Bognetti, annette al demanio pubblico una porzione delle terre dei vinti: generalmente il terzo, qualche volta la metà o i due terzi” ;  confiscò terre  anche per collocare colonie di veterani italici. L’afflusso di coloni, distribuiti nei territori attorno a Milano fino a Como, fu di una certa consistenza numerica. La fusione fra la popolazione che qui già viveva e i nuovi arrivati si è rilevata dal tipo di sepolture scoperte nel comasco.  Colonus equivaleva a contadino, che riceveva un appezzamento di terreno quale ricompensa per il  servizio prestato allo stato romano, venendo inserito così in un contesto rurale.
Ma  noi vediamo scritto il nome Concorezzo quando il regno longobardo volge quasi al tramonto e  tutto è rientrato nella normalità. Ed anche conoscere ciò che accadde pure nel nostro territorio dal 295, anno in cui l’imperatore Massimiano Erculeo stabilì in Milano la sede dell’Impero, a questo momento, sarà meno impossibile che per il millennio precedente, ma richiederà  pur sempre un’altra precisa e determinata ricerca.  Ed anche molto importante, perchè da qui incomincia la  storia scritta  di Concorezzo. Un periodo  che merita di essere studiato é quello che va dagli inizi del 600 alla fine del regno dei Longobardi. E’ in questo secolo e mezzo che si possono ancora trovare informazioni utili per la nostra storia: più probabilmente in Vaticano o in Germania. Quando Monza é frequentata da quei re e dalla loro corte, non solo per la caccia, il territorio di Concorezzo é più esteso di quanto non lo sarà dopo il 1300.  
Allo stesso periodo appartengono  la chiesa dedicata a S. Andrea 6* e quella dedicata a S. Floriano,  in seguito, per soppressione di una vocale, S. Florano e, quindi, forse per adeguarlo al parlato, S. Fiorano, ad XII lapidem (al dodicesimo miliario, miliarum, ossia una pietra miliare romana)  a 12 miglia romane sulla strada consolare Milano-Monza-Olginate ed un’altra chiesa con la medesima dedicazione a Concorezzo di Lacchiarella.
Quando, invece, negli anni Settanta fui a Concorezzo di Lacchiarella, trovai un bel cascinale; mentre avanti il Mille locus de  Concorezo  faceva parte della pieve di Decimo (ad X lapidem, al decimo miliario),  località inter Mediolanenses et Papienses  oggi scomparsa, sostituita nel 1500 da Lacchiarella. Nel 1010: Concoretio qui est non longe de vico Corliasco, in Atti privati milanesi e comaschi del sec. XI di C. Manaresi e C. Santoro vol.I, p. 103, n. 43. riga 25.
S. Floriano  fu  un santo venerato dai Longobardi del quale  è rimasta traccia  in alcune parti del Veneto, oltre che essere oggi il patrono dei vigili del fuoco tedeschi.
La dedicazione a quel santo delle chiese situate nelle due località omonime può indicare l’interessamento di uno, o più rami, di una  importante famiglia longobarda a questi territori. Una famiglia, forse  vicina alla corte reale visto il privilegio di re Liutprando. 6** Oltre la chiesa di  S. Floriano  in quel Concorezzo vi era anche, come nel nostro, una chiesa dedicata a S. Andrea.    Esse sostituirono su importanti incroci viari di epoca romana, fra  un cardo e un  decumano per la centuriazione dei terreni iniziata nel I secolo a.C. (le centurie, quadrati di cento iugeri, avevano il lato di 500 passi, pari a 740 metri),  i tempietti o  delubra in genere dedicati a Mercurio, protettore dei viandanti con scritte propiziatorie  come Iter para totum, proteggi il cammino. E nel IV-V secolo essi vennero assorbiti dalla religione cristiana e trasformati in cappelle o oratori dedicati a santi, sempre con scopo propiziatorio. 
Tra il Cinque e il Seicento  Concorezzo di Lacchiarella è chiamato Concoredo.
Ma il nome Concorezzo era presente anche in località dell’Alto Milanese come  l’attuale Casorezzo, Cogoretzo, Cogotzago, Cogorezo, Consorezio, (il k in g nella toponomastica lombarda), e Congretegio, che Von Paul Darmstadter riteneva identico al nostro Concorezzo. Anche Coarezza di Somma Lombardo di oggi  era nel IX secolo Cogoretzo. Ed altre località dello stesso nome, che in seguito lo hanno cambiato o sono scomparse. 
Tra i possessi foresi della Fabbrica del Duomo di Milano compaiono tre Concorezzo: 1° nel vicariato di Binasco (Lacchiarella 1518-1536); 2° Olzate (Olgiate Olona 1390-1400) e 3° Vimercate (1415-1519).
Ho esaminato dei diplomi,  dei placiti,  qualcuno in copia posteriore; ma soprattutto degli atti notarili e delle donazioni, anteriori al Mille.  Tra le pergamene della Collegiata di S. Stefano in Vimercate dall’XI al XV secolo per noi di grande interesse storico ed ecclesiastico; tra quelle del Monastero di S. Ambrogio, e di Chiaravalle per Concorezzo di Lacchiarella, tutte  in Archivio di Stato di Milano Fondo Religione,  riguardanti i periodi franco, sassone e francone. Come pure nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani; nei Familiarum Commenta, lettera C parte II, di Raffaele Fagnani in Biblioteca Ambrosiana; nel Codice santambrosiano; nell’Indice corografico di Monumenta Historiae Patriae, topografia storica; nel Codex Diplomaticus  Langobardiae ed in Lettura di località in documenti anteriori al Mille a cura del conte Luigi Fumi, che fu all’ Archivio di Stato di Milano. 
La grafia di Concorezo, riscontrata in essi, fra quella interpunzione a lungo scarsa e confusa, non subisce alcuna variazione di rilievo.  Ecco la grafia del nostro toponimo ricavata dalle carte da me viste per i secoli VIII-XVIII:
727, Concoretio, in  un minuscolo frammento di pergamena del XII secolo,  qui rosicchiata là illeggibile, alla quale nella mia trascrizione  apparsa in Il Cittadino di Monza, ho posto tra parentesi una probabile ricostruzione. Vi si faceva riferimento ad un privilegio del re longobardo Liutprando  di cui l’Archivio della chiesa milanese di S. Maria presso Porta Orientale conservava  memoria al tempo della stesura del testamento di Ariprando e Gisla. Le loro proprietà in Concorezzo, il cui territorio comprendeva ancora la località S. Floriano,  furono legate alla chiesa della Passarella in Milano nel 1130. L’atto relativo  è stato da me rinvenuto nella antica e nota Fiera milanese detta di Senigalia. Esso era in cattive condizioni e venne da me ripulito, trascritto, edito ed infine donato al Comune di Concorezzo;
745, Concorezio, nel testamento di Rottepert di Grate, vir magnificus. Questo testamento fu copiato il 3 aprile 1209 da Suzo Gambaro, notaio arcivescovile. L’originale perì e ne rimase questa copia, trascritta da Cesare Giulio della Croce  ed  entrata a far parte del suo Codice diplomatico milanese, in 31 volumi, conservato presso la Biblioteca Ambrosiana.  Don Giovanni Maria Dozio, dottore dell’Ambrosiana, lo riportò in Notizie di Vimercate. Il testamento di Rotperto è riportato pure in: Fonti per la Storia d’Italia, I, n.82, pp. 239-244, a.745 aprile, 1929-1933 Roma; Codice Diplomatico Longobardo a cura dello Schiaparelli e in Atti del Comune di Milano fino all’anno MCCXVI p. 439, n.320, a cura del Manaresi. Il documento fa oggi parte della raccolta del Museo Diplomatico Longobardo, Atti Pagensi del secolo VIII.
La  trasformazione della ti in z che qui, come più innanzi compare, risale al latino volgare (III-IV secolo d.C.).
769, Concoretio, in testamento, del 19 agosto, di Grato, diacono della Chiesa di Monza,  che la datazione topica ci dice che si trova in Pavia (Actum Ticinum feliciter).
Nel 774 Carlo Magno pone fine al regno longobardo iniziato nel 568.
Nell’804, Cogorezo; nell’807 compare Cocoretztzo e Concoretzo, nel contado del Seprio, dove Draco o Drago del fu Rodemondo abitante nel vico di Luernaco (Lovernaco, in provincia di Brescia), ha proprietà che vende l’11 settembre a Veroalcherio, alamanno; la medesima località tra il 780 e l’810 è scritta anche Cogaretzo, segnalato nel 1916 in Nota corografica su alcuni nomi medioevali in Lombardia di C. Massimo Rota e da Gianluigi Barni, nel 1938, in Alamanni nel territorio lombardo, ripreso dal C.D.L., n.84;  
nell’850  Concoretio  e nell’853 Concorezio,  e nella cartula ordinationis (disposizione testamentaria) i fratelli Deusdedit e Senatore, “forse officiali in Sant’Ambrogio”, dispongono che l’oratorio di S.Eugenio in vico Concoretzio passi in proprietà alla Basilica dei SS. Cosma e Damiano in Baragia;      
nell’892 Concorecio; nel 941,  in una carta del Monastero di S. Ambrogio  si legge:  Vitalis negotians fq Delberti (il commerciante Vitale fu Delberto) del vico Concorecio;
nel 1010, in Atti privati milanesi e comaschi del secolo XI a cura di Cesare Manaresi e Caterina Santoro, Concorecium e Concoretium. 
Cucuretio,  é scritto in un diploma di re Enrico III del 22. 2. 1045 da Augusta. Fonte: G.P. Puricelli, (secondo il quale Ariberto da Intimiano sarebbe morto nel 1046, non nel 1045 anno in cui avrebbe visitato Monza) De SS. martyribus Arialdo Alciato et Herlembaldo Cotta mediolanensibus, Milano 1657, libro IV, cap.93, num. 12, con il quale egli conferma ai monaci di S. Dionisio fuori delle mura il possesso di beni lasciati loro dall’arcivescovo Ariberto loro protettore e fondatore (a.1023 o 1024) di quel monastero.
Il vuoto che rimane sul momento storico che precede la nascita, e pure la segue, del nostro borgo si può ancora riempire: qualche documento esiste, va solo ricercato con pazienza e...fortuna.
Nel 1098 Concorezo, in carte del  monastero di S. Ambrogio, e Concorecio.
A partire dall’XI secolo il nome del borgo muta la t in z, salvo qualche eccezione.
1100  prima metà Concorezo:  compare fra 15 località della pieve di Vimercate, per decime della stessa pieve,  scritti sul retro della prima pagina di un salterio del IX secolo, forse allora  a Vimercate, ora alla Bayer. Staatsbibliothek,  già Biblioteca reale, a Monaco di Baviera.
11. 4. 1100 (regno italico), in carte del monastero di S. Ambrogio: Otta vedova di Giovanni, de loco Concorezo, qui lascia casa e terre alla chiesa e cella di S. Damiano esistente in Baragia (Gerardo giudice e messo del re intervenne rogò e scrisse; e Ambrogio notaio e giudice del Sacro Palazzo scripsi et tradidi complevi et dedi).
8. 12. 1138, Concorezio; nel 1172 si legge  Concolezo; nel 1219, Concholezo;  il 19. 1. 1220, per investitura di terra nel borgo di Concorezo in località S. Floriano, in pergamene dell’Archivio Plebano di Vimercate conservate nell’ Archivio di Stato di Milano. Nel 1224,  Concorezum; 1227, Congorezo; 1237 Concoretio: frater Cretius de Concoretio et frater Zanabellus de Concoretio presso l’Ospedale del Brolio in Milano.
1321,  Concoregio, è scritto in pergamena dell’Archivio Arcivescovile Ravennate riguardante i familiari  del defunto arcivescovo Rainaldo, che nel 1304 sono detti ancora de Concorezio
Il  “magister Gabriel de Concorecio, Gramatice et Retorice professor”, come il professore si firmava,  divenne Gabriel de Concoregio nel Quattrocento. Il Crollalanza, nel suo  Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, vol. I  p. 314, scrive: famiglia “originaria di Milano e stabilita in Verona, fu ascritta al nobile consiglio nel 1421”.
Altro Concoregius Johannes, Lucidarium in practica medicinae Cod. chart. Sec. XV in Biblioteca Ambrosiana.  Nel Cinquecento incontriamo un letterato di Pavia, Mercurio Concoregio, autore de “Intorno al disporre con ordine i concetti”, pubblicato a Milano nel 1563.
A Lodi visse una famiglia Concoregio.
Ma per un amanuense non locale anche scambiare Correggio per Concoregio o viceversa non era cosa proprio insolita. Leggiamo, ad esempio, in Storia di Milano scritta da Giovanni Andrea Prato, patrizio milanese, in continuazione ed emenda del Corio, dall’anno 1499 sino al 1519, sotto l’anno 1511, il 10 giugno, “messer Carlo de Ambrosia, gran maestro et regio locotenente” del re di Francia Luigi XII,  “a Corezzo morì”. Questo Corezzo, è Correggio, come si legge chiaramente nella Chronica di Antonio Grumello, cap. VI: in quel castello morì il d’Amboise. E Corezzo diviene nella pagina seguente  Concorezzo. 
Se non si verificano almeno dati, nomi e località non è impossibile perpetuare notizie incorrette.  Verificare sempre, dunque, la certezza dei dati acquisiti.
L’Argelati, in Bibliotheca Scriptorum Mediolanensium Acta et Elogia, 1745, due volumi – Syllabus Scriptorum exterorum sed mediolanensibus adjacendi per nomina digestus, usa nel tomo I, parte prima, pagine.451-452,  De Concoregio Raynaldus (1321) e nel tomo II parte seconda, Appendix pagine.1753-1754, De Concoretio Arditio (1324). 
1489, Concoretio, in carte dell’Archivio Plebano di Vimercate.
1689, nel testamento di Pirro de Capitani e nella loro Genealogia è scritto: Concoretium e Concorezzo, non Concoregio.
Stando così le cose, operando sullo studio dell’origine dei nomi  va tenuto presente  che al pari del cognome il nome di luogo può avere subito variazioni dialettali, forme contratte, diminutivi  o errori dovuti ad errata trascrizione.
Il  nostro toponimo, invece, delle interferenze fra orale e scritto, dalla lingua parlata alla lingua  delle cancellerie, salvo qualche rara storpiatura dei locali,  ha attraversato i secoli  quasi inalterato. Una vitalità che fu legata quasi sempre alla maggiore o minore cultura degli individui che pronunciavano Concorezzo in un modo, mentre il notaio e l’amanuense lo interpretavano in un altro. Lo scrivano, o il notaio, redigeva o trascriveva un testo in latino.  E latinizzava i nomi di luogo con le desinenze richieste dal testo, per armonizzarli con il contesto.
La lingua scritta, il cosidetto medio latino, vale a dire il latino scritto dal 400 d.C, al 1300, si staccò dalla lingua parlata dal popolo, che, dopo la fine dell’Impero romano, divenne una babele di dialetti.   Mentre al medio latino seguì il volgare.
Fu allora che per il nome di luogo Concorezzo scomparvero del tutto quei vocaboli che avrebbero potuto ricordarne il significato, reso così astratto, opacizzato, fino ad oscurarlo completamente nella sua percezione? Destino toccato, del resto, ad un gran numero di nomi di luogo, che, in genere, per chi parla non significano nulla, designando soltanto quella determinata località. Come ad ogni parola uscita dalla lingua parlata venuta meno la cosa o la funzione che rappresentava.
Per quel che concerne il nostro  toponimo le  dotte,  suggestive, folcloristiche denominazioni del periodo storico  sono dovute a come esso venne gestito dai notabili locali che ritennero nobile soltanto Concoregio.  Le variazioni in seno alla società sono state sempre lente e graduali. Alla continuità, in un ambiente nel quale quasi ogni azione era regolata da tabù e da riti, provvedevano le usanze e le abitudini fissate dalla tradizione. Non è che questa sia stata una peculiarità di Concorezzo: la si riscontra in ogni regione d’Italia. Non meno in Francia ed  in altri Paesi.  Ciò dimostra o testimonia, semplicemente, l’interesse degli uomini  per il significato del nome del luogo in cui essi nascono e vivono.

Testimonianze sepolcrali
Qualche frammento di testimonianza riguardante il territorio concorezzese anteriore all’età longobarda potrebbe esistere ancora. Anche se dei ritrovamenti casuali posteriori sono note solamente descrizioni sommarie. Non sappiamo, ad esempio, se nel nostro borgo vi fu chi intravide ciò che esistette nel passato sotto le costruzioni attuali. Impossibile sarebbe, oramai, per la realtà urbana odierna, una indagine archeologica in estensione di ciò che è posto sotto l’abitato.  In particolare un intervento di archeologia preistorica, per lo studio delle tombe, del paesaggio e soprattutto  degli strumenti di lavoro delle età passate, nella loro evoluzione e nelle  loro ripercussioni sul modo di vivere di quegli uomini.
Come sperarlo, se persino la cassa  di sarcofago in sarizzo, priva di coperchio, che compare nella Storia di Concorezzo,  da me fotografata nel 1975 in via Libertà 83 dove era stata utilizzata quale vasca per l’acqua, è scomparsa nel nulla.
Altri avanzi di sarcofagi in pietra  rinvenuti durante i lavori di restauro dell’Oratorio di S. Antonio vennero fissate alle sue pareti esterne.
Nella zona, malgrado la persistenza degli usi e delle tradizioni funebri, se si esclude Monza, pare non sia stato trovato nulla che vada al di là della semplicità che caratterizza i reperti conosciuti. Le testimonianze dirette che si dice siano state ritrovate nel nostro borgo sono, dunque, mute.   Il fascino che l’oggetto può avere  esercitato,  lo ha esercitato a scapito dell’ambiente in cui si trovava, e ci ha privati di un’informazione più preziosa di quella fornita dall’ oggetto stesso.
Già Cesare Cantù, parente dei nostri Villa Pernice,  scriveva: “…urne si scavano spesso…”.  Ed, a sua volta, circa mezzo secolo più tardi, nel 1890, il monzese don Cesare Aguilhon: “…Varii ipogei, loculi isolati o poliandri dell’età romana, furono discoverti in questi anni passati; ma andati a ruba prima che la erudizione potesse occuparsene non se ne conosce l’importanza. Uno di questi in uno strato argilloso presso Concorezzo…diede molte monete dell’età imperiale, di cui lo scrivente vide pieno un vassoio presso un orefice monzese, le più di bronzo, e vi osservò assai numerose e meglio conservate quelle di Costantino Magno. Mi si assicura altresì che olle ed altri vasi fittili della stessa provenienza veggonsi in case private del paese. In un lembo dello stesso terreno il proprietario ing. Carlo Quirici ( ultimi proprietari del campo bianco, della fornace di mattoni sulla strada per Monza, mia nota) il 7 luglio del 1872 potè assistere al discoprimento di un loculo ancora intatto, e ritirarne gli oggetti, che danno una vantaggiosa idea di quella necropoli…Essi sono: una moneta di Antonino Pio in bronzo modulo grande, una ampollina per aromi di vetro azzurrognolo opalizzato…e due vasi di terra cotta. Ma l’oggetto di maggior momento è una grande patera, in sottile lamina di bronzo, e perfettamente conservata, che era ricolma di ossa combuste e rivestite di argilla. Il vaso per sagomature e giro di fogliette non manca di pregi artistitici,,,”.
Altre tombe vennero scoperte nel 1926. Una descrizione dettagliata  di questi ritrovamenti tra le vie Sauro - Volta,  è del 1927.  Da me ripresa parzialmente nella Storia del 1978.  7 
Don Antonio Girotti, parroco  pro tempore del borgo, dal 1926, affermatosi il fascismo, iniziò, come egli scrisse, a temere quasi più per i beni del beneficio parrocchiale che per la sua persona. Egli decise, allora, di utilizzare, in sostituzione del Chronicon,  Quaderni riservati per le annotazioni di attualità politica, sociale e varie. Dal Quaderno n. 4 maggio 1926-nov. 1928, alla data  20 settembre 1926 , egli annotò:  “Scoperta di tombe con vasi etruschi in terreno di proprietà Villa. Oggi i muratori scavando nel terreno in via Agrate di recente acquistato dalla ditta Fratelli Villa dal proprietario Massironi Battista con permuta di altro terreno vicino hanno trovato alla profondità di cm. 50 una tomba contenente carbone con terriccio nero ed un’anfora contenente una moneta d’argento di Cesare Augusto, una piccola lampada ad olio ed uno specchietto d’argento con vari cocci di terracotta. Poco tempo dopo i figli del signor Antonio Villa vollero tentare altri scavi e trovarono nelle vicinanze della prima un’altra tomba con una bell’anfora, cocci, carbone, terriccio e una grossa tegola. La moneta d’argento con una piccola anfora fu portata dal sac. don Cesare Villa, figlio del signor Antonio nel Collegio Pio XI di Desio dove è direttore. Una lampadina con un’anfora e vari cocci furono donati dal figlio Vittorio Villa  al signor (Cavallazzi), professore d’antichità presso  (manca il nome della scuola) di Milano, ed una grossa anfora…con cocci…(la scrittura non é chiaramente leggibile) si conserva presso la famiglia Villa. Il suddetto prof. ha dichiarato che tali tombe sono etrusche e dietro a queste scoperte potrà dimostrare la sua idea che tali popoli bruciavano isolatamente i corpi dei defunti, seppellendoli in mezzo al carbone che poi veniva acceso”.    
Anche sui tipi di tombe rinvenute le fonti locali hanno lasciato cenni che sono insufficienti a fornire un quadro preciso sui  periodi ai quali gli oggetti  sono appartenuti.  Quindi, è questo un altro angolo di storia concorezzese da indagare, con non minore senso critico riservato ad ogni altro angolo di storia,  in maniera da stabilire se le ricostruzioni arrivate a noi siano solo incomplete oppure  riportate senza la verifica necessaria. Questo per non creare, aperto l’album delle leggende,  altre eredità da collocare accanto a cum curte regia.    Difatti furono  proprio tali scoperte, una macina per cereali, un’ara,  piccole pietre e resti di sarcofagi a dare peso alla tradizione di Concorezzo romano.  Una tradizione che gli esperti non hanno potuto né valutare nè  confutare in mancanza di tutto il materiale ritrovato. Che comprendeva quello da lavori agricoli o a seguito dello sradicamento di alberi dal Settecento  a fine Ottocento.   Causa principale ne è stato l’esclusivismo  dell’uomo, che fa la storia e che pure la manipola, su tutto quello che, nella  precarietà della vita, considera di sua eterna proprietà.  Con il risultato che molte testimonianze del passato sono scomparse.  Da coloro che le hanno rinvenute a coloro che le hanno ereditate sono trascorsi, infatti, molti anni. E molte cose sono cambiate per quelle famiglie.  Le patere, le lucernette, le coppe ed altro, se non sono passate di mano, sono andate distrutte.  Ogni testimonuianza é andata così dispersa o… dimenticata.  E’ accaduto per Concorezzo, come per Vimercate,  località delle quali è stato detto e scritto che alcuni reperti antichi erano custoditi a Milano nel Museo archeologico del Castello Sforzesco, dove, però, non sono stati trovati.
In simili condizioni è impossibile connettere tra loro i vari ritrovamenti isolati e stabilire se  fra i reperti non vi fossero, fra altro materiale, tracce preromane.
Allo stato attuale delle cose potrebbe essere, quindi, necessaria qualche revisione, anche radicale, e non semplici aggiustamenti nello studio della nostra storia.  Se si considera che, per il periodo celtico, le vestigia più numerose,  nelle zone in cui sono state ritrovate, sono le necropoli.  Che hanno fornito informazioni importanti sui riti funerari, sulla struttura sociale e la continuità o discontinuità dei gruppi umani da cui vennero  utilizzate. La topografia delle necropoli è stata in grado di fornire,  ad esempio, un valido contributo una volta individuati il meccanismo della sua estensione, la progressione lineare in una o più direzioni a partire da uno o più nuclei iniziali.
Naturalmente non é solo nel sottosuolo che lo studioso riesce a scoprire  sedimenti e tracce di età  da lungo tempo scomparse
Mancando, però, tutto ciò per Concorezzo, non è possibile rilevare il grado di assorbimento della civiltà latina nella popolazione celto-ligure. Nè della successiva colonizzazione e  fusione tra coloni  e locali nel I secolo a. C. , qualora vi sia stata. Mentre ciò è avvenuto con le sepolture della necropoli di Mandana presso Capiago-Intimiano. Che hanno rivelato la presenza di coloni italici accanto a quelle dei locali. L’aggettivo italico, come il nome Italia, sarebbero derivati  da un piccolo nucleo vivente in Calabria che portava il nome grecizzato di Italoi.   
In ogni caso, Concorezzo non si può dire che abbia avuto principio con Roma.
Conclusa la guerra con i Galli, Roma stipulò trattati con i quali veniva rispettata l’integrità territoriale e etnica della loro autonomia politica.  E aprì la strada ai commercianti e agli imprenditori che avviarono la romanizzazione nei costumi, usi, modelli culturali delle nuove terre conquistate con le armi. L’adozione della lingua latina seguì. Ma la fondazione di un centro coloniale comportava una serie di operazioni. Con la centuriazione, o suddivisione in centurie dell’agro pubblico,  i  coloni (colonus, contadino, colono), veterani italici delle guerre condotte da Roma     ricompensati per il servizio reso allo stato romano con l’attribuzione di un podere, si trovavarono inseriti in un contesto rurale, che comprendeva definizione e spartizione del terreno circostante l’abitato.
L’uomo se non vuole cessare di esistere non ha che  adattarsi, volente o nolente, allo stato in cui viene a trovarsi in un certo momento della sua esistenza. Esplicito il verso virgiliano: perdonare a chi si sottomette e piegare con le armi chi si ribella (Parcere subjectis et debellare superbos…) nel libro sesto dell’Eneide, il più noto del poema.
Per questa strada sono passate le popolazioni insubriche prima di Roma, con Roma, come in seguito le popolazioni romanizzate con i Longobardi. In una parola, è la storia dell’uomo,
Contrasta, ad ogni modo, con la ricchezza dei dati sugli abitati a partire dall’età del Bronzo  la frammentarietà, la lacunosità di testimonianze sepolcrali per buona parte dell’Italia settentrionale in cui l’introduzione dell’incinerazione viene fissata alla media di questa Età. Eppure nella preistoria i riti funebri hanno rivestito sempre grande importanza, sia nei primi tempi dell’esperienza umana, sia in seguito. Le tracce più antiche di sepolture risalgono al paleolitico superiore. In questa epoca  si inizia a seppellire i morti con i loro ornamenti e le insegne di comando. La vita materiale continua anche nella tomba. L’uomo, infatti, non è arrivato ancora a pensare ad una vita dello spirito al di là del sepolcro.
I riti di inumazione e di incinerazione, invece,  non sempre indicano diversità di origine. Essi possono essere acquisiti anche mediante pacifici rapporti tra popoli. Il rito dell’incinerazione diviene dominante in Val Padana con la raccolta dei resti ossei combusti in urne cinerarie, depositati poi in nuda terra o con protezione di pietre e lastre a pozzetto, a cassetta e attorniate dal corredo funebre. Fino al II secolo a.C. il  rito funerario delle popolazioni celtiche fu quello dell’incinerazione in posizione distesa in fosse scavate nel terreno.  E’ nel I secolo a. C. che le tombe ci offrono la documentazione del grado di romanizzazione raggiunto nel Nord Italia.
Come per tutti i popoli barbari dell’Europa anche per i Celti le sbiadite tracce dei ritrovamenti tombali della preistoria assumono una forma più viva quando quei popoli si  inseriscono nelle culture scritte mediterranee. La preistoria lombarda termina con la conquista romana ed il processo di romanizzazione culturale e linguistico. Con Cesare ed Augusto l’Italia settentrionale entra a far parte  della storia dell’Impero di Roma.  Se La geografia del popolamento gallico si distinse per piccoli nuclei sparsi; le loro necropoli si presentano di  piccole o medie dimensioni, stando a quelle sinora scoperte in altre parti dell’antica Insubria. Piccoli nuclei di tombe caratterizzati da frequenza e breve distanza: testimonianza di un modo di vivere,  di pensare e di  operare. Mentre le fasi cronologiche che si riscontrano in esse non superano generalmente la durata massima di un secolo e mezzo.
In tutto l’Impero romano l’uso di disporre sepolture lungo le strade all’ingresso delle città era diffuso.   
Gli scavi effettuati casualmente nel Sette-Ottocento in Concorezzo avrebbero fornito, come ho accennato, indicazioni di qualche utilità per lo studioso se  quei reperti non fossero stati dispersi o ricoperti di terra. Né l’ininterrotta continuità di vita attraverso i secoli avrebbe impedito  di rinvenire tracce degli  antichi abitati.  Dalle dimensioni, dalla durata delle necropoli e dalla loro reciproca distanza sarebbe stato possibile, se fosse stato documentato, dedurre il modello di distribuzione del popolamento delle genti galliche. Dove lo si è potuto fare,  ne é risultato, come si è detto, un quadro di modesti abitati rurali, a poca distanza l’uno dall’altro, disposti in una rete più o meno fitta, a seconda delle zone.
Ma anche  gli strumenti di lavoro, gli oggetti d’uso e di scambio riportati alla luce dall’archeologo indicano le tappe che la società ha percorso nella sua evoluzione. Uniti alle reminiscenze ed alle vestigia che si incontrano nelle tradizioni popolari e nel linguaggio, essi hanno la loro significativa importanza. In leggende arrivate sin quasi a noi nel folclore si può riconoscere l’influenza di antichi costumi e di pratiche sociali non recenti.  Conclusa un’epoca, il suo ricordo è passato quasi fossilizzato e stratificato alle età successive, sotto forma di tradizioni e di abitudini, se pure spesso incomprensibili.
Dal canto suo il linguaggio è una specie di terreno sedimentario nel quale sono depositati esperienze, idee che si riferiscono a momenti diversi dell’esistenza dell’uomo.
Per Concorezzo  non si deve rinunciare a ricercare pure in questa direzione.
Per i riti funerari, ancora nei primi due secoli della nostra èra, non vi sono  segni che differenzino quelli dei primitivi cristiani da quelli dei loro contemporanei. Un rito funerario specifico reso ai cristiani defunti e  i luoghi riservati al corpus christianorum nelle campagne furono rari, forse anche dopo la tolleranza dimostrata nei loro confronti dagli imperatori romani del III e IV secolo.  L’usanza romana delle necropoli pagane venne continuata, difatti, con i cimiteri cristiani. La sepoltura dei cadaveri non si faceva necessariamente accanto alla chiesa e il cimitero cristiano sorgeva talvolta non lontano da una necropoli pagana con le sue tombe ad incinerazione.
Oramai l’uso di seppellire i morti non rispondeva più ai dati forniti dall’archeologia preistorica.  Dalle ricerche etnologiche  si può rilevare, infatti, che la preoccupazione di assicurare al defunto la continuità di una esistenza materiale aveva ceduto il posto a quella di una vita ultraterrena.  
Non mi è noto se la necropoli presso S. Eugenio indicata nello  schema di Concorezzo medioevale, curato da mons. Villa, allegato alle note di mons. Cattaneo  in Ricerche storiche sulla Chiesa ambrosiana del 1970, segnalato in nota 6*, possa essere stata precedente o posteriore al IV secolo d.C.  7 *
Ma, come per ogni altra notizia relativa alla nostra Storia, inviterei a rileggere, in questo caso la pagina 31 di Sant’Eugenio vescovo e il rito ambrosiano del Cattaneo, estrapolando da nota 6 tesi di laurea di B. Nicoli , per setacciare  tutto ciò che in essa si riferisce a Concorezzo in periodo romano. Bisogna far parlare le fonti dopo averle attentamente vagliate nella loro autenticità e nella prospettiva in cui sono sorte come testimonianze di un fatto reale.    
Per quanto riguarda  la collocazione dei sepolcreti, ai tre indicati da mons. Villa manca quello segnalato da don Anguilhon del 1872  che doveva trovarsi quasi all’inizio della strada per Monza, nell’area della fornace di mattoni,  e cioè nel terreno detto al campo bianco. Questo altro sepolcreto non costituisce, comunque,  in sé un fatto eccezionale.  Nè serve per stabilire  quale sia stata veramente l’area sepolcrale del vicus  nel periodo gallico  nè in quello romano.  La posizione in cui si trovarono i sepolcreti potrebbe servire almeno  agli esperti per meglio delineare  il perimetro che racchiudeva  Concorezzo prima e dopo la conquista romana dell’Insubria?
Il terreno era senz’altro leggermente ondulato qui e là; e qualche piccola conca, con o senza acqua,  si trovava sparsa sul nostro territorio. Alimentata da uno o più rami di un corso d’acqua derivato  da torrenti, fra i quali poi si sarebbero conosciuti il Molgora e il Curone. Prodotti  dalle  fiumane postglaciali, o loro residui, che al loro passaggio lasciarono segni che per modificarli, adattandoli alle necessità dagli uomini che vi vissero, richiesero la fatica di numerosissime generazioni di concorezzesi.
Inoltre, osservando le aree in cui sono venute alla luce le tombe sarebbe possibile  tracciare  almeno  un quadro  approssimativo di  quale possa essere stato realmente il paesaggio all’interno ed all’esterno di quel villaggio? Domande alle quali dovrà cercare di rispondere chi proseguirà la ricerca su Concorezzo.

Etimologia e toponimia
Studiando, invece, la storia di una parola per risalire al suo ètimo, e cioè alla forma più antica e al significato più remoto, in una parola alle sue origini, ci si imbatte spesso in un tipico fenomeno linguistico, di carattere popolare, che non facilita il compito.  Non va fuori campo Falc’hun quando scrive: “La toponomimia è  una miniera inesauribile di problemi fonetici”.8  Coniugata con la storia essa indica o precisa gli antichi movimenti dei popoli, le migrazioni, le aree di colonizzazione, le regioni dove un tale o tal altro gruppo linguistico ha lasciato le sue tracce.
Anche per questo in una stessa lingua interpretazioni diverse di uno stesso toponimo rimangono  possibili. Specie quelli che hanno costituito dei veri rompicapo, aperti ad ogni derivazione. La loro collocazione conduce alla relatività di denominazione, ad una di quelle corrispondenze intorno alle quali si continua a ruotare.
E dal momento che la conoscenza delle lingue celtiche si fonda principalmente sulle lingue celtiche insulari ancora parlate da circa due milioni di persone, rivolsi le mie ricerche in tale direzione. 
Contattai etimologi, linguisti, studiosi  gallesi, irlandesi e inglesi. 
Incominciai dal Department of Irish and Celtic Languages del Trinity College Dublin. 
Ma,  venuto a mancare nel 1988, a 65 anni,  Heinrich Wagner, germanista, nato a Zurigo, che aveva studiato il Celtico con Pokorny e che lo insegnò nella School of Celtic Studies di Dublino  pubblicando fra gli altri lavori Studies in the origins of the Celts and of early civilisation ( Belfast 1971), il canale irlandese si esaurì.  Passai allora  in Inghilterra.  Qui Ellis Evans, Jesus College Oxford Professor of Celtic, avanzò l’ipotesi che vi fosse una possibilità, se pur remota, che Concorezzo potesse rientrare in una forma del neo-Celtico, simile al Gallese cyngor,  corrispondente a consiglio, consultazione ed all’Irlandese cogar, Old Irish cocur consultazione, complotto, cospirazione, determinazione; con-cuirethar prepararsi in previsione di. “ Che deriva, probabilmente da un Common Celtic kom-kor-,  al quale sia stato aggiunto  il suffisso et (i)o abbastanza frequente nell’onomastica dell’Old Celtic.” 9  In un primo tempo non mi sembrò una ipotesi  da trascurare, ripensando all’opposizione ripetuta degli uomini di Concorezzo all’infeudamento del loro borgo tra il XIII e il XVII secolo.  Si trattava di arrivare a stabilire quale fosse stata la posizione e la funzione svolta veramente da Concorezzo nell’età preromana. Seguendo la linea del Bognetti constatai che  gli atti dell’alto Medioevo, da me esaminati, non mi fornivano aperture a tale conoscenza. Mancavano  le condizioni  per parlare dell’esistenza in Concorezzo di un organismo demico, di una funzione di pago,  o di… una  funzione federativa di gruppi demici ancora  più difficile da attribuire all’antico territorio. Anche se, forse, non sarebbe neppure facile escluderlo se si considerasse, partendo dalla fine dell’Età del Bronzo, l’avvicendarsi, non sempre pacifico, di popolazioni celtiche nel Nord Italia.  
Per non rischiare, però, di  creare un’ altra bella parola da affiancare a cum curte regia  lasciai cadere pure questa ipotesi.
E rivolsi le mie ricerche verso il Galles. Il primo impatto  non diede risultati di qualche interesse per la mia ricerca.
Qualcuno accennò a Cymmer, una confluenza, un incontro di corsi d’acqua.  Un altro a Cymru, il nome Gallese per il Galles, da Cymry “il popolo gallese” e
cioè “coloro che agiscono insieme”.
In Grammatica dell’antico irlandese  di Rudolf Thurneysen, Dublino 1980, avevo trovato pure vocaboli del Celtico antico che conducevano a nomi di popoli, come Cunobelinus, Coneal cui si riconosceva il significato di “combattimento di cani o di lupi.”  Dai più antichi nomi celtici sembra trattarsi di guerrieri o nomi dati ai medesimi.
Chiesi allora ad uno studioso se il nome Concorezzo potesse derivare da un nome personale piuttosto che da una caratteristica naturale del terreno. E  Con-Cor si perdette in  una disquisizione accademica.
Altrettanto l’ipotesi di Concoret  località che un clan cenomano concordava con uno insubre  di tenere in territorio non appartenente alla propria tribù.
Erano vie, non da me percorribili, dalle quali presto mi discostai.
Poi la corrispondenza con il Gallese Joseph Biddulph, direttore del Centro linguistico per gli Studi di lingua Gallese e Celtica. Essa durò più a lungo che non  con altri, anche perché egli  da buon toponomasta si dimostrò il più interessato alla materia, senza le remore di molti suoi colleghi. Egli nutriva, però, dei dubbi che si potesse trovare  materiale per adeguati dettagli per ogni caso. E scriveva: “Sembra che lo studio di elementi celtici nei nomi di luogo sia stato assai trascurato, come pure gli studi del Celtico, e  circolano molte idee sbagliate che andrebbero attentamente esaminate”.   E’ stato negli anni Ottanta che  Biddulph, per  il quale i nomi di luogo  rivestivano un interesse particolare, mi fornì  pure dettagli sulle differenze fra vocaboli nei dialetti Gaelico irlandese, Gallese, Inglese  e della  Cornovaglia,  che potevano avere una qualche attinenza con la mia ricerca. Devo aggiungere che egli non era sempre d’accordo con le autorità ufficiali sulla derivazione di non pochi toponimi.  Difatti più di uno studioso in lingue celtiche e galliche aveva espresso la propria riluttanza a suggerire un significato al nome Concorezzo,  il più delle volte glissando. Non un’ipotesi e tanto meno una congettura, che potesse rappresentare uno strumento per pervenire ad una conoscenza.
Escludevano il Celtico, il neo Celtico, il Gallese, l’Irlandese; il Gallico  e,  pure… l’Old Gallico. Vale a dire la lingua celtica sia della Gallia che del Nord Italia, che a differenza del Gaelico  ha caratteristiche sia dell’antico Irlandese che dell’antico Gallese e  molte proprie. “Insomma, si tratta di un nome  estraneo ai paesi in cui viene oggi usato il Celtico. La conclusione che se ne può trarre è che vi furono molti  dialetti diversi nella lingua originale Old Celtic, con una grande variazione nei vocaboli adoperati per i nomi di luogo. Un dizionario di Old Irish non sarebbe più valido di una attenta ricerca condotta sul posto. Sarebbe imprudente estendere  inizialmente la ricerca fuori dalla Gallia Cisalpina. A meno che non si voglia ottenere dei  può darsi, dei forse, non molto producenti”.  Neppure queste osservazioni realistiche potevano essere, obiettivamente, molto incoraggianti.
  

Dove e quando nacque Concorezzo

In una parola, per poter indagare sul nostro toponimo  sarebbe opportuno partire dal dato naturale che il nostro occhio più non riesce a scorgere. Non ci rimane che cercare di immaginare il tempo e lo scenario  nel quale  esso sorse, vale a dire la conformazione in quel momento del territorio al quale  fu dato quel nome.
Il tempo. La sacralità degli alberi, delle pietre. la forza della natura dominano l’uomo costretto a vivere in una natura per secoli ostile. Nella quale prevalgono  foreste, acquitrini e spazi soffocati dalla vegetazione. In certi punti il bosco rimane intatto a causa di acque stagnanti. Persino il paesaggio in cui vaste aree sono incolte contribuisce, infatti, a segnare il comportamento dell’uomo.
Egli é alla mercè di quel mondo naturale e dalle sue stesse leggi regolato. Ma, in un certo momento della sua esistenza, anche quell’uomo, per un gioco di forze, fra cui i nuovi strumenti di lavoro, i mezzi di produzione, i commerci,  che determinano lo sviluppo delle sue capacità, ritiene di poter influenzare in maniera fantastica la natura che lo condiziona e lo tiene sottomesso. E scopre la magia, la cui pratica in origine non si distingue dalla religione.  Ecco il  druida e la druidessa: persone di insolite capacità, che si muovono tra il mondo umano e un mondo invisibile svolgendo nella tribù una funzione che oggi definiamo sciamanica. Giulio Cesare ricorda i druidi, come una potente casta sacerdotale intorno alla quale si era organizzata la resistenza di quelle popolazioni contro gli invasori romani.       
Lo scenario. Quasi impossibile  è disegnare la forma e la struttura del terreno sul quale si è sviluppato al suo nascere Concorezzo. 
La  geomorfologia tra gli alvei fluviali di Lambro e Adda, in cui si trovano i  territori tra Monza-Concorezzo e Vimercate,  segnala “terrazzi del quaternario superiore entro strisce di terrazzi del quaternario medio.”  La Carta geolitologica della Brianza tra il Seveso e il T. Molgora  e quella  allegata alle ricerche condotte da   Arturo Riva Gli anfiteatri morenici a sud del Lario e le pianure diluviali tra Adda e Olona indicano tra i lembi di diluviale medio fluvio glaciale Riss quelli emergenti dall’Alluvium recente (alluvioni postglaciali) della valle del Molgora. Il primo è compreso tra Velasca-Vimercate-Oreno e si esaurisce a sud del cimitero di Concorezzo, delimitato ad est da una scarpata ed a ovest da un piano inclinato.  I terreni argillosi garantiscono maggiore protezione alle falde acquifere.
In seguito alla dolina di sprofondamento verificatasi tra via Manzoni e via S. Marta il 9 dicembre 1950, lo speleologo Salvatore Dell’Oca dopo avere esaminato il fenomeno scrisse: ”La roccia nella quale si era formata la dolina è un conglomerato debolmente cementato del quaternario (normale alluvione del quaternario recente cementata). Terriccio , composto di humus sabbia ghiaia detriti…”.  Si potrebbe pensare a depressioni di varie dimensioni - anche a forma di imbuto o di catino come le doline, ingrandite dall’azione meccanica ed erosiva delle acque?- sparse sul nostro territorio, prodotte al tempo delle grandi alluvioni. In una delle quali si versava, forse ancora, un corso d’acqua.
Un territorio che é stato coperto dalle acque del mare prima e  sconvolto poi dalle fiumane derivate dallo scioglimento dei ghiacciai che in qualche punto hanno inciso solchi più o meno profondi. Il golfo emerso dal mare, progressivamente colmato dai detriti trascinati dalle acque giù dalle Alpi, rimase dopo che le acque del mare si erano ritirate e se ne ritrovano a molte decine di metri sotto l’attuale superficie in occasione di trivellazioni alla ricerca di acqua potabile. 
Il Riva nel suo lavoro  scriveva a proposito del ceppo: “ Va sottolineato la imponenza di questa formazione sia per potenza come per estensione. In tutti gli spaccati profondi, tra l’Adda e l’Olona, ed ovunque si buchi per trivellazioni, ci si imbatte in questa formazione al punto di fare sorgere l’idea che si tratti di una pianura sepolta…”.   Negli scavi di una certa profondità fra ghiaie e  sabbia vi erano conglomeratici del ceppo  usato, anche dopo il V secolo d. C., quale materiale da costruzione.  
L’azione erosiva delle acque diluviali, che irrompevano impetuosamente verso il punto di maggiore depressione incidendo solchi profondi e distruggendo quanto veniva a frapporsi al loro passaggio,  avrebbe modellato il territorio di Oreno.  Da qui   sarebbe arrivata parte nella futura piazza S. Damiano; parte deviando in altra direzione per raggiungere il Lambro?  Diramazioni di un corso d’acqua di cui una confluiva in una valletta, riempiendola, mentre un’ altra proseguiva  dopo l’attuale cimitero verso il  fiume Lambro (fluvius frigidus), dal corso piuttosto stagnante, secondo Plinio. Fiume che, per portata e per ampiezza, era assai maggiore, però, di quello noto  dal XIII secolo già parzialmente interrato rispetto al periodo romano e in seguito ancora più ridotto, del quale il torrente Molgora, forse nel corso della terza glaciazione detta Riss,  si presume sia stato tributario, seguendone, probabilmente, la medesima sorte. 
Anche dopo le fiumane derivate dallo scioglimento dei ghiacciai, quello che noi conosciamo come  torrente Molgora provocò straripamenti tali da coinvolgere il nostro territorio? 
“ Sono state larghe fiumane d’acqua, scriveva il prof. Ardito Desio agli inizi degli anni Cinquanta, che hanno disperso su vasta superficie le ghiaie che i grandi ghiacciai avevano trasportato verso la regione pedemontana,  correnti in massima parte provenienti dalla regione abduana”.
A grandissime linee il paesaggio, secondo i geologi, non differirebbe da quello osservato dai più antichi abitanti della nostra regione circa 200 mila anni fa. L’omogenesi terziaria aveva già modellato le catene montuose, fissato le vallate ed i tratti più salienti dell’idrografia, delimitata grosso modo nei confini attuali la conca della Padania. Al tempo stesso, però, lo provano i dati forniti dalla geologia, dalla paleobotanica e da altre discipline del campo delle scienze chimico-fisiche, matematiche, naturalistiche e naturali, le differenze dovevano essere notevoli ed in alcuni casi addirittura stridenti: nei dettagli la conformazione del suolo, la composizione della flora e della fauna ed i lineamenti del clima. Un paesaggio, insomma, ed ancor più un ambiente, diverso. O, meglio, tanti paesaggi e tanti  ambienti, diversi  da un’ epoca  all’altra.
Gli ambienti umidi, fra i quali paludi e stagni, esercitarono una forte attrattiva, in tutte le epoche, sulle popolazioni umane in una pianura spazzata costantemente dalla instabilità dei fiumi. Con territori dispersi su ampie superfici, in cui la vegetazione spontanea ricopriva qualche area, altre con  detriti,  piccoli avvallamenti,  stagni e corsi d’acqua pescosi ed indispensabili  per le necessità di quell’uomo. Quegli stagni in cui vivevano i pesci erano soggetti, però, a periodi di disseccamento quando la siccità faceva scarseggiare le acque che li alimentavano.  Mentre i detriti esistenti richiesero un lavoro  di ripulitura dei terreni che durò molti secoli, come ci ricordano pagine di storia concorezzese ancora nel XIX secolo.  Difatti “ …i terreni agrari hanno spesso ben poco in comune con i suoli naturali originari, avendo l’uomo agito da fattore principale della loro evoluzione…”10 
Rilevamenti sui depositi venuti alla luce in seguito alle voragini verificatisi tra il 1874 e il 1950 sulle attuali vie Libertà e Manzoni, e su quelli delle perforazioni dei pozzi per uso di acqua potabile hanno evidenziato le caratteristiche morfologiche del sottosuolo di Concorezzo nei suoi diversi strati. Sabbia, argilla e ghiaia elaborata, trovata alla profondità di 30 metri, in cui compaiono ciottoli di varie dimensioni sino  a parecchi metri sotto il piano stradale, rivelano i cambiamenti naturali succedutisi, specialmente con lo scioglimento dei ghiacciai alpini che arrivavano a pochi chilometri dal nostro attuale territorio nel Quaternario (èra geologica suddivisa in due periodi: il Pleistocene terminato attorno a 12mila anni fa e l’Olocene che continua tuttora). Si tratta di un sottosuolo composto da materiali appartenenti a due momenti del Quaternario e distinti gli uni dagli altri. I substrati geologici appartengono tutti all’area quaternaria. Nella parte più ampia del territorio predominano sabbia e ghiaia prodotti del diluviale recente, penultima glaciazione del Quaternario conclusasi circa 120.000 anni or sono, ed una striscia, un lembo del diluviale medio ultima glaciazione della stessa èra iniziata intorno ai 70.000 mila anni fa. Altimetricamente più alta,  ancora parzialmente rilevabile ad occhio fino dopo la metà del Novecento dalla strada Oreno-Concorezzo fino alla strada Monza-Agrate, comprendente il cimitero e le ex fornaci  di laterizi Quirici e Lissoni. A nord-est come ad ovest di quest’area, in cui prevale l’argilla, nei secoli scorsi esistevano cave per l’estrazione di sabbia e di ghiaia utilizzate per la costruzione di case e per la manutenzione delle strade; cave ormai scomparse. A diverse profondità del sottosuolo si incontrano, pure, falde acquifere, più o meno ricche, che sono servite e servono agli abitanti di Concorezzo.
Al sopraggiungere dei primi abitatori, il popolamento nel senso di prima colonizzazione del territorio o di un semplice contatto,  è probabile, quindi, che le condizioni del terreno conservassero tracce degli effetti delle alluvioni postglaciali, a mano a mano ridotta dalle necessità crescenti delle nuove popolazioni.
All’ ing. Pella prospettai pure, ma invano, l’opportunità di  contattare un geologo  esperto della Brianza e del nostro territorio.
Tra le domande di un certo interesse, che si sarebbe potuto includere, quelle sul periodo della scomparsa del lago di Bernaga e di qualche torrente minore. 
In carte del Quattrocento si nominano, per esempio, rogge del Vimercatese sparite  nel nulla. Non è ben chiaro se per  operazioni effettuate dai proprietari terrieri secondo i loro interessi del momento o perché esse erano solo nelle intenzioni di qualche ingegnere idraulico. Come la rugiam Curoni, che nasceva tra Viganò e Bernaga (sotto il monastero di Bernaga a Sirtori, passando ad est di Montevecchia e Cernusco Lombardone) per finire nella Molgoretta che forma il Molgora.  Nel Quattrocento questa roggia apparteneva ai Corradi, presenti nel Cinquecento anche a Concorezzo, si legge in una carta, da “almeno 200 anni”.   Inoltre, se il nostro castello  del XII secolo era circondato da un fossato, con quale acqua lo riempivano quei castellani?
Sappiamo che nei secoli XII  e XIII era detto fossatum  un corso d’acqua, naturale o artificiale.   E che per i castelli dei nostri borghi  si ricorreva anche all’acqua piovana conservata nei fossati, la quale vi entrava dai canalicoli lungo le strade fatte a schiena. L’acqua veniva fatta defluire, quando era in eccesso, attraverso altri sbocchi. Trattandosi di abitati in area non livellata nel terreno, la raccolta delle acque piovane riusciva più facile disponendo le strade in maniera adatta allo scopo.
In quei fossati  le donne si recavano a lavare i panni sporchi,  come  nella roggia Ghiringhella fino  quasi alla metà del Novecento.
Una risistemazione idraulica della nostra pianura aveva richiesto secoli.  In pochi anni, al pari del Barbarossa, che, vinta Milano nel 1162,  fece distruggere anche il  fossato da Guglielmo da Guintellino, ingegnere militare, iniziato verso il 1156, uomo e natura uniti cancellarono una parte di quanto era stato fatto, con fatica, pure per la bonifica idrica.
Come si può rilevare la mia conoscenza di un  così lungo periodo di tempo per quanto riguarda il nostro territorio non può,  purtroppo,  che accontentarsi di riflettere una geografia della casualità. Con un conseguente salto da una casella ad un’altra. Quale disegno emergerà  ed in quale direzione il quadro potrà evolvere solo chi approfondirà queste mie note arriverà, forse, a descrivere.

Dai Liguri ai Celti, ai Romani
Diciamo, dunque, che Concorezzo si estendeva  su un territorio  dal paesaggio vario per morfologia,  nel quale l’acqua non scarseggiava, coperto da boschi per vaste estensioni, dove il suolo era ricco ed abbondante di selvaggina, quando  una tribù si insediò  disponendo in più nuclei le sue capanne.  Là dove il terreno consentiva di stare gli uni  vicini agli altri per la sicurezza collettiva e per la sopravvivenza. Gli scrittori latini chiamarono questi agglomerati abitativi rurali: vici.
Vicus, nel senso tecnico di villaggio, contrapposto alla villa; non nel senso di caseggiati, che si possono avere anche nel fondo.  Nei documenti medioevali  si legge spesso vico et fundo Concoretio per indicare il villaggio e il suo territorio. Villae erano, invece, nell’età romana aziende agricole. La campagna lombarda, chiamata fino al V secolo della nostra èra con il nome indicativo di Italia annonaria, aveva accolto  molte genti sparse in numerosi fundi, ma riunite nei vici.
Rimane sempre da stabilire  quando  avvenne il suo principio:  dal tempo in cui  erano presenti i Liguri, o…  i Galli?  Se l’incertezza attributiva dei vari momenti di invasioni o discese di popoli nella pianura padana si trascina tra convegni e cataloghi di mostre dedicati ai Celti; non si può certo sperare, per ora, di dare una risposta al nostro quesito.
Con il nome di Liguri si indica la popolazione che abitò l’Europa occidentale prima  dei Celti. Le popolazioni liguri avrebbero introdotto bonifiche e prosciugamenti, opera perfezionata sotto l’influenza etrusca. Gli Etruschi, dal canto loro, introdussero sulle nostre terre la coltivazione della vite (600 a.C. circa), pianta che ha le proprie origini nell’Asia Minore. In Gallia i Liguri avrebbero ceduto il passo, secondo Auguste Longnon, maestro della geografia storica, alle popolazioni celtiche giunte cinque o sei secoli a. C. E la  loro lingua si sarebbe perduta senza lasciare tracce evidenti.
I Liguri della Padania si dividevano in vari gruppi, con aspetto unico ma con gradi diversi di evoluzione, occupando inizialmente le attuali regioni di Piemonte e Liguria, la Lombardia fino al Garda e parte dell’Appennino Tosco-emiliano, dove ancora si trovavano in età romana. “Liguri, popolo mediterraneo insediato su ampio fronte del litorale italico che lasciò tracce nella linguistica….. nei reperti di cultura materiale, come nel caso delle steli antropomorfe della Lunigiana conservate nei musei della Spezia e di Pontremoli, nei castellari, insediamenti protostorici su posizione collinare.”   Tra le lingue preindoeuropee: “ il ligure era stato assai fortemente intaccato dal celtico, assorbito, tanto che non riesce facile distinguere, nell’area ligure, tra le voci preindoeuropee e quelle celtiche o indoeuropee ( le iscrizioni leponzie rappresentano un ligure gallicizzato) e il latino completa l’opera di dissoluzione… “ 11
Dire quanto vi sia di linguaggi antelatini,  ligure e celtico nel nome Concorezzo   spetta agli etimologi, avendo avuto quelle lingue, all’origine  la medesima matrice.   Spetta pure loro dire se furono i suffissi originari etnici ad essere assimilati dalle civiltà succedutesi. E come addentrarsi tra i sedimenti di una stratificazione linguistica secolare ed un’altra.
Il Bognetti aveva scritto: “ I cosidetti Liguri del piano, della prima età del Ferro, lasciarono tracce omogenee un po’ dovunque nell’intera nostra pianura, dal Lodigiano al Comasco…anche a Monza vennero rinvenute tombe ed oggetti dell’età del Bronzo…
I Galli si insediarono in territori già in precedenza abitati e seppellirono spesso in necropoli dove si trovavano  tombe della prima Età del Ferro e del Bronzo…. Tra queste tribù vi furono i Leponzi, i Viberi, i Canini, i Mesiati, forse tribù liguri gallicizzate. Esse si stanziarono  nella valle padana e nella regione alpina… Difatti la invasione gallica, che precederebbe di due o tre secoli la conquista romana, non pare, per più indizi, forniti dall’archeologia, aver costituito una innovazione così radicale della vita locale da giustificare da sola il predominio dell’elemento celtico che si palesa nei dialetti, nei nomi di persona e luogo, nei culti… territori di una comunità preromana portano il nome di tribù, popoli e città, anche distanti, della Gallia o della Liguria…Nel Milanese un probabile nome di popolazione: Concanauni, richiama gli Ingauni liguri, e i reti Anauni, Genauni…L’immigrazione gallica del IV secolo era costituita da numerose tribù… 
Per secoli ancora dopo la conquista, fino ad Impero iniziato, nelle campagne continua una civiltà celtica o celto ligure che liberamente si svolge, la civiltà così detta gallo-romana…In conseguenza della conquista romana, che per l’Insubria è definitiva dopo il 194  a.C.,  la condizione di queste comunità, che nell’ordinamento politico dei Celti dovevano avere carattere di sottostato, subisce successivi mutamenti. Dopo l’assoggettamento, gli Insubri, come i Cenomani, furono da Roma ammessi alla condizione di federati…( 89 a.C.: Lex Pompeia, che accorda agli Insubri il diritto latino; 49 a.C.: Lex Iulia(promossa da Giulio Cesare), che accorda ai popoli originari della Cisalpina la cittadinanza romana ).” 12
Secondo il Bognetti i Liguri vissero sulle sponde del Ticino e di altri corsi d’acqua; e secondo il Romussi,  in Milano nei suoi monumenti, i Liguri (palafitticoli) hanno lasciato tracce lungo le sponde del Lambro.
Agli inizi degli anni Novanta, il prof.  Ermanno Arslan scriveva: “ Le guerre che seguono quella annibalica ridisegnano politicamente l’Italia settentrionale. In una prima fase i Galli padani sono tutti alleati con una notevole capacità offensiva nei confronti dei Romani ancora indeboliti dal lungo confronto con i Cartaginesi…Ma la superiorità militare romana non tarda a rivelarsi…E il territorio insubre è ora molto ridotto, esteso a nord forse poco sopra l’attuale Monza…”.
I Romani, dunque,  attuarono la conquista del territorio gallico a sud del Po, attuale Emilia-Romagna, nel periodo immediatamente precedente ed in quello successivo alla seconda guerra punica; e sottomisero definitivamente le tribù degli  Insubri e dei Cenomani stanziate a nord del Po.  Roma condusse la campagna contro gli Insubri, nel 222 a.C.,  che avevano reagito alla fondazione delle colonie di Piacenza e Cremona nel 218 a.C.. Ma li sconfisse con le guerre condotte dal 196 al 191 a.C.  I patti che ne seguirono tennero legate a Roma le popolazioni locali senza togliere ad esse l’autonomia. Gli Insubri si integrarono, quindi, nel mondo romano conservando ancora per un certo periodo di tempo aspetti della loro organizzazione e del loro modus vivendi.

Lo strato gallico
La posizione geografica della Lombardia rappresentava il punto di passaggio dei traffici tra le genti stanziate nell’Europa centroccidentale e la nostra penisola. Che, per i suoi vasti territori ubertosi in un clima mite, un fiorente mercato del mercenariato e gli antichi commerci, calamitava l’eccesso della crescita demografica di ogni tempo e di ogni parte del nostro continente.
Passata la metà del primo millennio a.C.  l’esodo, ripetutosi nel tempo, di numerose tribù di Galli transalpini occidentali, guidati da chi in Italia era già stato per commercio o per mercenariato al servizio degli Etruschi contro Roma, non si arrestò. Queste genti, dopo essersi affidate una parte ai fiumi Marna e Senna,  avevano raggiunto il lago Lemano, o lago di Ginevra. Ed erano calate, a più riprese, nella pianura padana attraverso le Alpi,  abitate da esseri umani fin dal Paleolitico dopo lo scioglimento dei ghiacci dell’ultima glaciazione.  Erano scese per i passi  del Moncenisio, della Maddalena e… del  Gran S. Bernardo.  Il valico del S. Bernardino, per la Val Mesolcina, collegava alla valle del Reno, alle regioni del corso medio del Reno e della Mosella  abitate dai Celti.
Una migrazione, che quasi senza soste, si ripeteva da secoli verso un nuovo spazio vitale.
A mettersi in movimento alla ricerca di una nuova casa non era mai l’intera tribù, bensì quella parte di essa che non riusciva più a trovare in patria ciò che gli consentiva di sopravvivere.  
Le ultime ondate migratorie  celtiche di rilievo in Val Padana si verificano sul finire del V secolo a.C.  L’Italia settentrionale sarà la Gallia Citeriore o Cisalpina nominata da Cesare in La guerra gallica. Divisa fra Insubri fino all’Adda; Cenomani (il cui centro in Francia era l’attuale Le Mans) al di là dell’Adda ed oltre l’Adige i Veneti.  Passato il Ticino si trovavano i Levi, i Marici, i Libici, i Salassi ed i Taurini. Mentre tra Casteggio e Piacenza, oltre il Po, a sud, gli Anari.
La Gallia propriamente detta, descritta anche come Transalpina o Ulteriore per distinguerla dalla Gallia Cisalpina, invece, comprendeva l’attuale Francia continentale, oltre i paesi sulla sinistra del Reno, e parte della Svizzera.
“La Gallia celtica, la parte più vasta,  era limitata dalla Garonna, dalla Marna, dalla Senna e dall’Atlantico, abitata dai Sequani fra il Giura e la Saona, dagli Edui  tra la Saona e la Loira, dagli Arverni a sud degli Edui, dagli Armorici lungo la Manica, dai Veneti nella parte meridionale della Bretagna.
La prima divisione della Gallia risale al tempo in cui i Romani entrarono in quella regione, 122 a.C.. E denominarono Provincia, oggi Provenza, il paese fra le Alpi e il Rodano, da loro sottomesso, per contraddistinguerlo dal rimanente della Gallia, indipendente.
Cesare divise la Gallia in tre parti corrispondenti ai principali elementi della popolazione, cioè: Aquitania, fra la Garonna e i Pirenei, abitata da popolazioni di razza ibera; Celtica, fra la Garonna e la Senna, e i confini della Provincia; Belgica, fra la Senna e il Reno, abitata da genti mista di Germani e Celti.”
I nuovi migranti gallici avrebbero rappresentato l’ultimo apporto etnico al  popolamento della Padania, modificandone la geografia culturale. Il processo di sovrapposizione dei nuovi arrivati ai gruppi preesistenti non è stato ancora chiarito in maniera definitiva dall’archeologia.  Scarsa è la documentazione archeologica delle sue fasi più antiche.  Ma non conosciamo neppure  particolari della vita degli Insubri, insediati tra Adda e Ticino. Particolari da cui  poter  risalire alle modalità in cui si erano verificati  ed evoluti quegli eventi.   Che, però, al pari di ogni invasione,  non sappiamo se abbia determinato in senso assoluto il formarsi di una civiltà.
Ogni insediamento è, comunque, il risultato delle azioni con cui gli uomini modificano l’ambiente fisico in rapporto alle loro necessità di vita.
I gruppi di tribù galliche giunti nella Cisalpina, dato vita ad un abitato, nei primi tempi  lo consideravano una colonia  di un centro più antico. Rimanendo  legati alla madrepatria da una catena sentimentale. Un esempio, i Galli che vivevano nel retroterra di Marsiglia nel II secolo a. C. mantenendo rapporti con i loro congiunti dell’Asia Minore, i Galati.13
Ma qualcuno potrebbe domandare, come è possibile collocare il primo apparire del nome Concorezzo a duemilacinquecento  anni fa o forse più, quando oscure sono per noi le origini del nostro borgo  ad una distanza inferiore ai  mille anni?      
Cercare di partire dall’arrivo, come viene detto il confine  tra la preistoria  e la storia, è, infatti, un compito  piuttosto arduo  quando  già è difficile muoversi nella storia.
E quasi impossibile ormai poter delineare con precisione un paesaggio quale poteva essere  due-tremila anni fa allo stato attuale del terreno sul quale si estende  Concorezzo. Come abbiamo visto, la morfologia del territorio di Concorezzo, senz’altro,  non era uniforme, sia per la costituzione che per i vari eventi geologici di cui esso era stato teatro. 
Fra le ipotesi: la conformazione dell’antico borgo potrebbe  rivelare ancora non tanto uno stampo romano, quanto celtico  attorno all’antica chiesa di S. Damiano che fu tra via Battisti e via Toti.   Attenendoci a quanto hanno evedenziato per altre località italiane, francesi e tedesche, gli scavi archeologici finora effettuati. Malgrado gli archeologi abbiano ulteriormente complicato i problemi dello storico in seguito alle loro scoperte, proviamo ugualmente ad immaginare  come avrebbe potuto presentarsi quell’abitato di Concorezzo. Nella parte più elevata del suolo sarebbe stato se non un vero e proprio santuario, un luogo sacro, poi delubrum, in cui avverrà  la celtizzazione delle divinità romane e, in seguito, la  trasformazione di queste divinità in santi.  Proprio qui potrebbe essere sorta secoli dopo  la chiesa di S. Damiano.  Da Cesare apprendiamo che i Galli adoravano soprattutto Mercurio (Teuthates, Vellaunus, Artaius)     “I culti importati si sovrapposero ai culti locali, spesso collegandoli per riconosciute affinità,” scriveva  ancora il Bognetti.
Nella piazza sottostante (ancora nel 1756, dalla relazione stesa in occasione della visita pastorale del cardinale Pozzobonelli si apprende che essa risultava di circa 2 metri sotto il livello della chiesa), di fronte alla facciata di S. Damiano, le residenze degli esponenti principali del villaggio e più in basso in prossimità della porta del villaggio e in una valletta adiacente il quartiere degli artigiani, costituito da capanne di forma ovale  con fondo scavato, suddiviso per attività. Con un fossato non molto profondo che  cingeva l’abitato.  E’ l’immagine di un oppidum celtico: ma perché non potrebbe essere stata pure quella di un villaggio come  Concorezzo di cui si sa ancora meno di nulla?  
Mentre i limiti ortogonali dell’antico borgo  potrebbero indicare il centro abitato del periodo romano con la composta geometria della  campagna attorno?
“In sede di ricerca scientifica tutte le ipotesi non destituite di qualsiasi fondamento possono essere avanzate ,“  scriveva sempre  il Riva.  Alla geologia, dunque, il primo passo.  Quanto si trova anche sotto il suolo di Concorezzo  potrebbe superare, difatti, la nostra fantasia, volgendo il pensiero al lontano passato di questa terra.
Lo sviluppo della maglia urbana di un centro abitativo si è quasi sempre formato attraverso lente e disomogenee stratificazioni culturali.
Oggi si può ricorrere alle prospezioni geochimiche, geofisiche  e stratigrafiche. Le prospezioni geochimiche, basate sull’analisi del terreno, servono a fini archeologici. Quelle stratigrafiche sono anche più importanti in quanto consentono un rilevamento sul posto di tutti gli elementi che favoriscono la ricostruzione delle condizioni di vita e delle caratteristiche ambientali di ogni età archeologica. La presenza di antichi insediamenti umani viene evidenziata da numerosissime tracce lasciate dall’uomo in pozzi, fossati ed altre opere costituite da frammenti di manufatti e residui di ogni sorta, organici ed inorganici.  Informazioni sulla vita quotidiana, sulle attività commerciali sarebbero utili anche per un piccolo centro abitato quale fu il nostro. E... sul rapporto tra il territorio di Concorezzo celtico e quello romano.
Sarebbe interessante, per una ricostruzione globale del passato,  dare almeno qualche risposta alle domande che coinvolgono  pure i fattori ambientali e morfologici che si pongono secondo innumerevoli connotazioni e valenze.
La microstoria potrebbe incontrarsi così con la storia ufficiale, vale a dire con i racconti di quegli storici greci e latini che la Gallia Cisalpina hanno visitato e ne hanno scritto.  Offrendocene un quadro naturalmente per tutti più intelligibile.

Concoret e Concorezzo
La parte del nostro toponimo sul quale  si era soffermato ed…arenato più di uno  studioso era stato il Con-.  Il  Con- diffuso sul continente nelle aree già celtiche. 
Esso  aveva rappresentato, infatti, per buona parte degli studiosi ai quali era stato sottoposto il nome di Concorezzo, più di un problema.
Le antiche significanze sbiadivano, si confondevano i tratti individuanti.
Discutendone con il prof. Biddulph, appresi che un nome gallese con  il Con-, di solito, ha una radice analoga al latino cum. Quindi con- ha il significato a tutti noto.  E: “ Cymmer significa  confluenza,  incontro di corsi d’acqua.  Ma qualora Concorezzo venisse da cored, bisognerebbe spiegare il prefisso Con- che sembra essere maschile e non femminile. Questo potrebbe essere stato all’origine un aggettivo più che un nome, che seguiva una parola come tech, ti corrispondente a casa, che è maschile, oppure una parola maschile per villaggio: in Gallese...”.
E il piccolo dosso, cocculus,  dal quale  Dante Olivieri riteneva derivasse più verosimilmente  il nostro toponimo?  Egli mi spiegò,  anche con schizzi, come ciò avrebbe potuto essere; ma solo in determinate  condizioni del terreno.
Per l’area nostra, in fatto di corografia, non si andava, tranne pochi casi,  molto più in là delle ricerche condotte dal Fumagalli, dal Puricelli, dal Giulini e dal Porro per nominare i maggiori.  Erano seguiti il Dizionario di toponomastica lombarda. Nomi di Comuni, frazioni, casali, monti, corsi d’acqua ecc. della regione lombarda, studiati in rapporto alla loro origine dell’ Olivieri del quale il cocculus o piccolo dosso potrebbe essere accettato, in assenza a Concorezzo di un’altura stretta, simile alla parte posteriore del corpo umano o spina dorsale, mi spiegava Biddulph, se il termine fosse riferito al suolo economico comune, nel senso di terra, terreno non cintato usato per il pascolo o landa, terreno incolto aperto. E  Liguri-Celti-Germani nei nomi di luogo in Lombardia del Bottazzi.
Nacquero altre  domande.
Fra le quali: da una conchiglia a spirale, che somiglia molto a quegli esemplari di ammoniti (da Ammone, dio degli antichi Egizi effigiato con la testa di montone), o cefalopidi, anche del diametro di 40 centimetri? Estintisi quasi completamente nel periodo Oligocenico, i cui fossili sono stati rinvenuti in Brianza, dimostrando l’origine marina delle nostre montagne.
Ma nella preistoria la concezione delle cose era proprio simile alla nostra?  Sappiamo, ad esempio, che per noi  un’isola è semplicemente una terra circondata dall’acqua, mentre presso i nostri antenati del nordovest d’Europa, celtica o germanica,  il concetto  sembra sia stato applicato a qualsiasi terra vicina all’acqua, utilizzata per le pecore ed il bestiame al pascolo. Un caso?  Il solo? 
Rimaneva  sempre  una spiegazione per  il Con-., base con- (in cui rientra il celtico e il latino). Ampliata da una suffissazione, e cioè dall’aggiunta di un suffisso? L’indoeuropeo possedeva un suffisso per esprimere la qualità in grado relativamente elevato ed un suffisso oppositivo, che serviva a mettere in contrapposizione due persone o due cose.
Il Ga- rappresenta il Con- di un antico nome personale nel Cornish (dialetto della Cornovaglia: la più vicina alla Francia). E nomi con Con- divenuto Ke- si trovano in gran numero. Uno di essi: Conmingen poi Kemynyon.
Tuttavia, essendo esso  assai diffuso sul Continente europeo nelle aree dell’antico celtico, non si poteva trattare che di una preposizione o un prefisso preposizionale corrispondente a: presso a, vicino a.
Concorezzo, dunque,  deriverebbe presumibilmente da: Con – Coret (maschile?). Se questo, invece, è Celtico, coret potrebbe corrispondere al Gallese cored  e cioè  stagno o conca piena d’acqua in cui si pesca. O una chiusa, uno sbarramento creato per interrompere il flusso di un corso d’acqua  o sua derivazione, attraverso la costruzione di una barriera. Cored potrebbe essere stato coret  nel primitivo Gallese. Questo è, però, un vocabolo femminile, così pure lo sbarramento, la chiusa di un corso d’acqua: Y GORED. Una derivazione possibile, dunque: Nant-y-gored (sbarramento, chiusa di un piccolo corso d’acqua), Pant-y-gored (sbarramento che forma una valletta ombrosa).  Purtroppo  Joseph Biddulph non trovò un nome con questa radice.
Non è impossibile  che lo trovi, invece,  chi domani ritenesse di dover esplorare questa via per andare oltre. 
 “Il Gallese non comprende, ovviamente,  l’intera storia della lingua celtica, la quale  é suddivisa in più parti che sono un residuo dell’originale parlata celtica. Le differenze fra esse?    Non vi fu mai un originale Celtico, bensì una serie di dialetti simili. Grappoli di dialetti un po’ come  in Africa oggi. Questo rende tutta la questione non poco incerta; ma serve per rilevare che nella grammatica l’antico Celtico di tipo Gallico assomiglia alle lingue Italiche.”
Insomma la difficoltà sta anche nel comprendere le sfumature dei termini per gli elementi che compongono il nome di luogo.  Certamente non si perverrà mai alla sua percezione nel periodo celtico.  E le caratteristiche fonetiche del dialetto locale contribuirono a storpiare il nome antico (kom kored, com cored).
Del resto fin quasi agli anni quaranta del Novecento, per la memoria che ne conservo, in paesini attorno a Concorezzo, lontani da città e dalle principali vie di comunicazione,  si parlavano dialetti con accenti, espressioni o pronuncia ben diversi da quelli che ero abituato a sentire. Relitti antichissimi che l’italianizzazione non aveva ancora cancellati?    E, quando in ogni paese  gli abitanti pronunciavano il nome del luogo in cui vivevano,  tutti erano  più tenacemente conservatori dei lessicografi.   Anche se per la trasmissione orale non esistono codificazioni scritte e di conseguenza punti di riferimento concreti. Non avendo forma scritta, nel succedersi di popoli migranti provenienti da terre diverse, una lingua è più vulnerabile, oltre che ad essere modificata anche ad essere in parte dimenticata. Specie il nome di luogo se la precedente popolazione diviene minoranza. Lasciando alle spalle una memoria della cultura che l’ha espresso. Per coloro che pronunciano quel nome nel tempo non riveste più il significato che aveva in origine.  E’ solo  il nome del luogo in cui trascorrono la loro esistenza: é il loro  universo.
E alla luce di quanto avevo potuto cogliere sforzandomi di penetrare in questo angolo magmatico che è calato entro l’uomo, radicandolo nel passato e nel territorio,  non accantonai l’ipotesi di una chiusa su un corso d’acqua, piccolo o grande che fosse stato.   Mi tornavano alla mente, inoltre, Clusura de Cerone e  Prato de Valle nominati nella permuta dell’892 tra Pietro, abate del monastero di S. Ambrogio di Milano, e Pietro, arciprete e custode  della chiesa di S. Giovanni di Monza, della basilica di S. Eugenio in Concorezzo di beni, terre a vigna ed a campo, con la basilica di S. Giorgio in Cologno e sue proprietà.  Ma clusura in quel periodo era riferito non ad un incastro o chiusa per contenere l’acqua, bensì  ad un recinto, vale a dire una struttura agricola  (vi è, però, chi lo interpreta anche come terreno collettivo). Se lo si vuole verificare,  basterà esaminare le carte dell’epoca per la nostra regione. Dal canto suo, il Du Cange, a pagina 356, al termine clausura scrive: ager clausus sepibus, campo chiuso da siepi; mentre  per argine, incastro per le acque riporta il termine clusa. Come per il mulino dei fratelli Deodato e Senatore ad Ottavo.
Non vi è dubbio che al suo sorgere, nella preistoria, Concorezzo sia stato situato sopra un territorio a diversi livelli, come pure nel medioevo: da qui un prato de valle.  Fino al 1800, terreni detti la gera e strade dette della valletta ci confermano che le condizioni naturali del terreno  non sono ancora del tutto mutate.
Per ora chi può  dire se vi sia o non vi sia stato  uno specchio d’acqua artificiale, oppure uno stagno, un corso d’acqua, magari pescosi?  Ma si potrebbe pure andare un po’ più in là e pensare che il nostro territorio  fosse già, come appena dopo il Mille, più prossimo al Lambro di quanto noi possiamo supporre.
Volgiamo, intanto, il nostro sguardo oltralpe per qualche raffronto. 
Conquereuil, ad esempio, nel dipartimento francese Loire-Atlantique  canton de Guemené-Penfao,  è una città bretone in una zona  caratterizzata da terreno lievemente ondulato   con stagni pescosi  e  il fiume Le Don,  che scorre  prossimo al suo territorio. E dal quale hanno preso il nome i circoli celtici locali.  Inoltre, a pochi passi da quel borgo vivono ancora querce multicentenarie.
Ritenuto da alcuni studiosi uno dei toponimi equivalenti a Concoretio, consultai su segnalazione della dott.ssa Marie Heléne Jullien dell’Institut de Recherche et d’Histoire  de Textes  et de Mondes Anciens et Medievaux di Parigi,  i Cartoulaires.  Constatai così che  Conquereuil, a metà dell’XI secolo veniva scritto Concretus, Conquareticum, Conquereus, con doppio suffisso –ari(a) –olum. Studiosi francesi attribuiscono il suo suffisso –euil al periodo gallo-romano.
Conqueyrac, nel Gard, invece, concharia, insieme di cunette, più il suffisso –acum.
Mentre per: Concorès nel Lot, non lontano da Gourdon, vicino al fiume Céou, a confine con la Dordogne; Concourès nell’Aveyron; Concoules  pure nel Gard (Nimes); Concorés nella regione di Rodergue in Linguadoca; o Correze, non rinvenni riferimenti. Forme antiche del celtico diversamente latinizzate?
Tutte queste località francesi compaiono già, come pure Concorezzo, in un dizionario geografico del 1859. 14 
Per il nostro territorio si ripropone la domanda: com’era la sua conformazione al sorgere del primo villaggio?     
Questo, però,  non mi impedisce di concludere  dicendo che il nome Con-cored  o Concoret –io  è  più simile a quello  di Concoret, antico villaggio in Bretagna, tra le Morbihan e l’Ille et Villaine,  terra che ha conservato il suo carattere misterioso, dove Storia e leggende si sono coniugate fra le acque pulite, nell’antica foresta di Brocéliande e nella verdeggiante foresta di Lanouée. 
Anche per Concoret  non ho trovato  per il medioevo  alcuna variazione nella grafia.     Forse perché la Bretagna é  la sola regione francese  in cui ancora  si parli un dialetto celtico… che, si riteneva, vi fosse stato importato nel VI secolo d. C . dai Bretoni. Ma che  le ricerche condotte dall’abate François Falc’hun hanno stabilito che il bretone moderno  è  l’erede del gallico e non un dialetto insulare importato. Il medesimo Autore, inoltre, sostiene: “ In una stessa lingua, più interpretazioni di uno stesso toponimo rimangono ancora possibili…Il primo problema che pone un nome di luogo che non fa più parte del vocabolario comune della lingua del paese in cui si trova è quello della lingua attraverso la quale solamente può ricevere una interpretazione corretta”. 15 Senza dimenticare che sono stati i parlanti a produrre un mutamento fonetico dei toponimi.
In ogni caso tutte le località francesi con il nome somigliante a Concorezzo sono Comuni rurali e contano un numero molto limitato di abitanti. Un pò  più di quelli del Concorezzo di Lacchiarella. Hanno mantenuto, invece, più caratteristiche del passato di quelle che può avere perduto il nostro borgo.
Les Concoretois, gli abitanti di Concoret, ad esempio, fino al 1998 avevano ancora una guardia campestre ed allevavano maiali che i  Concorezzesi di oggi hanno appreso dagli anziani che ciò pure qui avveniva… oltre mezzo secolo fa.
Per noi è rimasto, dunque, solo lo scheletro di quel nome, uno scheletro che, al pari di un fantasma, compare paludato secondo le occasioni?
E’ vero che la Bretagna è una regione attraversata da fiumi. Che nelle vicinanze di Concoret si incontrano tre corsi d’acqua; che questa parte dell’Armorica, ricoperta da un’immensa foresta  nei primi secoli della nostra èra, fu la terra di mago Merlino e della fata Viviana, di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Favola, realtà o coreografia, questo non cambia molto per il nostro toponimo.
Si può solo domandarsi: se in Gallia furono le radici del nome del nostro antico borgo, quali sono oggi le affinità e le differenze della città di Concorezzo con i suoi omonomi  dopo che ognuno di essi ha seguito una propria strada? Che lascio da definire ai ricercatori che volessero addentrarsi negli antri oscuri di questa micro odissea.   
I contatti con il dr.Olivier Szerwiniack, membro dell’Institut de Recherche et d’Histoire des Textes di Parigi, specialiste de la littérature celtique, il quale mi indirizzò al prof. Pierre –Yves Lambert, spécialiste de Galois, e con la Faculté de Celtique dell’Université de Haute Bretagne a Rennes,  rappresentarono l’ultimo passo  del mio lungo cammino.
Le considerazioni e indicazioni scaturite  mi sospinsero verso la Linguistic Society of America di ieri con il suo Supplement to Language: “De la toponymie bretonne, dictionnaire étymologique, par William B.S. Smith, préparé sous la direction de Louis H. Gray d’aprés le manuscrit inédit d’Auguste Brizeux”.   E tra le località bretoni compare  Concoret:  derivazione  dal gallico con-cored.  Lingua, il Gallico, che appartiene alla galassia  delle lingue celtiche. 
Il significato di Concoret: una valle ( cwm =con) dove  un corso d’acqua incontra uno sbarramento(cored).  Viene segnalato che il gallico cored  e il nome di antico luogo. Coret loencras corrispondeva alla chiusa in Avézac.
Ma pure un villaggio vicino ad uno sbarramento, naturale o artificiale,   di un corso d’acqua che si riversava in una depressione del terreno dove  l’acqua, indispensabile per la vita, si conservava. Tuttavia non va trascurato il fatto che a quegli uomini era sufficiente che il capo della tribù o il druida riconoscesse al nuovo territorio qualche caratteristica simile a quello che erano stati costretti ad abbandonare. Non che necessariamente ne fosse la copia identica. Oltre, naturalmente, l’esistenza di fatti dei quali è impossibile conoscere o comprendere l’essenza.
“Il termine conca, ad esempio, nella toponomastica non implica necessariamente l’esistenza attuale o passata di una valletta (né di un dosso). Esso si può applicare a date forme che fanno pensare a quella data forma del terreno.” 
 “Anche nell’Insubria, come scriveva, poi, il Bognetti,  malgrado la prevalenza dell’elemento indigeno, tali toponimi potrebbero spiegarsi col fatto di essere rimasti dei nuclei gallici a diretto contatto o addirittura chiusi in mezzo a qualche gruppo compatto di coloni romani. Indizi di centuriazione pare di scorgere tutt’ora (1920 ca.) nel tracciato delle vie campestri di parecchie zone della pianura alto milanese…” 16

“Fece qui fine e… tacque”
Se si conviene con Socrate che la giustezza delle parole si ha quando la parola indica qual è la cosa designata, allora  con la mia ricerca, suffragata da studiosi di lingua celtica e gallica, posso dire di essere giunto all’ultimo passo.  Se le parole sono, invece,  convenzioni e designano le cose solo per coloro che partecipano della convenzione e le cose già conoscono, chi potrebbe sottoscrivere la certezza assoluta di questa interpretazione, all’infuori di coloro che  diedero vita al toponimo?  Ho almeno sfiorato  le vie certissime della scienza che sono per Cartesio l’intùito e la deduzione?
A questo punto qualcuno, di ogni cosa dubitando, potrebbe obiettare che   per  la storia di Concorezzo dopo tutto questo ricercare non cambia nulla.
“La parola del passato, diceva Nietzsche, è sempre simile ad una sentenza d’oracolo: e voi non la intenderete se non in quanto sarete gli intenditori del presente…”.
Per chi, infatti, vive attanagliato nella morsa del quotidiano in un microcosmo eccessivamente dilatato, che quasi non gli consente di pensare a ciò che è, figuriamoci di pensare a ciò che è stato, non cambierà  nulla.  Ma per quelle famiglie che qui vivono  da  numerose generazioni con profonde radici il cui richiamo innesta un corteo di rimandi ? E, soprattutto, per coloro che qui sono calati a vivere l’avvenire ed hanno il diritto di conoscere le origini della città della quale, negli anni, non sarà per loro facile dimenticarsi?   Meglio disconoscere, quindi, le proprie origini o prenderne coscienza?
Cosa bella  mortal passa e non dura. Che la vita e la storia, in forme assai meno petrarchesche, confermano. Specie se si tratta di  una società come l’attuale. Impigliata nella rete di una globalizzazione opinabile, entro un globo che sembra voler fuoriuscire dal mappamondo. Con punti di riferimento che più che  fluttuare vengono sommersi da un chiacchierio irrefrenabile, in cui il genere umano, incatenati lo spirito del carpe diem oraziano, e l’invocazione faustiana, attimo, sei bello, fermati,  è inconsapevolmente invorticato non nella ricerca del sapere e della felicità, ma della bufera infernale  dantesca che mai non resta.
Cerchi chi ha soltanto un dubbio su questa derivazione di soffermarsi un istante per chiedersi, almeno, che cosa può avere indotto coloro che qui migrarono a dare quel nome alla nuova terra.  Che cosa se non un luogo ospitale che  ricordasse loro il villaggio in cui erano nati e dove avevano vissuto per anni? Non sarà esattamente il nome, ma ne è sicuramente il supporto. E’ ciò che si è verificato in un passato molto remoto e si è ripetuto fino al Novecento.  Lo si può constatare sfogliando un atlante.  Dal Cinquecento, difatti, un gran numero di individui ha lasciato il  paese  natale in Europa  alla ricerca di una terra in cui poter continuare a vivere.  Le testimonianze più numerose le ritroviamo nel Nord come nel Sud America, e in altre parti del mondo.  Ovunque si incontrano nomi di località dalle quali provenivano i migranti. Perché, dunque, anche i Liguri, i Celti non potrebbero avere portato in Italia, come in altri Paesi, i nomi dei villaggi, o un ricordo dei medesimi, che erano costretti ad abbandonare per poter sopravvivere?
E come l’esule in solitaria melanconia ti penso, ma che nel tuo secolare mutar seguo, terra mia.
Esistono dei limiti oltre i quali un singolo individuo non sempre riesce ad andare. 
Altri più fortunati di me, non è detto che, sostenuti in loco e con il progredire  della scienza e della tecnica, non possano  rinvenire sentieri che per me  sono stati impraticabili. Andando… oltre le tecniche oggi definite avanzate. 
Del resto che cos’è la stessa ricerca scientifica se  non un lungo brancolare alla cui conclusione si arriva più rapidamente quando ciascuno fa per gli altri il bilancio dei suoi brancolamenti?

Quanto sin qui ho riportato, con imperfezioni e riduzioni di diverso genere nel corso dell’ esposizione, vuole essere, quindi, solamente un contributo di un non specialista della disciplina linguistica alla ricerca della derivazione del nome di luogo Concorezzo.

  






1 C. Beard, That noble dream, 1935, ristampato in The varieties of History, a cura di Fritz Stern, New York, Meridien Books, 1956, p. 324;  Lynn Townsend White jr., Tecnica e società nel medioevo, Il Saggiatore, 1967.
2 Aldo A.Settia, La toponomastica come fonte per la storia del popolamento rurale, in Medioevo rurale a cura di V. Fumagalli e G. Rossetti, Bologna 1980, pp.35-37.
3 L. Mumford, Il mito della macchina, Milano 1969, pp. 32-33.
4 Docente presso l’Universita degli Studi di Milano, autore, fra le altre opere, di L’etimologia –Storia-Questioni-Metodo, Brescia 1967.
5 Era la fine degli anni Sessanta. E quel: “Je n’en vay chercher un grand peut etre”, che François Rabelais  avrebbe detto sul letto di morte al cardinale de Chatillon, non mi parve proprio  una bella  prospettiva per la mia ricerca.
5* Cfr. pure Albert Dauzat, Les noms de lieux- Origine et evolution, Paris 1937; Ch. Rostaing, Les noms de lieux,  Press universitaires de France1997; Roland Breton, Géographie des langues, Paris 1976; Auguste Longnon, Les noms de lieux de la France – Leur origine, leur signification, leur transformation..., Paris 1968 e Ch. Peyre, La Cisalpine gauloise du IIIème au Ier siècle avant J. C., Paris 1979.  Inoltre: Atlas Linguistique de la France par regions, 1969; J. Moreau, Dictionnaire de geographie et de historique de la Gaule et de la France, Paris 1972 (toponimi Gallia, repertorio) e John Field, Place names of Great Britain and Ireland, David & Charles, Newton Abbot. 
Ancora meglio se si  riuscisse a trovare un gazetteer o lista completa dei nomi di luogo del mondo romano con il significato etimologico di ciascun nome.
6 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro secondo, p. 101, Milano 1970
6* La chiesa di S. Andrea, scomparsa nel secolo XVI, a circa metà strada tra la Monza-Olginate e la Melzo-Vimercate, stava tra il Palazzone e la Trattoria la Gabina, e cioè sul primo tratto dell’attuale via S. Rainaldo andando verso Villasanta.  Quindi non dove l’antica chiesa di S. Andrea é stata indicata in Concorezzo medioevale, schema allegato al numero I di Ricerche storiche sulla Chiesa ambrosiana edito nel 1970, vale a dire nel luogo in cui venne edificata la nuova Chiesa parrocchiale del Cagnola.  Lo dicono le carte parrocchiali del Seicento in Archivio Plebano di Vimercate ed in Archivio di Stato di Milano; e le carte del censimento settecentesco:  descrizione del territorio di Concorezzo e mappa di lavoro del 1721. Nel 1672 l’horto   chiamato il S.to Andrea di pertiche 3; nel 1759 aratorio avitato chiamato il Tre codaglio(Tricudai) di proprietà del Beneficio parrocchiale, che nel 1809 é già stato venduto o permutato dal parroco Pietroli o da don Frigerio.  Ne feci cenno nella mia relazione dell’11 novembre 1989 al Convegno sul 90° della Chiesa dei SS. Cosma e Damiano e in Il Cittadino di Monza del 25 novembre 1989.

6** Ho avuto occasione di esaminare  le genealogie di antiche famiglie nobili.  Quella dei De Capitani di Scalve, che facevano risalire le loro origini a Milo I. Rex Caenomannorum et Angleriae, A. 493; quella dei De Giorgi  alla figlia di Teodolinda e re Agilulfo,  un po’ più a portata di verifica, e di altre. E mi astengo  da ipotizzare le origini dei Concorezzo. Anche se non credo che sia possibile, sic et sempliciter, escludere una loro origine più antica.
7 Grande Illustrazione del Lombardo Veneto, ossia Storia delle città, dei borghi ecc...  compilata da L. Gualtieri e diretta da Cesare Cantù, Milano A. Tranquillo Ronchi, 1857-1861, vol. I, pp.546-547, 1857.
G. Aguilhon, Scoperte archeologiche nell’antica corte di Monza, in Archivio Storico Lombardo, 1890, parte II, pp. 754-755.
A. Cavallazzi, La sorpresa della epigrafia celto etrusco-pelasgica. Appendice prima: La tomba ad ustione di Concorezzo, pagine 209-214, parzialmente riportata in Storia di Concorezzo del 1978.
7 * Avevo conosciuto don Enrico Cattaneo negli anni Cinquanta e lo frequentai per qualche tempo quando mi occupai della storia di Concorezzo  dal 1918 al 1935, parroco Antonio Girotti e podestà Gerolamo Bonati, sapendo che egli era stato Assistente di mons. Cavezzali il quale fu sempre vicino a don Girotti.   Mentre incontrai mons. Enrico Villa, più di una volta, in Arcivescovado  nell’Ufficio per le Nuove  Chiese  della diocesi di Milano, quando suo Assistente era il giovane architetto don Giancarlo Santi.

8 F. Falc’hun, Les noms de lieux celtiques, Genève-Paris 1982, Avant propos, p. 4.
9 Cfr. J. Vendryes, Lexique ètymologique de l’irlandais ancien, fasc. C, Dublin and Paris 1987, s. vv. cocur, con-cuirethar, pp. 139, 276-7.  Questo dizionario dell’antico irlandese fu composto da Joseph Vendryes (1875-1970), e tra il 1959 e il 1987 venne completato a cura di F. Bachellery e Pierre Yves Lambert.   Cfr. inoltre:  Contributions to a dictionary of the Irish language by M. Carney-Mairìn O Daly, 1975 Dublino e A Grammar of Old  Irish di Rudolph Thurneysen, Dublin 1980.  
10 G. Haussmann, Il suolo d’Italia nella storia, in Storia d’Italia, Torino 1972, vol. I, p. 65.
11 F. Martinelli, Storia di La Spezia, febbraio 2000;  B. Migliorini, Stotia della lingua italiana, Firenze 1976, p. 7-8.
12 G.P. Bognetti, Studi sull’origine del comune rurale, Pavia 1925 – Milano 1978, pp. 44-50.
Nelle Storie, opera della metà del V secolo a.C., del greco Erodono troviamo le prime menzioni sui Celti dell’Europa interna.
Notizie più prossime al momento in cui si verificarono le migrazioni celtiche sono arrivate dalle Historiae, II, 15-17 di Polibio (III-II secolo a. C.). In questo libro si trova una descrizione dell’Italia e della Gallia Cisalpina che egli visitò verso la metà del II secolo a. C. e della quale ricorda la ricca produzione di grano, panìco, miglio e vino; delle ghiande e dei maiali esportati in Italia, dei commerci. I suoi 40 volumi, scritti in greco, coprivano gli avvenimenti storici del Mediterraneo dal 164 al 146 a. C.  Anche Catone e Plinio il Vecchio hanno lasciato  notizie sulla Cisalpina, sulla sua composizione e sulle risorse economiche del territorio se pure non sempre concordi con altre tradizioni. Su quei Celti che i Romani chiamavano Galli. Per la Gallia Cisalpina, vi furono anche altri storici come: Fabio Pictor, storico romano di lingua greca, Posidonio, al quale pare abbia attinto pure Giulio Cesare, ma le sue Storie sono andate perdute.
13 Cfr. Edwin Bevan, House of Seleucus, vol. II, pp. 45-46.
I Galli celti avevano appreso l’alfabeto greco dai Marsigliesi; tuttavia solo i caratteri erano greci; la lingua era celtica.
14 V. de Castro, Gran dizionario geografico, politico dell’Europa, vol. I,  p. 601, Milano 1859.
Non in Dictionnaire topographique departemental de la France comprenant les noms de lieux anciens et modernes, curato dal ministero dell’istruzione pubblica, che dal 1858 e il 1960 non  aveva superato un terzo dei dipartimenti. Ciascun volume comprende, oltre un’introduzione di geografia storica, l’elenco alfabetico dei nomi di luogo del dipartimento. Vi sono registrate le forme antiche, se storicamente classificate con i riferimenti. Nè in Dictionnaires des Postes et Tèlègraphes del 1913 (I^ edizione 1858) formato da 150mila nomi o in Dictionnaire ètymologique des noms de lieux en France di A. Dauzat et Ch. Rostaing del 1963.  E neppure in Archives Dèpartementales.
15 F. Falc’hun, op. cit., pp. 189-207. Le invasioni scandinave portarono solamente un’immissione di elementi lessicali stranieri specie in Bretagna e in Normandia. Anche se su questo punto vi siano voci  non concordi.  E, pagina 9.  Del resto il gallico non è considerato da tutti linguisticamente compatto, ma variegato.
Dal libro III dei Commentari della guerra gallica di Giulio Cesare si apprende della campagna, breve e spietata, del 56 a. c. in cui i Veneti furono battuti per terra e per mare. E, oltre la Normandia e la Bretagna, tutto il resto della Gallia fra il fiume Garonna ed i Pirenei venne sottomesso al dominio romano.
16 G.P. Bognetti, op. cit., p. 72.



5 aprile 2013
Caro Floriano, scartabellando in una libreria, sono colpito da un tentativo di chiarire a tutti noi poveretti  la paternità o maternità di CONCOREZZO. Trascrivo: “Concorezzo (MI).Il toponimo deriva probabilmente da un  “COCCULUS” = PICCOLO DORSO. Concorezzo presenta epentesi di N ed è formato dal sufisso  .ICEUS” .  Firmato: Carla Marcato, università di Udine, coordinatrice scientifica. (Dizionario dei nomi geografici italiani. Editrice TEA – I Dizionari – UTET)
Tu che hai sudato per aiutarci a capire qualcosa !!!
NB- In nessun vocabolario ho trovato il termine COCCULUS.
In India esiste una pianticella con questo nome che viene usata per cure omatopeiche.
Buona giornata. Don Ercole

6 aprile 2013

Caro don Ercole,
Ti ringrazio, innanzi tutto della Tua partecipazione alla Storia del Borgo. Purtroppo quando le righe da scrivere superano la decina, sono costretto ad attendere la presenza di qualche anima buona a cui poter dettare. Per telefono non potrei dare certo una risposta più completa.
“Quid ergo sum, Deus meus, quae natura mea?”
Anche se attraverso periodi sempre un po' più critici per la salute, mi fa piacere vedere che almeno Tu  cerchi di fare chiarezza su qualche punto della nostra Storia.
Non mi meraviglia più di tanto, pur essendo oggi molte le vie aperte alla conoscenza ai miei giorni sconosciute,  che un altro docente universitario peschi nel mazzo. Mi ero quasi abituato a ciò negli anni che ho passato a ricercare. Successe con una docente della Statale per una pergamena del XIV secolo, riguardante Bernabò Visconti, e con una della Cattolica a proposito di un momento della vita di San Rainaldo de Concorezzo dalla stessa ripreso senza verifica. Lasciando così monca la parte da me scritta sul cardinale Peregrosso, suo protettore, in Dizionario della Chiesa ambrosiana. Per la qual cosa allora nemmeno mons. Majo ritenne di poter prendere posizione.
Non é che sia onnisciente, ma almeno per quel poco che ho trovato nel corso delle mie ricerche e soprattutto verificato... Toccherà a chi proseguirà la ricerca, qualora rinverrà documenti sfuggiti al tempo e soprattutto ai falsi dell'uomo, ripulire la nostra Storia dai dubbi che non possono mai mancare in ogni storia. Senza dimenticare che: Non esiste la certezza assoluta ed eterna nella ricerca storica.
Questa nuova leva universitaria non fa niente di nuovo: segue le orme di altri che l'hanno preceduta nel tempo; mentre le case editrici si fidano del sapere di chi si é dato all'insegnamento di una materia. Ancora che Carla Marcato aggiunge probabilmente.
Del  cocculus, nel significato di piccolo dosso, scrisse Dante Olivieri negli anni Trenta del secolo scorso e un po' di anni dopo Natale Bottazzi, come ho riportato nel primo volume della Storia di Concorezzo. 
Non so se in Italia la toponomastica ha fatto oggi molti passi avanti, ma se dovessi giudicare da questo, avrei qualche dubbio. Anche se si tratta di una materia considerata dagli esperti non facile. 
Quello che non può farmi piacere é vedere che ho scritto probabilmente in una forma non molto intelligibile sul tema. In ogni caso, anche se vale sempre il primo principio di Cartesio: "Non prendete niente per vero a meno di non sapere in modo chiaro ed evidente che é vero", per i toponimi dalle radici tanto lontane e profonde non possono esistere certamente testimonianze inoppugnabili.
Devo lasciarTi, malgrado l'aiuto avuto da questo amico: troppi i farmaci e sonno sempre interrotto.
Un caro saluto, Floriano




Nessun commento:

Posta un commento