Sapere tutto di un dato argomento è, senza dubbio,
importante, anche se difficile. Ma più importante e più difficile è saperne
ricavare una sola risposta, che abbia un significato preciso e una utilità per
chi legge e vuole conoscere la storia della nostra comunità nei secoli.
Difatti, la cultura dell’uomo non può essere soltanto una
sequela più o meno varia di nozioni. Tutto ciò che egli sa deve avere una
realtà umana e viva che coniughi alle nozioni i fatti, così che le pagine che
li contengono divengano un sussidio per ogni cittadino interessato al passato
di Concorezzo.
Una delle parti che non sono comparse nel secondo
volume
Il nome di
luogo CONCOREZZO
di Floriano Pirola
Un nome del tempo in
cui per l’uomo la natura era sacra; ma non più inviolabile.
Questo non è il lavoro di un etimologista, bensì quello di
un ricercatore di storia lombarda, dal
medioevo all’età moderna, che ad etimologi
ed a toponomasti ha fatto ricorso.
Lo svolgimento di questo
tema non vuole invilupparsi in una forma di erudizione accademica; ma diventare
matrice di informazione e cultura. Attraverso una sorta di irruzione in campo linguistico
su un
tema in ogni tempo di attualità. Che,
come tutte le irruzioni, è senza ordine sistematico, con una logica propria,
alla ricerca di ciò che può costituire motivo nuovo o diverso di riflessione,
invito a considerare il problema da un’ottica nuova o diversa.
Non minore interesse
esercitarono su di me: le grandi aule della scuola elementare, ricavate nel
palazzo già dei De Capitani di Scalve, e l’ampio giardino retrostante,
in parte acquistato dai Brambilla di
Marcusate, Burago, detti marcusà, quando
vennero venduti gli ultimi beni di quella famiglia feudataria in
estinzione. E gli ultimi cortili di
contadini. Come la curt del
Barba, detto dei bigulitt con un
piccolo granaio sotto il portone di ingresso
e fra le robuste travi, che ne
sostenevano il soffitto, ad ogni inizio di primavera nidificavano le rondini;
all’interno, su un lato un imponente gelso, una stalla e soprastante
fienile; sull’altro una latrina, un
carretto, una stia e... tanta acqua e fango nei giorni di pioggia. Che ricordo, perché da questo cortile, con la fronte
sulla acciottolata via Manzoni angolo via Paterini, attraverso una porticina si
accedeva al giardino dell’ex Villa Paravicini, in seguito Teruzzi. Per la quale
passai nell’infanzia insieme ad Enrico e a suo nonno Felice. Molti i ricordi che si agitano nella mia
mente, come in un caleidoscopio scosso da mano vigorosa, per poterli ridurre in
poche righe.
Venne l’adolescenza ed
iniziai a pormi le prime domande sui nomi di luogo. Durante le vacanze estive, con Enrico
Teruzzi, amico dagli anni dell’infanzia, quando non trascorrevamo le giornate
di pioggia fra libri di narrativa, diari di esploratori o di storia,
percorrevamo sotto il sole, in bicicletta, le strade della Brianza. Strade
provinciali asfaltate, che avevano ai bordi
paracarri ed indicatori di granito con la distanza e il nome delle
località; strade comunali sterrate,
polverose o cosparse di ghiaia; selciate all’interno di un paese
e dissestate in un altro. Attraverso una campagna verdeggiante,
macchiata qui e là di boschi, filari di gelsi, sentieri segnati da robinie, che
per confini aveva i campanili delle chiese sotto un cielo pulito.
Usciti da Concorezzo, a Vimercate, superato il ponte
del torrente Molgora, la strada saliva leggermente e…Oldaniga… Ruginello. Qui lo scheletro in pietra della Morte, con
in pugno la falce all’ingresso del cimitero,
intimoriva chi, a piedi, si recava da quei paesi al mercato del venerdì
a Vimercate o per le visite a degenti in
ospedale. A destra la via per Sulbiate, mentre davanti a noi si apriva la
strada di Imbersago, che, dopo un lungo pedalare, ci portava nei pressi
dell’omonimo paese, e poi, o su, al Santuario della Madonna del Bosco, o giù,
al traghetto per Villa d’Adda.
A volte, invece, si andava ad Oreno, Arcore, Lesmo e
Canonica al Lambro; o da Villasanta a
Lecco in un susseguirsi di denominazioni territoriali, che distinguevano le località che attraversavamo.
I vecchi angoli di quei paesi mi incuriosivano.
Altrettanto i loro nomi, che mi accompagnavano talvolta insieme alle sensazioni
che quei luoghi avevano sollevato in me.
Mi domandavo come essi si fossero formati e chi li avesse così
denominati. Il professore di storia che interpellavo mi dava risposte che, alla luce delle mie
cognizioni di poi, corrispondevano alla cultura scolastica del tempo. Impegnato a ricreare il tessuto vitale del
passato attraverso le pagine dei testi scolastici di storia, non credo che egli
avrebbe potuto fare altrettanto per l’area oscura della preistoria. E non tanto perchè per leggere i documenti
più antichi vi sia chi sostiene che non occorrono lenti speciali, ma
preparazione paleografica e storiografica. Perché una simile preparazione non
mancava. Semmai più circoscritta era quella sulla toponomastica. Gli studi di questa disciplina, affrontati
con metodo scientifico, sono, infatti, relativamente recenti in Italia.
Le mie domande andavano oltre le parole di Beard : “…la
storia di ogni periodo abbraccia tutte le realtà che vi sono comprese;
ma la documentazione e la ricerca
sono parziali. Ne segue, quindi, che la realtà completa non è di fatto
conoscibile da nessuno storico, laborioso, imparziale o costante egli possa
essere nei suoi procedimenti…”. Ed
incominciavano ad avvicinarsi a queste altre: “ Gli storici, se intendono
scrivere la vera storia dell’umanità, e non semplicemente la storia quale è
stata vista da quelle esigue minoranze specializzate che avevano l’abitudine di
imbrattar carte, devono guardare con occhio nuovo ai documenti, porre loro
nuove domande, ed usare tutte le risorse dell’archeologia, dell’iconografia e
dell’etimologia per trovare risposte anche quando gli scritti dell’epoca
tacciono…”1 E soprattutto tenere sempre presente
che la storia non é ma diviene. Nel caso
nostro, però, si tratta della protostoria che abbraccia poco più di un
millennio e che costituisce la parte finale della preistoria in cui si
incontrano le età archeologiche del Bronzo finale e della seconda età del Ferro. Periodo durante il quale la nostra regione
fu in contatto prima con la civiltà etrusca e, in seguito, con quella romana. Nel quale l’uso della scrittura come mezzo di
comunicazione per la conservazione delle nozioni qui non era conosciuto. Non é che il possesso di un sistema di
scrittura si identifichi necessariamente con l’intelligenza o la vitalità di un
popolo.
Mentre il limite tra preistoria e storia è il vallo in cui
sono sepolte ancora informazioni importanti sulla vita dell’uomo in alcune aree
dell’Italia settentrionale.
Il linguaggio e la lingua
Il linguaggio, la capacità elocutoria insita in ogni essere
umano, strumento umano del dialogo, è costituito da segni e simboli. “Esso è
una specie di terreno sedimentario nel quale sono depositate esperienze ed idee
che risalgono a momenti diversi nella storia dell’umanità. Lo studio
dell’origine di una parola può rivelarlo non meno dell’analisi dei resti
archeologici”.
La comunicazione verbale si fonda specificatamente su segni
che hanno un significato convenzionale, linguaggio fonetico e verbale
propriamente detto. La lingua è, invece, ciò che si intende parlando di latino,
di dialetti o di gerghi.
Mentre la parola é l’atto linguistico individuale, la base
strutturale del linguaggio; presa isolatamente è un segno, un segno
convenzionale. “ Non tutti i segni, però, sono simboli anche se i simboli sono
segni.” In origine vi erano solamente
linguaggi convenzionali gestuali. Dal linguaggio cinetico o a segni l’uomo era passato al linguaggio fonetico e da
questo alla lingua scritta.
La linguistica, atta ad individuare le varie tappe
dell’umanità riflesse in formule precise, scritte o non scritte, è stato il
mezzo di ricerca utilizzato dagli specialisti dopo qualche millennio. In essa è invalso l’uso di chiamare
indoeuropeo il linguaggio del nucleo originario di popolazioni che, provenienti
da un’area ai confini dell’ Europa con l’Asia, migrarono in tutte le regioni
dell’Europa occidentale e meridionale, sostituendosi, in alcune regioni, a
popolazioni preesistenti.
Delle prime tribù protoceltiche di origine indoeuropea
stanziatesi, dopo la metà del II millennio a.C., sulle nostre terre, era
unica la parlata primordiale. Che avrebbe dato origine a molte lingue
moderne. E’ stato, insomma, seguendo queste tracce che
gli specialisti sono giunti ai successivi stadi linguistici che quella
parlata varcò.
“ La grammatica comparata delle lingue celtiche, che
consentono di ritrovare le tracce di queste lingue scomparse, venne elaborata
partendo dal gaelico d’Irlanda, Scozia e
dal bretone del Galles, Cornovaglia britannica e dell’Armorica. I documenti
linguistici che hanno permesso di approdare ad una certa conoscenza del celtico
continentale sono pervenuti direttamente a noi – iscrizioni in lingua
celtica- o indirettamente- voci passate
attraverso autori greci e latini ed introdotti nelle lingue romanze,
germaniche… Lo studio dei nomi di luogo ha apportato un contributo molto
importante alla conoscenza del popolamento protostorico, poiché i toponimi
costituiscono la sola traccia linguistica dell’occupazione di certe regioni da
parte delle popolazioni successive…”,
scrive Venceslas Kruta, uno studioso dei Celti. Popoli appartenenti alla
famiglia etnica indoeuropea, noti con il nome latino di Galli o greco di
Galatai o Galati.
Spetta, quindi, agli specialisti ritrovare il significato
delle creazioni antiche o dei nomi deformati, che è la grande maggioranza. Sebbene sia imprudente persino per uno specialista affrontare la ricerca
etimologica di un nome di luogo facendo assegnamento unicamente sulla forma
attuale. In ogni tempo le popolazioni di un paese, che si sono scontrate o
amalgamate, hanno cambiato, infatti, vocaboli delle loro rispettive lingue.
Lingue che hanno potuto emigrare anche lontano dal loro paese d’origine.
” La meta a cui deve tendere lo studio scientifico dei nomi
di luogo in una data unità regionale è stata giustamente individuata nella
ricostruzione dei paesaggi fisici ed umani, in continui rapporti l’uno con
l’altro e con l’evoluzione della storia umana. Si tratta di uno studio che
i glottologi rivendicano giustamente a
se stessi in quanto nessuno può interpretare a fini storici un toponimo quando
non sia in grado di intenderlo come un prodotto linguistico. Spesso, tuttavia,
il glottologo tende a lavorare astrattamente, senza tenere adeguato conto del
quadro storico-topografico che lega i nomi di una medesima zona. Di qui una
certa diffidenza degli storici e l’invito ad accogliere con cautela le
conclusioni dei linguisti e, in particolare, dei toponomisti che lavorano
lontano da ogni preoccupazione storica…lo storico, tenendosi informato sugli
studi di toponomastica condotti dai linguisti, ne fa un uso critico partendo
dalla consapevolezza che, nel settore specifico, l’indagine è piena di pericoli
e che essa presuppone una conoscenza non superficiale dei luoghi, della rete
attuale degli insediamenti rurali e delle fonti che li riguardano. E’
quest’ultimo l’atteggiamento che ci sembra più utile, specialmente quando non
richiede di addentrarsi in troppo sottili e controverse questioni di sostrati e
parastrati o di riflessi linguistici sui quali è indispensabile l’intervento
dello specialista. Le vicende del popolamento e le modificazioni del paesaggio
rurale – che si succedono per lo più secondo ritmi molto lenti -- non sempre
sono state registrate in modo esplicito dalle fonti scritte né sono facilmente
attingibili dallo scavo archeologico o da altre costose e raffinate tecniche di
analisi del suolo…”2
E’ stato scritto, altresì, che : “I nomi di luogo consentono
di ritrovare o configurare gli spostamenti di frontiere linguistiche su un dato
territorio, come nella Gallia cisalpina…Per sostenere le etimologie, le forme più probanti sono
quelle che risalgono all’epoca gallo
romana: sfortunatamente ben pochi nomi
di luogo possono fornire titoli di nobiltà così antichi…è necessario
risalire nel passato e riannodare
pazientemente la catena delle forme che l’hanno precedute fino alla più antica
di cui la storia faccia menzione… Solo la storia ci insegna se il nome non è
stato trapiantato da una regione ad un’altra; la trafila delle forme ci
consentirà di scoprire le alterazioni che il nome ha spesso subìto nel corso di
un lungo cammino attraverso le epoche, di discernere omonimi recenti che il
caso ha riunito, o, al contrario, di ricostruire temi comuni che le fonetiche
regionali, l’analogia …” o errori di
scrittura hanno cambiato.
Infatti, quando si fa ricorso agli specialisti, etimologi,
linguisti per ritrovare il significato di un toponimo rari sono quelli che si
sentono di dare una risposta definitiva.
O, nel migliore dei casi, ricorrono alla grammatica contrastiva:
comparano cioè due sistemi linguistici, ne rilevano e ne descrivono le
differenze e gli elementi comuni sul piano fonologico, morfologico e semantico.
Il non specialista avrà accresciuto le sue nozioni linguistiche; ma nulla più.
L’esperienza da me fatta, prima con etimologi italiani e
stranieri allo scopo di conoscere il significato del nome di luogo Concorezzo, si può riassumere con le parole di Mumford:
“L’abilità del non specializzato non consiste nel dissotterare nuove prove, ma
nel mettere assieme frammenti autentici contenuti, casualmente, e a volte
arbitrariamente, separati, perché gli specialisti tendono a rispettare con
troppo rigore il tacito patto di non invadere i territori altrui…Tuttavia,
quando tenta di riunire le diverse prove in un mosaico più significante, il non
specialista deve rispettare certe regole. Anche quando gli sembra di essere
vicino a completare un nuovo disegno, non può tirar fuori furtivamente una
tessera che gli si adatti, come in un
puzzle, né tanto meno fabbricarne una che gli permetta di riempire il suo
disegno, benchè sia ovviamente autorizzato a cercare quel che gli manca nei
luoghi più improbabili. Nello stesso modo deve essere pronto a scartare
qualsiasi prova, per quanto cara possa essergli, non appena un suo collega
specialista scopra che è sospetta…Tuttavia anche gli studiosi specializzati,
sempre pronti a deplorare le congetture, a esse spesso soccombono, soprattutto
presentando conclusioni puramente congetturali come se fossero fatti ampiamente
provati e senza ammettere ipotesi alternative…”3
Se il cammino della scienza è disseminato più di ipotesi che
di certezze; il cammino della toponomastica è, dunque, solo di
verosimiglianze.
Metrica
dell’incertezza
Questa posizione di partenza
mi ha condizionato non poco a scrivere sul nostro toponimo.
Anche se una rilettura del nome di luogo Concorezzo è
iniziata con un noto etimologo
italiano, Vittore Pisani 4, il quale, dopo qualche incontro, mi
scriveva:”Caro Pirola,…. certo, cum curte
regia non fa una piega, da un punto di vista fonetico, ma c’é qualche
probabilità che a Concorezzo vi sia stata una tale curtis, e che significato ha il cum?… Anche il cocculus
di Olivieri può foneticamente andare (r per l è il noto rotacismo di buona parte della
Lombardia, cfr. Marignano / Melegnano). Ma (anche,
coccurus) naturalmente è un’ipotesi.
E allora? Se in tanti casi è difficile o impossibile stabilire con sicurezza
l’etimologia di una parola di cui almeno conosciamo il significato, figuriamoci
come ciò sia da dire ancora più per un toponimo, il cui valore semantico ci
sfugge. Con questa malinconica constatazione…”.
Ne parlai con l’amico prof. Natale, direttore dell’Archivio di Stato di Milano,
paleografo e storico.
Mentre successivamente il prof. Pisani, non discutendo il
punto di vista storico, proseguiva :“l’ipotesi di romanizzazione di un toponimo
precedente è più che plausibile…” E,
aggiungeva, citando l’Holder in Halt-Celtischer
Sprachaltz e il Darmstadter in Das Reichsgut in der Lombardei und Piemont:
“ se si volesse parlare di Celti… Concuruz
o., , Concoret, Conquereuil in
Francia; Congretegio a oriente di Monza… Semplice caso? Un grand peut ètre,
vien fatto di dire col Rabelais…I toponimi si sottraggono all’evoluzione
fonetica o si trasformano nei suoni in modo diverso dalla norma locale…Che dire
poi di certi castelli di carta eretti con speculazioni a suon di radici
condotte su nomi propri, antroponimi o toponimi di cui non conosciamo il
significato ?…Con siffatti metodi si possono sfornare grandiosi e perfettamente
inutili descrizioni di lingue poco note..”5
Qualche contatto con altri studiosi della materia anche
fuori d’Italia. Ed i problemi su questa disciplina incominciarono a
complicarsi, raggiungendo una sottigliezza che moltiplicò e diversificò domande
e risposte. La conclusione: probabilità; ma le probabilità non sono
certezze. Così, a dubbio si aggiunse
dubbio.
Fermandomi qui sarebbe stato un modo per risparmiarmi altri
problemi; ma soprattutto facili critiche alla conclusione della mia ricerca.
L’interpretazione ufficiale del nostro toponimo,
cumcurteregia, rientrava oramai nella
tradizione. Anche se tale
interpretazione non veniva confermata dalle ricerche storiche da me condotte in
tale direzione.
Che il folclore sia una riserva inesauribile di miti,
leggende, costumi e tradizioni, una vera
e propria letteratura delle società del passato, è fuor di dubbio. Sono molte le leggende, arrivate sino a noi
nel folclore, di genti più diverse, in cui si può riconoscere l’influenza di
antichi costumi e di antiche pratiche sociali.
Le tradizioni, formatesi in tempi in cui l’indagine obiettiva era il più
delle volte impossibile, hanno creato e spinto innanzi, purtroppo,
interpretazioni errate specie di nomi di luogo, tra i quali il nostro, il cui
significato era andato perduto da tempo immemorabile. Ma se
interpretazione e proiezione hanno generato i miti, la cui efficacia
deriva essenzialmente dalla credenza; il patrimonio di leggende, proverbi,
credenze, superstizioni e pregiudizi derivatone può offrire, però, materia di
raffronti. Anzi, in qualche caso, é un primo passo per scoprire analogie e concomitanze che a
volte possono sorprendere. Finita un’epoca storica, il suo ricordo si ritrova
quasi fossilizzato e stratificato nelle età successive sotto forma di
tradizioni ed abitudini spesso incomprensibili.
Insomma, qualcosa bisognava fare se si voleva superare la soglia e giungere al significato del
nostro nome di luogo.
Sia pure tenendo presente come, già nel 1794, il canonico
Anton-Francesco Frisi avesse iniziato il primo dei tre volumi delle Memorie
storiche di Monza e sua Corte: ” Non
v’è chi non sappia essere stato comune il prurito fra gli antichi Scrittori di
dare agli argomenti delle loro storie, o per pompa d’ingegno, o per vaghezza di
novità, o per soverchio amore alle rispettive patrie e Nazioni, le origini più
remote e sorprendenti. L’autorità di un Autore, qualunque egli sia, che
d’ordinario visse molti secoli dopo l’origine pretesa, fu il loro appoggio, o
tutt’al più un oscuro e male inteso testo di scrittor non volgare ne
somministrò ad essi il debole fondamento. Infatti se noi pure non ci crediamo
lecito il fingere, né l’interpretare mal a proposito ciò, che sembrar potrebbe
all’intento nostro opportuno; che mai diremmo relativamente alle origini di
luoghi veramente antichi, anteriori ai secoli barbari, e dei quali non ci
rimane al più che uno sterile cenno di autorevole scrittore, o un’arguta
illazione tratta da qualche avanzo di romana grandezza?…”. .
Anche se quelle sagge parole non erano la risposta che si
attendeva chi mi domandava quale fosse
il significato del nome di luogo Concorezzo, scartato il suggestivo
cumcurteregia che piaceva a tutti.
Inverosimiglianze
etimologiche?
Non mi restava che riesaminare il passato.
Le domande si affacciavano numerose. Innanzitutto si
trattava di sapere come l’uomo percepiva il territorio nel tempo in cui aveva
coniato il nome Concorezzo.
O cercare da quale realtà questo nome di luogo poteva essere
stato generato.
Iniziai compulsando i cinque volumi Lexicon
totius latinitatis del Forcellini, 1940. Poi, feci di nuovo ricorso al non
meno voluminoso Glossarium ad scriptores
mediae et infimae latinitatis, Caroli du Fresne domini Du Cange, del 1710.
Concorezzo derivava da
congiusrectus (congius = 6
sestari, misura di volume), da cui congiorecto,
congorecto (una parola omofona: etto da ecto), dove si fabbricavano contenitori per liquidi, anfore, di giusta
misura? Subito accantonato per il verbo latino concrescere: formarsi, sorgere, concrescere, e più esattamente per l’aggettivo concretus,
consolidato, cresciuto, composto di. Sul
quale ebbe presto il sopravvento concretio
che significa: aggregazione di parti, come, per esempio, di coorti romane,
di truppe ausiliarie ad una legione. Ma che in geologia ha il significato di
deposito minerale o sedimentario, un
significato più concreto per il
nostro territorio dove l’argilla non mancava.
Le figlinae,
contrazione di figulinae, oggi
figine, giacimenti di argilla nelle quali
lavoravano vasai, figulinai e orciolai, dette più tardi “officine”; in
seguito fornaci, in cui si incontrano ancora nel XV secolo e, più avanti, fornaciai tanto di
pietra che di calcina, per la produzione
di mattoni, tegole, lucerne e anfore, erano
diffuse nell’Impero romano. Famosi i mattoni sesquipedali (di dimensioni
molto più grandi dei nostri) nella Cisalpina in età repubblicana. Inoltre, fino alla metà del I secolo d.C. le officine cisalpine esportarono ceramica
in buona parte delle province transalpine. Mentre speciali fabbriche di
laterizi per l’uso della proprietà e senza scopo commerciale erano nelle grandi
proprietà fondiarie. Marco Terenzio Marrone reatino (116-27 a.C.), grande
erudito latino che visse tutta l’età sillana e cesariana, storico ante litteram
degno della nuova storia vaticinata
da Jacques Le Goff, consigliava nel De re
rustica, I, 2, (21-23) di porre nei fondi artefici fra i quali i figuli.
Sodalizi di figuli si trovavano nelle fabbriche di laterizi
in Gallia.
Eugenio Ghilarducci
in Antiche genti di Liguria. Storia
di Cogoleto ipotizzava,
infatti, che questo nome di luogo potesse significare il posto dove si cuoce la pietra (coquere lithos), e
cioè dove i Romani
forse fabbricavano la calce.
Inoltre, in documenti dell’alto e basso medioevo, Cogoleto
é scritto: Cogoretio, Cogoreo,
Cogoretium, Cogoreto, Cogoleno dove
la g rappresenta la normale risoluzione di un k intervocalico ed è quindi un
caso di fonetica sintattica. E, a volte,
Cocoletum, Cocurezo, Concorezo: così scritto solo per errate trascrizioni di scriba? Non tutti gli storici e toponomasti
dell’antica Liguria concordano su questa interpretazione del toponimo, che
sarebbe nato, invece, nei secoli in cui
i Liguri erano sparsi fra Italia e Francia, prima dei Celti.
Scriveva sempre Vittore Pisani: “....La lingua celtica, come
la germanica, la latina ed altre, hanno specie negli stadi antichi tante
somiglianze nel lessico e nella grammatica inspiegabili coll’ipotesi di
imprestiti scambievoli in età recente,
che ci è giocoforza pensare che esse risalgano a dialetti i quali un
tempo formavano una unità…e forse già inizialmente nel seno della quale si sono
venute distinguendo …”.
Non volevo escludere
l’ipotesi che attribuiva al
nostro toponimo un rapporto con la
natura del terreno; oppure che la sua radice affondasse in una visione
della natura con i suoi contrasti e le sue ambivalenze. Certamente potevo comprendervi nomi legati a conca, conchiglia che designano una
valle a forma di cunetta, derivante dal gallico cumb-, cui si era aggiunto, alternandoli, i suffissi diminutivi ula ed icius. E pure ettus desinenza, tardo latina, insignificante. Nomi che erano nati anteriormente alla
presenza di Roma nella Gallia Cisalpina, tra le pieghe di una lingua di un
popolo più antico.
I nomi di luogo liguri, celtici o gallici comparvero
scritti nel periodo in cui Roma penetrò ed occupò le Gallie, cisalpina e
transalpina. Essi vennero scritti
secondo la parlata delle popolazioni locali
e adattati alla scrittura latina.
Ed ecco che incontriamo nella Gallia Transalpina il nome Concoret, e in quella Cisalpina il nome Concoreto o Concoretio. Se la somiglianza e, qualche volta, l’identità dei significanti
senza la più piccola relazione semantica non è infrequente fra le lingue
imparentate; le lingue parenti sono forme della lingua comune con diversa evoluzione. Un’evoluzione, però, non significativa per i
due nomi.
E se ogni elemento di lingua si fonda sull’associazione di un
significato e di un complesso di fonemi, vale dire sull’associazione di un
significato e di un significante; nel caso nostro nessuno ha ancora stabilito
con precisione a quale vocabolario di
base essi appartengano.
Mi si spiegò, allora, che bisognerebbe conoscere i nomi di
luogo che si sono formati con le lingue parlate nella zona all’epoca della loro
creazione e trasformati seguendo le leggi foniche proprie agli idiomi che
possono avere soppiantato di volta in volta l’idioma originario.
E si ritornava al sermo
cotidianus, la lingua parlata, familiare, di tutti i giorni; al gergo degli
accampamenti, sovrastruttura grossolana del linguaggio normale; al latino deformato dall’incalzare delle lingue
barbare, parlate rozze ed incolte.
Che per ritrovare la loro etimologia bisogna conoscere nel
suo meccanismo complesso l’evoluzione sul suo territorio del latino volgare e
dei molteplici dialetti che si sono sviluppati e che necessitano di studi e
ricerche. Oltre che possedere le
nozioni raccolte dalla scienza sulle
lingue che hanno preceduto il latino in Alta Italia.
Ma, se la nostra conoscenza del ligure è quasi nulla, e
quella del gallico è lontana dall’essere completa... E’ vero che a tale insufficienza si cerca di
rimediare con il metodo cosidetto delle aree o meglio con la geografia
linguistica supportata dalla storia. 5*
Ero giunto a questo punto della ricerca, quando la
sollecitazione a scrivere la parola fine all’esplorazione dei fondi d’archivio
arrivò dal Centro Civico-Biblioteca, a sua volta sollecitato
dall’Amministrazione comunale giunta al suo termine. Dovetti lasciare com’era il toponimo in
compagnia dei miei dubbi, con le altre carte che avevo ancora da esaminare, e dare alle stampe, dopo un
rapido assemblaggio, la Storia di Concorezzo.
Radici nella
preistoria
Insodisfatto, non riuscii a restare inoperoso a lungo,
convinto che un prima inesplorato riaffiori sempre. Basta cercare.
Intrapresi l’esame delle carte non entrate a far parte di
quella Storia e di nuovi documenti.
Per il toponimo rilessi quanto avevo citato nel 1978 alla pagina 17, nota 1: “ La
toponomastica se esaminata seriamente e se depurata dalle fantasticherie
popolari si riduce a ben poco di interessante. Sarebbe più attraente una
raccolta delle false etimologie escogitate da storici e letterati, da
giornalisti e da professori, da avvocati e da pievani allo scopo o di
gratificare qualche loro asserzione o per
creare tradizioni poi dette popolari allo scopo di dare una certa rinomanza al
paesello nativo. Quel poco che c’è di serio e di vero nella toponomastica può,
però, servire agli studiosi di storia preromana per ampliare le poche
cognizioni che abbiamo dei popoli che vissero nelle regioni dell’Alta Italia
prima che Roma li assoggettasse e sui loro linguaggi…”. Tutto vero, ma se così
l’uomo avesse continuato a muoversi trascorreremmo ancora pomeriggi di festa per
i sentieri di campagna ai cui bordi occhieggiavano
le violette. Male, bene? Solo chi l’ha vissuto può rispondere, anche se un po’
tardi. Il tempo allora come oggi non si ferma. E l’uomo si succede, generazione
dopo generazione, comportandosi come se egli fosse il primo uomo sbarcato sul
pianeta terra.
Continuando a cercare mi resi conto che molte radici di
toponimi, tra Milano e Como, indicano
chiaramente la presenza di acqua, di corsi d’acqua, di strade e di stanziamenti
umani più remoti difficilmente identificabili.
E pure un Accademico dei Lincei, il prof. Massimo Pallottino, mi parve orientato
in tale direzione. Egli, infatti, ricercando le antiche radici delle città
italiane, aveva portato alla luce la stratificazione linguistica della
toponomastica italiana. Nel 1987 egli
scriveva: “ L’ansia di conoscere i segreti delle nostre antiche origini è
sempre più diffusa nella cultura d’oggi. Naturalmente una ricostruzione storica
vera e propria è possibile fin dove arrivano, risalendo indietro nel tempo, i
racconti e le informazioni delle fonti scritte, siano esse testi letterari o
documenti d’archivio o testimonianze epigrafiche. Andando ancora oltre verso il
più lontano passato non possediamo che i resti materiali della vita delle
società primitive: tracce di abitati, sepolture, manufatti, segni ornamentali e
figurati, che pur nella loro scarsa eloquenza ci hanno permesso di intravedere
alcune grandi linee del progresso umano. C’è, però, accanto all’evidenza
archeologica, un altro genere di indizi che generalmente sfugge alla curiosità
degli indagatori e del grande pubblico. Mi riferisco ai relitti rappresentati
dai nomi di luoghi, cioè di territori, di fiumi, di montagne, di città,
sopravvissuti talvolta con incredibile tenacia attraverso i secoli e i
millenni. Essi attestano stratificazioni di presenze umane parlanti,
rievocandoli anche quando le loro lingue sono scomparse da tempi remotissimi,
così come gli avanzi archeologici mostrano il sovrapporsi di livelli culturali
diversi quando si scava nel sottosuolo …la stragrande maggioranza delle
denominazioni di città, regioni, fiumi, montagne d’Italia attestate dagli
scrittori classici e dalle fonti epigrafiche di età romana, non è creazione
latina di questo periodo. Pur nella comune forma latinizzati si tratta di un
patrimonio linguistico antecedente alla romanizzazione, estremamente eterogeneo
e sovente antichissimo…Ci troviamo qui di fronte ad un fatto sorprendente perché è lo stesso nucleo
essenziale della toponomastica italiana che ci viene sì tramandato
dall’antichità classica, ma ha in verità
le sue radici nella protostoria e nella preistoria. La fase romana di questa
nomenclatura non è che un fenomeno di trasparenza… Il fatto è che se si va più in
fondo ci si accorge che per tanta toponomastica di base riguardante contrade,
centri abitati, rilievi, soprattutto fiumi, non esiste la possibilità di
spiegare l’origine delle parole con il vocabolario di lingue conosciute; ma
quel che più conta si incontrano impressionanti corrispondenze con nomi
geografici di tutto il Mediterraneo e in parte dell’Europa….Si è potuto
così pensare all’esistenza di un popolamento del nostro Paese anteriore al
diffondersi delle lingue indoeuropee e delle genti che avranno una funzione
storica. Ed è alle stratificazioni linguistiche di questi abitatori
preistorici, in parte comuni con aree geografiche più o meno collegate con
l’Italia, che saranno da attribuire le designazioni geografiche conservate con
incredibile durevolezza attraverso il lungo svolgersi del tempo…”
Quindi non solo
affinità foniche. In molti casi, una nascita per irradiazione da un abitato originario prossimo, ma anche
lontano.
Nelle interpretazioni del significato di un nome di luogo
proiettare i problemi nell’antichità, nella prelatinità, come abbiamo visto,
non è raro. Altrettanto studiare i nomi
di luogo per avvicinarsi alla conoscenza del popolamento protostorico.
E qui, per la preistoria, entra in campo il non specialista.
Il quale dovrebbe riunire settori separati, e palettati dagli specialisti, in
un’unica area.
Incominciamo a domandarci: se per il nostro borgo mancano iscrizioni e reperti archeologici, lo si deve solamente a quello che avvenne nel borgo tra
l’Otto e il Novecento; e cioè a scavi casuali e selvaggi dei cui esiti pochi
seppero e il loro sapere con essi
scomparve?
Effettivamente non mi è noto
se da noi possano esservi
state testimonianze di scrittura
antiche.
Magari non come l’iscrizione incisa su un gradino di
arenaria di quasi quattro metri scoperto nel 1966 a Prestino, nell’area
dell’abitato protostorico presso Como, datata, per i caratteri arcaici
dell’epigrafe, fra il VI e il V secolo
a. C. Le iscrizioni, scoperte e
decifrate, in caratteri dell’alfabeto
etrusco, appartenevano alla cultura detta di Golasecca. Località, oggi in
provincia di Varese, che fu centro di commerci con Etruschi e Celti
transalpini. La cultura di Golasecca, attribuita a stirpi Liguri, era diffusa
in Piemonte, Lombardia e Liguria, occupando cronologicamente la fine dell’Età del Bronzo e l’arrivo dei
Romani. Essa prese il nome dalla vasta necropoli ad incinerazione detta di
Golasecca dove aveva il suo epicentro.
L’archeologia protostorica ha chiamato convenzionalmente
golasecchiani la gente di una cultura della prima Età del Ferro. Una
popolazione celtica insediatasi nell’Italia del Nord, area lombarda prealpina
fin quasi al fiume Serio, parte del Piemonte, Canton Ticino e Val Mesolcina nei
Grigioni, a partire dal IX a. C. Della quale sono stati scoperti numerosi
centri demici, gli uni a breve distanza dagli altri. La cultura di Golasecca svolse la funzione di
intermediario nello sviluppo dei commerci fra mondo mediterraneo e mondo
centroeuropeo. Il commercio dell’Etruria
padana con i paesi del Reno e del mare
del Nord passano da Golasecca. Ad essa appartenne anche la sponda occidentale del Lambro. Lo testimoniano i ritrovamenti del maggio
1966 alla cascina Marianna di Biassono.
Concorezzo, invece, a sud-est, e poco più discosto dal
Lambro di Biassono, ma sempre sulla sponda, sia pur orientale, dello stesso
fiume, a quale cultura celtica appartenne?
Non si può addebitare proprio e solamente alla storia, a
lungo aristocratica, con le sue preferenze interessate, la perdita di un tesoro di memorie, quali centurie epigrafiche scolpite nella
memoria, tramandate a voce da quei primi abitatori che conservavano religiosamente ciò che gran parte degli storici può avere
dimenticato per le più svariate ragioni.
Anche se i ricercatori di storia hanno compreso con precisione in quale
enorme misura si sia stati influenzati dai documenti storici. I documenti scritti ai quali ci si affidava nel passato
rappresentavano, salvo rare eccezioni, la voce del sovrano e rispecchiavano il
suo modo di pensare e le cose di cui esso desiderava parlare. Non certo quello
dei nove decimi della popolazione che rimanevano analfabeti e privi di mezzi di
espressione.
Per questo non si deve tralasciare di indagare alcun punto
non chiarito in questa ricerca: come si
può intuire, vi è ancora un mondo che attende di essere portato alla luce.
I più antichi testi scoperti non lontano da noi sono stati
giudicati anteriori all’invasione storica dei Galli dell’inizio del IV secolo
a.C. e depongono per una celticità di
quella popolazione. E la lingua celtica ante 400 a. C. ha caratteristiche
comuni con il gallico.
“ Non è più possibile considerare i Celti cisalpini come un
insieme monolitico e immutabile. I grandi popoli del III secolo sono
apparentemente il risultato di evoluzioni complesse e in parte divergenti…”
sottolinea il Kruta.
“I Celti continentali arrivano al passaggio dalla
protostoria alla storia conoscendo la scrittura e lasciando un numero
relativamente alto di documenti epigrafici: iscrizioni, graffiti, legende
monetarie. Il loro carattere laconico non consente di utilizzarle per ora come
fonte storica, servire agli studiosi di storia preromana per ampliare le poche
cognizioni che abbiamo dei popoli che vissero nelle regioni dell’Alta Italia
prima che Roma li assoggettasse e sui loro linguaggi…”.
Il nome Concorezzo dall’oralità alla scrittura
Se, dopo un numero
imprecisato di secoli, l’uomo è passato dal linguaggio cinetico al linguaggio
fonetico e da questo alla trascrizione
fonetica, non mi rimaneva che tornare ad osservare la grafia del nostro
toponimo.
Esso lascia l’oralità per la scrittura solo nel 700, secolo
in cui ritroviamo documenti sul passaggio di proprietà immobiliari nel vico e
nel territorio di Concoretio? I nomi di
luogo, che sono particolarmente conservativi, hanno serbato traccia
dell’ablativo locativo, nel caso nostro Concoretio.
Le parlate celtiche delle Gallie (trans e cisalpina) vennero
con Roma uniformate, dando una forma
all’alfabeto orale di quelle popolazioni.
Da qui Concoretio… Concoret…Concorés…
A questo punto potrebbe esservi ancora chi si domandi
come un nome abbia potuto attraversare
un lungo periodo di tempo oralmente. Tale modo di tradizione
nell’antichità non costituiva l’eccezione,
ma la regola. Basti pensare all’epica
omerica della quale non è mai esistita, e per più di tremila anni, una versione
scritta. I suoi diecimila versi sono stati tramandati da cantastorie e da aedi
di corte. Fino ai nostri anni Settanta non esisteva alcuna fonte celtica antica di carattere storico. Quasi tutto
quello che si sapeva sugli avvenimenti di cinque secoli della protostoria
celtica lo fornivano i testi greci e latini.
Anche per il gaelico d’Irlanda, la lingua nazionale celtica,
la più significativa ed importante, i documenti più antichi sono gli scritti in
latino di S. Patrizio del V secolo della nostra Era, preceduti, però, da
antichissime tradizioni orali gaeliche trasmesse dalle scuole dei Filì, cantori
e poeti depositari delle concezioni pagane. Ai Celti appartiene pure un ciclo
di contenuto mistico cavalleresco il cui eroe è Percival, più noto con il nome
di Parsifal. Il cristianesimo ha conservato nei paesi celtici tracce delle
antiche credenze, in Irlanda, Scozia e Bretagna, come la leggenda del santo
Graal. Ma dobbiamo arrivare al VII secolo perché esse prendano forma e vengano
tradotte in forma scritta. Quando già le versioni originali hanno subìto
trasformazioni e assimilato influenze della letteratura classica e della
cultura monastica. Inoltre di questa
prima produzione sono arrivate fino a
noi soltanto rielaborazioni dei secoli XII-XVI.
Delle tradizioni di quei Celti, che
erano arrivati in Irlanda fra il 600 e il 500 a. C. diffondendovi la
civiltà del Bronzo e il sistema tribale, che continuerà in epoca storica, e
fissando i caratteri etnici e linguistici dell’isola, non si raccolsero che le
poetiche.
Il nome Concorezzo, quindi,
non ha faticato a superare i secoli attraverso le voci di tutti coloro
che vi hanno vissuto. Pur avendo perso
per chi lo pronunciava, il suo significato originario: prima o dopo la presenza
romana? Un’altra domanda alla quale potrebbe non esservi risposta.
Alle storpiature del
nome antico secondo le caratteristiche fonetiche dei dialetti locali si unirono con il trascorrere dei secoli alcune libere
trascrizioni di amanuensi e la
ricostruzione erudita di notai. Era più facile per la gente comune adoperare un
vocabolo barbarico, che udiva ogni giorno, anziché il corrispondente latino,
prestandogli il notaio desinenza e forma latina nella veste esteriore.
Ma quando esso passò veramente dall’oralità nello scritto
per la prima volta? Nel IV secolo,
quando Milano fu capitale politica e sede dell’Impero d’Occidente, esercitando
un’influenza sull’economia della Padania, mentre Monza fu frequentata dalla
corte imperiale?
Alla metà del III secolo d. C. gruppi di Alamanni raggiunsero Milano. Se pur respinti, nell’Italia settentrionale
venne a crearsi una situazione di pericolo che costrinse alla difesa. A Milano
si insediò la corte imperiale ed alla regione fu restituita una funzione di
controllo militare.
Venne pure rimarcata la centralità di Milano quale nodo
principale non soltanto della rete viaria, ampiamente restaurata in questo
periodo come attestano numerosi miliari. Mentre la trasformazione della città in capitale comportò la sua
ristrutturazione urbana ed al tempo stesso un consolidamento delle difese in
tutta la regione. In simili condizioni i villaggi sparsi per il territorio
vennero acquistando importanza secondo la loro posizione strategica. L’assetto
urbanistico di Concorezzo ne risentì in
qualche misura?
L’antica Cisalpina era considerata, ormai, mediatrice
commerciale di prodotti locali, come lana e suini, e, soprattutto, di generi d’importazione
dall’Adriatico verso le Gallie e viceversa.
Intanto l’incremento demografico delle popolazioni
d’Oltralpe non conosce confini nè eserciti. Ed é quando le popolazioni
germaniche accrescono la pressione ai confini dell’Impero che la decadenza di
Roma si rivela nella sua realtà.
Nel 410 l’imperatore
Onorio, figlio di Teodosio, sotto la
spinta dei Visigoti di Alarico trasferì
la capitale da Milano a Ravenna essendo
divenuta insostenibile la difesa della città e della regione. Questa
crisi portò alla decadenza estrema il prestigio di Roma. Insieme al resto decadde la rete viaria che
collegava gli antichi insediamenti; gradualmente scomparvero le vie consolari
per la totale mancanza di manutenzione. Rimasero le pietre miliari, o pilastrelli, divelte o disperse. Gli abitanti delle campagne che le
trovarono in seguito, ignorando che cosa
esse fossero veramente e da dove venissero,
le scambiarono, per le iscrizioni
che portavano incise non più leggibili, per oggetti misteriosi o sacri. E, in più di un caso,
attorno ad essi buona parte di quei rurali, convertiti al Cristianesimo,
eressero oratori o chiesette.
Le scorrerie di Goti e Unni non risparmiarono alcuna parte
della pianura padana sconvolgendo
l’assetto rurale romano, dalla rete viaria alla divisione agraria ed alla
regolamentazione delle acque. Non
migliore fortuna toccò alle proprietà
dei Romani e degli Italici.
Ancora nei primi anni dell’occupazione longobarda Paolo Diacono
accenna, parlando dei dieci anni di anarchia seguita alla morte del re
Clefi: 6 ” …In questo periodo molti nobili
Romani furono fatti uccidere per soddisfare l’avidità dei vari capi longobardi;
gli altri Romani furono divisi fra i conquistatori e assoggettati al pagamento
di un tributo, in ragione di un terzo delle loro rendite…”.
Poi i Longobardi
fecero proprio l’ordinamento fondiario
dell’età romana, come Roma aveva
fatto, sconfitti, da Lucio Valerio Flacco, Boi ed Insubri nel 194 a.C. “Roma, scrisse il Bognetti, annette al
demanio pubblico una porzione delle terre dei vinti: generalmente il terzo,
qualche volta la metà o i due terzi” ;
confiscò terre anche per
collocare colonie di veterani italici. L’afflusso di coloni, distribuiti nei
territori attorno a Milano fino a Como, fu di una certa consistenza numerica.
La fusione fra la popolazione che qui già viveva e i nuovi arrivati si è
rilevata dal tipo di sepolture scoperte nel comasco. Colonus equivaleva a contadino, che riceveva
un appezzamento di terreno quale ricompensa per il servizio prestato allo stato romano, venendo
inserito così in un contesto rurale.
Ma noi vediamo
scritto il nome Concorezzo quando il regno longobardo volge quasi al tramonto
e tutto è rientrato nella normalità. Ed anche conoscere ciò che
accadde pure nel nostro territorio dal 295, anno in cui l’imperatore Massimiano
Erculeo stabilì in Milano la sede dell’Impero, a questo momento, sarà meno
impossibile che per il millennio precedente, ma richiederà pur sempre un’altra precisa e determinata
ricerca. Ed anche molto importante,
perchè da qui incomincia la storia scritta di Concorezzo. Un periodo che merita di essere studiato é quello che va
dagli inizi del 600 alla fine del regno dei Longobardi. E’ in questo secolo e
mezzo che si possono ancora trovare informazioni utili per la nostra storia:
più probabilmente in Vaticano o in Germania. Quando Monza é frequentata da quei
re e dalla loro corte, non solo per la caccia, il territorio di Concorezzo é
più esteso di quanto non lo sarà dopo il 1300.
Allo stesso periodo appartengono la chiesa dedicata a S. Andrea 6* e quella dedicata a S. Floriano, in seguito, per soppressione di una vocale,
S. Florano e, quindi, forse per adeguarlo al parlato, S. Fiorano, ad XII
lapidem (al dodicesimo miliario, miliarum, ossia una pietra miliare
romana) a 12 miglia romane sulla strada
consolare Milano-Monza-Olginate ed un’altra chiesa con la medesima dedicazione
a Concorezzo di Lacchiarella.
Quando, invece, negli anni Settanta fui a Concorezzo di
Lacchiarella, trovai un bel cascinale; mentre avanti il Mille locus de
Concorezo faceva parte della
pieve di Decimo (ad X lapidem, al decimo miliario), località inter
Mediolanenses et Papienses oggi scomparsa, sostituita nel 1500 da Lacchiarella. Nel 1010: Concoretio qui est
non longe de vico Corliasco, in Atti privati milanesi e comaschi del sec. XI di
C. Manaresi e C. Santoro vol.I, p. 103, n. 43. riga 25.
S. Floriano fu un santo venerato dai Longobardi del
quale è rimasta traccia in alcune parti del Veneto, oltre che essere
oggi il patrono dei vigili del fuoco tedeschi.
La dedicazione a quel santo delle chiese situate nelle due
località omonime può indicare l’interessamento di uno, o più rami, di una importante famiglia longobarda a questi
territori. Una famiglia, forse vicina
alla corte reale visto il privilegio di re Liutprando. 6**
Oltre la chiesa di S. Floriano in quel Concorezzo vi era anche, come nel
nostro, una chiesa dedicata a S. Andrea.
Esse sostituirono su importanti incroci viari di epoca romana, fra un cardo e un
decumano per la centuriazione dei terreni iniziata nel I secolo a.C. (le
centurie, quadrati di cento iugeri, avevano il lato di 500 passi, pari a 740
metri), i tempietti o delubra
in genere dedicati a Mercurio, protettore dei viandanti con scritte
propiziatorie come Iter para totum, proteggi il
cammino. E nel IV-V secolo essi vennero assorbiti dalla religione cristiana
e trasformati in cappelle o oratori dedicati a santi, sempre con scopo
propiziatorio.
Tra il Cinque e il Seicento
Concorezzo di Lacchiarella è chiamato Concoredo.
Ma il nome Concorezzo era presente anche in località
dell’Alto Milanese come l’attuale Casorezzo, Cogoretzo, Cogotzago, Cogorezo, Consorezio, (il k in g
nella toponomastica lombarda), e Congretegio,
che Von Paul Darmstadter riteneva identico al nostro Concorezzo. Anche Coarezza
di Somma Lombardo di oggi era nel IX
secolo Cogoretzo. Ed altre località
dello stesso nome, che in seguito lo hanno cambiato o sono scomparse.
Tra i possessi foresi
della Fabbrica del Duomo di Milano compaiono tre Concorezzo: 1° nel vicariato
di Binasco (Lacchiarella 1518-1536); 2° Olzate (Olgiate Olona 1390-1400) e 3°
Vimercate (1415-1519).
Ho esaminato dei diplomi,
dei placiti, qualcuno in copia
posteriore; ma soprattutto degli atti notarili e delle donazioni, anteriori al
Mille. Tra le pergamene della Collegiata
di S. Stefano in Vimercate dall’XI al XV secolo per noi di grande interesse
storico ed ecclesiastico; tra quelle del Monastero di S. Ambrogio, e di Chiaravalle
per Concorezzo di Lacchiarella, tutte in
Archivio di Stato di Milano Fondo Religione,
riguardanti i periodi franco, sassone e francone. Come pure nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani; nei
Familiarum Commenta, lettera C parte II, di Raffaele Fagnani in Biblioteca
Ambrosiana; nel Codice santambrosiano; nell’Indice corografico di Monumenta Historiae Patriae, topografia storica; nel Codex Diplomaticus Langobardiae ed in Lettura di località in
documenti anteriori al Mille a
cura del conte Luigi Fumi, che fu all’ Archivio di Stato di Milano.
La grafia di Concorezo, riscontrata in essi, fra quella
interpunzione a lungo scarsa e confusa, non subisce alcuna variazione di
rilievo. Ecco la grafia del nostro
toponimo ricavata dalle carte da me viste per i secoli VIII-XVIII:
727, Concoretio, in un minuscolo frammento di pergamena del XII
secolo, qui rosicchiata là illeggibile,
alla quale nella mia trascrizione
apparsa in Il Cittadino di Monza, ho posto tra parentesi una
probabile ricostruzione. Vi si faceva riferimento ad un privilegio del re longobardo
Liutprando di cui l’Archivio della chiesa milanese di
S. Maria presso Porta Orientale conservava
memoria al tempo della stesura del testamento di Ariprando e Gisla. Le
loro proprietà in Concorezzo, il cui territorio comprendeva ancora la località
S. Floriano, furono legate alla chiesa della Passarella in Milano nel 1130. L’atto
relativo è stato da me rinvenuto nella
antica e nota Fiera milanese detta di Senigalia. Esso era in cattive condizioni
e venne da me ripulito, trascritto, edito ed infine donato al Comune di
Concorezzo;
745, Concorezio, nel testamento di Rottepert
di Grate, vir magnificus. Questo
testamento fu copiato il 3 aprile 1209 da Suzo Gambaro, notaio arcivescovile.
L’originale perì e ne rimase questa copia, trascritta da Cesare Giulio della
Croce ed
entrata a far parte del suo Codice
diplomatico milanese, in 31 volumi,
conservato presso la Biblioteca Ambrosiana.
Don Giovanni Maria Dozio, dottore dell’Ambrosiana, lo riportò in Notizie di Vimercate. Il testamento di
Rotperto è riportato pure in: Fonti per
la Storia d’Italia, I, n.82, pp. 239-244, a.745 aprile, 1929-1933 Roma; Codice Diplomatico Longobardo a cura
dello Schiaparelli e in Atti del Comune
di Milano fino all’anno MCCXVI p. 439, n.320, a cura del Manaresi. Il documento fa oggi parte della raccolta
del Museo Diplomatico Longobardo, Atti Pagensi del secolo VIII.
La trasformazione
della ti in z che qui, come più innanzi compare, risale al latino volgare
(III-IV secolo d.C.).
769, Concoretio,
in testamento, del 19 agosto, di Grato, diacono della Chiesa di Monza, che la datazione topica ci dice che si trova
in Pavia (Actum Ticinum feliciter).
Nel 774 Carlo Magno pone fine al regno longobardo iniziato
nel 568.
Nell’804, Cogorezo; nell’807 compare Cocoretztzo e Concoretzo, nel
contado del Seprio, dove Draco o Drago del fu Rodemondo abitante nel vico di
Luernaco (Lovernaco, in provincia di Brescia), ha proprietà che vende l’11
settembre a Veroalcherio, alamanno;
la medesima località tra il 780 e l’810 è scritta anche Cogaretzo, segnalato nel 1916 in Nota corografica su alcuni nomi medioevali
in Lombardia di C. Massimo Rota e da Gianluigi Barni, nel 1938, in Alamanni nel territorio lombardo,
ripreso dal C.D.L., n.84;
nell’850 Concoretio e nell’853
Concorezio, e nella cartula
ordinationis (disposizione testamentaria) i fratelli Deusdedit e Senatore,
“forse officiali in Sant’Ambrogio”, dispongono che l’oratorio di S.Eugenio in vico Concoretzio passi in proprietà
alla Basilica dei SS. Cosma e Damiano in Baragia;
nell’892 Concorecio; nel
941,
in una carta del Monastero di S. Ambrogio si legge:
Vitalis negotians fq Delberti (il
commerciante Vitale fu Delberto) del vico
Concorecio;
nel 1010, in Atti
privati milanesi e comaschi del secolo XI a cura di Cesare Manaresi e Caterina
Santoro, Concorecium e Concoretium.
Cucuretio, é scritto in un diploma di re Enrico III del 22. 2. 1045 da Augusta. Fonte: G.P.
Puricelli, (secondo il quale Ariberto da Intimiano sarebbe morto nel 1046, non
nel 1045 anno in cui avrebbe visitato Monza) De SS. martyribus Arialdo Alciato et Herlembaldo Cotta mediolanensibus,
Milano 1657, libro IV, cap.93, num. 12, con il quale egli conferma ai monaci di
S. Dionisio fuori delle mura il possesso di beni lasciati loro dall’arcivescovo
Ariberto loro protettore e fondatore (a.1023 o 1024) di quel monastero.
Il vuoto che rimane
sul momento storico che precede la nascita, e pure la segue, del nostro borgo
si può ancora riempire: qualche documento esiste, va solo ricercato con
pazienza e...fortuna.
Nel 1098 Concorezo,
in carte del monastero di S. Ambrogio, e
Concorecio.
A partire dall’XI secolo il nome del borgo muta la t in z,
salvo qualche eccezione.
1100 prima
metà Concorezo: compare fra 15 località della pieve di
Vimercate, per decime della stessa pieve,
scritti sul retro della prima pagina di un salterio del IX secolo, forse allora a Vimercate, ora alla Bayer.
Staatsbibliothek, già Biblioteca reale,
a Monaco di Baviera.
11. 4. 1100 (regno
italico), in carte del monastero di S. Ambrogio: Otta vedova di Giovanni, de
loco Concorezo, qui lascia casa e
terre alla chiesa e cella di S. Damiano esistente in Baragia (Gerardo giudice e
messo del re intervenne rogò e scrisse; e Ambrogio notaio e giudice del Sacro
Palazzo scripsi et tradidi complevi et dedi).
8. 12. 1138, Concorezio; nel 1172 si
legge Concolezo; nel 1219,
Concholezo; il 19. 1. 1220, per investitura di terra nel borgo di Concorezo in località S. Floriano, in pergamene
dell’Archivio Plebano di Vimercate conservate nell’ Archivio di Stato di Milano.
Nel 1224, Concorezum;
1227, Congorezo; 1237 Concoretio: frater
Cretius de Concoretio et frater Zanabellus de Concoretio presso l’Ospedale del
Brolio in Milano.
1321, Concoregio,
è scritto in pergamena dell’Archivio Arcivescovile Ravennate riguardante i
familiari del defunto arcivescovo
Rainaldo, che nel 1304 sono detti ancora de
Concorezio.
Il “magister Gabriel de Concorecio, Gramatice et
Retorice professor”, come il professore si firmava, divenne Gabriel de Concoregio nel Quattrocento. Il Crollalanza, nel suo Dizionario
storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, vol. I p. 314, scrive: famiglia “originaria di
Milano e stabilita in Verona, fu ascritta al nobile consiglio nel 1421”.
Altro
Concoregius Johannes, Lucidarium in practica
medicinae Cod. chart. Sec. XV in Biblioteca Ambrosiana. Nel Cinquecento incontriamo
un letterato di Pavia, Mercurio Concoregio, autore de “Intorno al disporre con ordine i concetti”, pubblicato a Milano nel
1563.
A
Lodi visse una famiglia Concoregio.
Ma
per un amanuense non locale anche scambiare Correggio per Concoregio o
viceversa non era cosa proprio insolita. Leggiamo, ad esempio, in Storia di Milano scritta da Giovanni Andrea
Prato, patrizio milanese, in continuazione ed emenda del Corio, dall’anno 1499
sino al 1519, sotto l’anno 1511, il 10 giugno, “messer Carlo de Ambrosia,
gran maestro et regio locotenente” del re di Francia Luigi XII, “a Corezzo morì”. Questo Corezzo, è
Correggio, come si legge chiaramente nella Chronica
di Antonio Grumello, cap. VI: in quel castello morì il d’Amboise. E Corezzo
diviene nella pagina seguente
Concorezzo.
Se
non si verificano almeno dati, nomi e località non è impossibile perpetuare
notizie incorrette. Verificare sempre,
dunque, la certezza dei dati acquisiti.
L’Argelati,
in Bibliotheca Scriptorum Mediolanensium Acta et Elogia, 1745, due
volumi – Syllabus Scriptorum exterorum
sed mediolanensibus adjacendi per nomina
digestus, usa nel tomo I, parte prima, pagine.451-452, De
Concoregio Raynaldus (1321) e nel
tomo II parte seconda, Appendix pagine.1753-1754, De Concoretio Arditio (1324).
1489, Concoretio, in carte dell’Archivio
Plebano di Vimercate.
1689, nel testamento di Pirro de
Capitani e nella loro Genealogia è scritto: Concoretium e Concorezzo, non Concoregio.
Stando
così le cose, operando sullo studio dell’origine dei nomi va tenuto presente che al pari del cognome il nome di luogo può
avere subito variazioni dialettali, forme contratte, diminutivi o errori dovuti ad errata trascrizione.
Il nostro toponimo,
invece, delle interferenze fra orale e scritto, dalla lingua parlata alla
lingua delle cancellerie, salvo qualche
rara storpiatura dei locali, ha
attraversato i secoli quasi inalterato.
Una vitalità che fu legata quasi sempre alla maggiore o minore cultura degli
individui che pronunciavano Concorezzo in un modo, mentre il notaio e
l’amanuense lo interpretavano in un altro. Lo scrivano, o il notaio, redigeva o
trascriveva un testo in latino. E
latinizzava i nomi di luogo con le desinenze richieste dal testo, per
armonizzarli con il contesto.
La lingua scritta, il cosidetto medio latino, vale a dire il
latino scritto dal 400 d.C, al 1300, si staccò dalla lingua parlata dal popolo,
che, dopo la fine dell’Impero romano, divenne una babele di dialetti. Mentre al medio latino seguì il volgare.
Fu allora che per il nome di luogo Concorezzo scomparvero
del tutto quei vocaboli che avrebbero potuto ricordarne il significato, reso
così astratto, opacizzato, fino ad oscurarlo completamente nella sua percezione?
Destino toccato, del resto, ad un gran numero di nomi di luogo, che, in genere,
per chi parla non significano nulla, designando soltanto quella determinata
località. Come ad ogni parola uscita dalla lingua parlata venuta meno la cosa o
la funzione che rappresentava.
Per quel che concerne il nostro toponimo le
dotte, suggestive, folcloristiche
denominazioni del periodo storico sono
dovute a come esso venne gestito dai notabili locali che ritennero nobile
soltanto Concoregio. Le variazioni in seno alla società sono state
sempre lente e graduali. Alla continuità, in un ambiente nel quale quasi ogni
azione era regolata da tabù e da riti, provvedevano le usanze e le abitudini
fissate dalla tradizione. Non è che questa sia stata una peculiarità di Concorezzo:
la si riscontra in ogni regione d’Italia. Non meno in Francia ed in altri Paesi. Ciò dimostra o testimonia, semplicemente,
l’interesse degli uomini per il
significato del nome del luogo in cui essi nascono e vivono.
Testimonianze
sepolcrali
Qualche frammento di testimonianza riguardante il territorio
concorezzese anteriore all’età longobarda potrebbe
esistere ancora. Anche se dei ritrovamenti casuali posteriori sono note
solamente descrizioni sommarie. Non sappiamo, ad esempio, se nel nostro borgo
vi fu chi intravide ciò che esistette nel passato sotto le costruzioni attuali.
Impossibile sarebbe, oramai, per la realtà urbana odierna, una indagine
archeologica in estensione di ciò che è posto sotto l’abitato. In particolare un intervento di archeologia
preistorica, per lo studio delle tombe, del paesaggio e soprattutto degli strumenti di lavoro delle età passate,
nella loro evoluzione e nelle loro
ripercussioni sul modo di vivere di quegli uomini.
Come sperarlo, se persino la cassa di sarcofago in sarizzo, priva di coperchio,
che compare nella Storia di Concorezzo,
da me fotografata nel 1975 in via Libertà 83 dove era stata utilizzata
quale vasca per l’acqua, è scomparsa nel nulla.
Altri avanzi di sarcofagi in pietra rinvenuti durante i lavori di restauro
dell’Oratorio di S. Antonio vennero fissate alle sue pareti esterne.
Nella zona, malgrado la persistenza degli usi e delle
tradizioni funebri, se si esclude Monza, pare non sia stato trovato nulla che
vada al di là della semplicità che caratterizza i reperti conosciuti. Le
testimonianze dirette che si dice siano state ritrovate nel nostro borgo sono,
dunque, mute. Il fascino che l’oggetto
può avere esercitato, lo ha esercitato a scapito dell’ambiente in
cui si trovava, e ci ha privati di un’informazione più preziosa di quella
fornita dall’ oggetto stesso.
Già Cesare Cantù, parente dei nostri Villa Pernice, scriveva: “…urne si scavano spesso…”. Ed, a sua volta, circa mezzo secolo più
tardi, nel 1890, il monzese don Cesare Aguilhon: “…Varii ipogei, loculi isolati
o poliandri dell’età romana, furono discoverti in questi anni passati; ma
andati a ruba prima che la erudizione potesse occuparsene non se ne conosce
l’importanza. Uno di questi in uno strato argilloso presso Concorezzo…diede molte
monete dell’età imperiale, di cui lo scrivente vide pieno un vassoio presso un
orefice monzese, le più di bronzo, e vi osservò assai numerose e meglio
conservate quelle di Costantino Magno. Mi si assicura altresì che olle ed altri
vasi fittili della stessa provenienza veggonsi in case private del paese. In un
lembo dello stesso terreno il proprietario ing. Carlo Quirici ( ultimi
proprietari del campo bianco, della
fornace di mattoni sulla strada per Monza, mia nota) il 7 luglio del 1872 potè
assistere al discoprimento di un loculo ancora intatto, e ritirarne gli oggetti, che danno una
vantaggiosa idea di quella necropoli…Essi sono: una moneta di Antonino Pio in
bronzo modulo grande, una ampollina per aromi di vetro azzurrognolo
opalizzato…e due vasi di terra cotta. Ma l’oggetto di maggior momento è una
grande patera, in sottile lamina di bronzo, e perfettamente conservata, che era
ricolma di ossa combuste e rivestite di argilla. Il vaso per sagomature e giro
di fogliette non manca di pregi artistitici,,,”.
Altre tombe vennero scoperte nel 1926. Una descrizione
dettagliata di questi ritrovamenti tra
le vie Sauro - Volta, è del 1927. Da me ripresa parzialmente nella Storia del
1978. 7
Don Antonio Girotti, parroco
pro tempore del borgo, dal 1926, affermatosi il fascismo, iniziò, come
egli scrisse, a temere quasi più per i beni del beneficio parrocchiale che per
la sua persona. Egli decise, allora, di utilizzare, in sostituzione del
Chronicon, Quaderni riservati per le annotazioni di attualità politica,
sociale e varie. Dal Quaderno n. 4 maggio
1926-nov. 1928, alla data 20
settembre 1926 , egli annotò: “Scoperta di tombe con vasi etruschi in terreno
di proprietà Villa. Oggi i muratori scavando nel terreno in via Agrate di
recente acquistato dalla ditta Fratelli Villa dal proprietario Massironi
Battista con permuta di altro terreno vicino hanno trovato alla profondità di
cm. 50 una tomba contenente carbone con terriccio nero ed un’anfora contenente
una moneta d’argento di Cesare Augusto, una piccola lampada ad olio ed uno
specchietto d’argento con vari cocci di terracotta. Poco tempo dopo i figli del
signor Antonio Villa vollero tentare altri scavi e trovarono nelle vicinanze
della prima un’altra tomba con una bell’anfora, cocci, carbone, terriccio e una
grossa tegola. La moneta d’argento con una piccola anfora fu portata dal sac.
don Cesare Villa, figlio del signor Antonio nel Collegio Pio XI di Desio dove è
direttore. Una lampadina con un’anfora e vari cocci furono donati dal figlio
Vittorio Villa al signor (Cavallazzi), professore d’antichità
presso (manca il nome della scuola) di Milano, ed una grossa anfora…con
cocci…(la scrittura non é chiaramente
leggibile) si conserva presso la famiglia Villa. Il suddetto prof. ha
dichiarato che tali tombe sono etrusche e dietro a queste scoperte potrà
dimostrare la sua idea che tali popoli bruciavano isolatamente i corpi dei
defunti, seppellendoli in mezzo al carbone che poi veniva acceso”.
Anche sui tipi di tombe rinvenute le fonti locali hanno
lasciato cenni che sono insufficienti a fornire un quadro preciso sui periodi ai quali gli oggetti sono appartenuti. Quindi, è questo un altro angolo di storia
concorezzese da indagare, con non minore senso critico riservato ad ogni altro
angolo di storia, in maniera da
stabilire se le ricostruzioni arrivate a noi siano solo incomplete oppure riportate senza la verifica necessaria.
Questo per non creare, aperto l’album delle leggende, altre eredità da collocare accanto a cum
curte regia. Difatti furono proprio
tali scoperte, una macina per cereali,
un’ara, piccole pietre e resti di
sarcofagi a dare peso alla tradizione di Concorezzo romano. Una tradizione che gli esperti non hanno
potuto né valutare nè confutare in
mancanza di tutto il materiale ritrovato. Che comprendeva quello da lavori
agricoli o a seguito dello sradicamento di alberi dal Settecento a fine Ottocento. Causa principale ne è stato l’esclusivismo dell’uomo, che fa la storia e che pure la
manipola, su tutto quello che, nella
precarietà della vita, considera di sua eterna proprietà. Con il risultato che molte testimonianze del
passato sono scomparse. Da coloro che le
hanno rinvenute a coloro che le hanno ereditate sono trascorsi, infatti, molti
anni. E molte cose sono cambiate per quelle famiglie. Le patere, le lucernette, le coppe ed altro,
se non sono passate di mano, sono andate distrutte. Ogni testimonuianza é andata così dispersa o…
dimenticata. E’ accaduto per Concorezzo,
come per Vimercate, località delle quali
è stato detto e scritto che alcuni reperti antichi erano custoditi a Milano nel
Museo archeologico del Castello Sforzesco, dove, però, non sono stati trovati.
In simili condizioni è impossibile connettere tra loro i
vari ritrovamenti isolati e stabilire se
fra i reperti non vi fossero, fra altro materiale, tracce preromane.
Allo stato attuale delle cose potrebbe essere, quindi,
necessaria qualche revisione, anche radicale, e non semplici aggiustamenti
nello studio della nostra storia. Se si
considera che, per il periodo celtico, le vestigia più numerose, nelle zone in cui sono state ritrovate, sono
le necropoli. Che hanno fornito
informazioni importanti sui riti funerari, sulla struttura sociale e la
continuità o discontinuità dei gruppi umani da cui vennero utilizzate. La topografia delle necropoli è
stata in grado di fornire, ad esempio,
un valido contributo una volta individuati il meccanismo della sua estensione,
la progressione lineare in una o più direzioni a partire da uno o più nuclei
iniziali.
Naturalmente non é solo nel sottosuolo che lo studioso
riesce a scoprire sedimenti e tracce di
età da lungo tempo scomparse
Mancando, però, tutto ciò per Concorezzo, non è possibile
rilevare il grado di assorbimento della civiltà latina nella popolazione
celto-ligure. Nè della successiva colonizzazione e fusione tra coloni e locali nel I secolo a. C. , qualora vi sia
stata. Mentre ciò è avvenuto con le sepolture della necropoli di Mandana presso
Capiago-Intimiano. Che hanno rivelato la presenza di coloni italici accanto a
quelle dei locali. L’aggettivo italico, come
il nome Italia, sarebbero derivati da un piccolo nucleo vivente in Calabria che
portava il nome grecizzato di Italoi.
In ogni caso, Concorezzo non si può dire che abbia avuto
principio con Roma.
Conclusa la guerra con i Galli, Roma stipulò trattati con i
quali veniva rispettata l’integrità territoriale e etnica della loro autonomia
politica. E aprì la strada ai
commercianti e agli imprenditori che avviarono la romanizzazione nei costumi,
usi, modelli culturali delle nuove terre conquistate con le armi. L’adozione
della lingua latina seguì. Ma la fondazione di un centro coloniale comportava
una serie di operazioni. Con la centuriazione, o suddivisione in centurie
dell’agro pubblico, i coloni (colonus, contadino, colono), veterani
italici delle guerre condotte da Roma
ricompensati per il servizio reso allo stato romano con l’attribuzione
di un podere, si trovavarono inseriti in un contesto rurale, che comprendeva
definizione e spartizione del terreno circostante l’abitato.
L’uomo se non vuole cessare di esistere non ha che adattarsi, volente o nolente, allo stato in
cui viene a trovarsi in un certo momento della sua esistenza. Esplicito il
verso virgiliano: perdonare a chi si
sottomette e piegare con le armi chi si ribella (Parcere subjectis et debellare superbos…) nel libro sesto
dell’Eneide, il più noto del poema.
Per questa strada sono passate le popolazioni insubriche
prima di Roma, con Roma, come in seguito le popolazioni romanizzate con i Longobardi.
In una parola, è la storia dell’uomo,
Contrasta, ad ogni modo, con la ricchezza dei dati sugli
abitati a partire dall’età del Bronzo la
frammentarietà, la lacunosità di testimonianze sepolcrali per buona parte
dell’Italia settentrionale in cui l’introduzione dell’incinerazione viene
fissata alla media di questa Età. Eppure nella preistoria i riti funebri hanno
rivestito sempre grande importanza, sia nei primi tempi dell’esperienza umana,
sia in seguito. Le tracce più antiche di sepolture risalgono al paleolitico
superiore. In questa epoca si inizia a
seppellire i morti con i loro ornamenti e le insegne di comando. La vita
materiale continua anche nella tomba. L’uomo, infatti, non è arrivato ancora a
pensare ad una vita dello spirito al di là del sepolcro.
I riti di inumazione e di incinerazione, invece, non sempre indicano diversità di origine.
Essi possono essere acquisiti anche mediante pacifici rapporti tra popoli. Il
rito dell’incinerazione diviene dominante in Val Padana con la raccolta dei resti
ossei combusti in urne cinerarie, depositati poi in nuda terra o con protezione
di pietre e lastre a pozzetto, a cassetta e attorniate dal corredo funebre.
Fino al II secolo a.C. il rito funerario
delle popolazioni celtiche fu quello dell’incinerazione in posizione distesa in
fosse scavate nel terreno. E’ nel I
secolo a. C. che le tombe ci offrono la documentazione del grado di
romanizzazione raggiunto nel Nord Italia.
Come per tutti i popoli barbari dell’Europa anche per i
Celti le sbiadite tracce dei ritrovamenti tombali della preistoria assumono una
forma più viva quando quei popoli si
inseriscono nelle culture scritte mediterranee. La preistoria lombarda
termina con la conquista romana ed il processo di romanizzazione culturale e
linguistico. Con Cesare ed Augusto l’Italia settentrionale entra a far
parte della storia dell’Impero di
Roma. Se La geografia del popolamento
gallico si distinse per piccoli nuclei sparsi; le loro necropoli si presentano
di piccole o medie dimensioni, stando a
quelle sinora scoperte in altre parti dell’antica Insubria. Piccoli nuclei di
tombe caratterizzati da frequenza e breve distanza: testimonianza di un modo di
vivere, di pensare e di operare. Mentre le fasi cronologiche che si
riscontrano in esse non superano generalmente la durata massima di un secolo e
mezzo.
In tutto l’Impero romano l’uso di disporre sepolture lungo
le strade all’ingresso delle città era diffuso.
Gli scavi effettuati casualmente nel Sette-Ottocento in
Concorezzo avrebbero fornito, come ho accennato, indicazioni di qualche utilità
per lo studioso se quei reperti non
fossero stati dispersi o ricoperti di terra. Né l’ininterrotta continuità di
vita attraverso i secoli avrebbe impedito
di rinvenire tracce degli antichi
abitati. Dalle dimensioni, dalla durata
delle necropoli e dalla loro reciproca distanza sarebbe stato possibile, se
fosse stato documentato, dedurre il modello di distribuzione del popolamento
delle genti galliche. Dove lo si è potuto fare,
ne é risultato, come si è detto, un quadro di modesti abitati rurali, a
poca distanza l’uno dall’altro, disposti in una rete più o meno fitta, a
seconda delle zone.
Ma anche gli
strumenti di lavoro, gli oggetti d’uso e di scambio riportati alla luce
dall’archeologo indicano le tappe che la società ha percorso nella sua
evoluzione. Uniti alle reminiscenze ed alle vestigia che si incontrano nelle
tradizioni popolari e nel linguaggio, essi hanno la loro significativa
importanza. In leggende arrivate sin quasi a noi nel folclore si può riconoscere
l’influenza di antichi costumi e di pratiche sociali non recenti. Conclusa un’epoca, il suo ricordo è passato
quasi fossilizzato e stratificato alle età successive, sotto forma di
tradizioni e di abitudini, se pure spesso incomprensibili.
Dal canto suo il linguaggio è una specie di terreno
sedimentario nel quale sono depositati esperienze, idee che si riferiscono a
momenti diversi dell’esistenza dell’uomo.
Per Concorezzo non si
deve rinunciare a ricercare pure in questa direzione.
Per i riti funerari, ancora nei primi due secoli della
nostra èra, non vi sono segni che
differenzino quelli dei primitivi cristiani da quelli dei loro contemporanei.
Un rito funerario specifico reso ai cristiani defunti e i luoghi riservati al corpus christianorum
nelle campagne furono rari, forse anche dopo la tolleranza dimostrata nei loro
confronti dagli imperatori romani del III e IV secolo. L’usanza romana delle necropoli pagane venne
continuata, difatti, con i cimiteri cristiani. La sepoltura dei cadaveri non si
faceva necessariamente accanto alla chiesa e il cimitero cristiano sorgeva
talvolta non lontano da una necropoli pagana con le sue tombe ad incinerazione.
Oramai l’uso di seppellire i morti non rispondeva più ai
dati forniti dall’archeologia preistorica.
Dalle ricerche etnologiche si può
rilevare, infatti, che la preoccupazione di assicurare al defunto la continuità
di una esistenza materiale aveva ceduto il posto a quella di una vita
ultraterrena.
Non mi è noto se la necropoli presso S. Eugenio indicata
nello schema di Concorezzo medioevale,
curato da mons. Villa, allegato alle note di mons. Cattaneo in Ricerche
storiche sulla Chiesa ambrosiana
del 1970, segnalato in nota 6*, possa essere stata precedente o posteriore
al IV secolo d.C. 7 *
Ma, come per ogni
altra notizia relativa alla nostra Storia, inviterei a rileggere, in questo
caso la pagina 31 di Sant’Eugenio vescovo
e il rito ambrosiano del Cattaneo, estrapolando da nota 6 tesi di laurea di B. Nicoli , per setacciare tutto ciò che in essa si riferisce a
Concorezzo in periodo romano. Bisogna
far parlare le fonti dopo averle attentamente
vagliate nella loro autenticità e nella prospettiva in cui sono sorte come
testimonianze di un fatto reale.
Per quanto riguarda
la collocazione dei sepolcreti, ai tre indicati da mons. Villa manca
quello segnalato da don Anguilhon del 1872
che doveva trovarsi quasi all’inizio della strada per Monza, nell’area
della fornace di mattoni, e cioè nel
terreno detto al campo bianco. Questo
altro sepolcreto non costituisce, comunque,
in sé un fatto eccezionale. Nè
serve per stabilire quale sia stata
veramente l’area sepolcrale del vicus
nel periodo gallico nè in quello
romano. La posizione in cui si trovarono
i sepolcreti potrebbe servire almeno
agli esperti per meglio delineare
il perimetro che racchiudeva
Concorezzo prima e dopo la conquista romana dell’Insubria?
Il terreno era senz’altro leggermente ondulato qui e là; e
qualche piccola conca, con o senza acqua,
si trovava sparsa sul nostro territorio. Alimentata da uno o più rami di
un corso d’acqua derivato da torrenti,
fra i quali poi si sarebbero conosciuti il Molgora e il Curone. Prodotti dalle
fiumane postglaciali, o loro residui, che al loro passaggio lasciarono
segni che per modificarli, adattandoli alle necessità dagli uomini che vi
vissero, richiesero la fatica di numerosissime generazioni di concorezzesi.
Inoltre, osservando le aree in cui sono venute alla luce le
tombe sarebbe possibile tracciare almeno
un quadro approssimativo di quale possa essere stato realmente il
paesaggio all’interno ed all’esterno di quel villaggio? Domande alle quali
dovrà cercare di rispondere chi proseguirà la ricerca su Concorezzo.
Etimologia e
toponimia
Studiando, invece, la storia di una parola per risalire al
suo ètimo, e cioè alla forma più antica e al significato più remoto, in una
parola alle sue origini, ci si imbatte spesso in un tipico fenomeno
linguistico, di carattere popolare, che non facilita il compito. Non va fuori campo Falc’hun quando scrive: “La toponomimia
è una miniera inesauribile di problemi
fonetici”.8 Coniugata con la storia essa indica o precisa
gli antichi movimenti dei popoli, le migrazioni, le aree di colonizzazione, le
regioni dove un tale o tal altro gruppo linguistico ha lasciato le sue tracce.
Anche per questo in una stessa lingua interpretazioni
diverse di uno stesso toponimo rimangono
possibili. Specie quelli che hanno costituito dei veri rompicapo, aperti
ad ogni derivazione. La loro collocazione conduce alla relatività di
denominazione, ad una di quelle corrispondenze intorno alle quali si continua a
ruotare.
E dal momento che la conoscenza delle lingue celtiche si
fonda principalmente sulle lingue celtiche insulari ancora parlate da circa due
milioni di persone, rivolsi le mie ricerche in tale direzione.
Contattai etimologi, linguisti, studiosi gallesi, irlandesi e inglesi.
Incominciai dal Department of Irish and Celtic Languages del
Trinity College Dublin.
Ma, venuto a mancare
nel 1988, a 65 anni, Heinrich Wagner,
germanista, nato a Zurigo, che aveva studiato il Celtico con Pokorny e che lo
insegnò nella School of Celtic Studies di Dublino pubblicando fra gli altri lavori Studies in the origins of the Celts and of
early civilisation ( Belfast 1971), il canale irlandese si esaurì. Passai allora
in Inghilterra. Qui Ellis Evans,
Jesus College Oxford Professor of Celtic, avanzò l’ipotesi che vi fosse una
possibilità, se pur remota, che Concorezzo potesse rientrare in una forma del
neo-Celtico, simile al Gallese cyngor, corrispondente a consiglio, consultazione ed all’Irlandese cogar, Old Irish cocur
consultazione, complotto, cospirazione, determinazione; con-cuirethar
prepararsi in previsione di. “ Che deriva, probabilmente da un Common
Celtic kom-kor-, al quale sia stato aggiunto il suffisso et (i)o abbastanza frequente
nell’onomastica dell’Old Celtic.” 9 In un primo tempo non mi sembrò una
ipotesi da trascurare, ripensando
all’opposizione ripetuta degli uomini di Concorezzo all’infeudamento del loro
borgo tra il XIII e il XVII secolo. Si
trattava di arrivare a stabilire quale fosse stata la posizione e la funzione
svolta veramente da Concorezzo nell’età preromana. Seguendo la linea del
Bognetti constatai che gli atti
dell’alto Medioevo, da me esaminati, non mi fornivano aperture a tale
conoscenza. Mancavano le condizioni per parlare dell’esistenza in Concorezzo di
un organismo demico, di una funzione di pago,
o di… una funzione federativa di
gruppi demici ancora più difficile da
attribuire all’antico territorio. Anche se, forse, non sarebbe neppure facile
escluderlo se si considerasse, partendo dalla fine dell’Età del Bronzo,
l’avvicendarsi, non sempre pacifico, di popolazioni celtiche nel Nord
Italia.
Per non rischiare, però, di
creare un’ altra bella parola da affiancare a cum curte regia lasciai
cadere pure questa ipotesi.
E rivolsi le mie ricerche verso il Galles. Il primo
impatto non diede risultati di qualche
interesse per la mia ricerca.
Qualcuno accennò a Cymmer,
una confluenza, un incontro di corsi d’acqua.
Un altro a Cymru, il nome
Gallese per il Galles, da Cymry “il
popolo gallese” e
cioè “coloro che agiscono insieme”.
In Grammatica dell’antico irlandese di Rudolf Thurneysen, Dublino 1980, avevo
trovato pure vocaboli del Celtico antico che conducevano a nomi di popoli, come
Cunobelinus, Coneal cui si riconosceva il significato di “combattimento di cani
o di lupi.” Dai più antichi nomi celtici
sembra trattarsi di guerrieri o nomi dati ai medesimi.
Chiesi allora ad uno studioso se il nome Concorezzo potesse
derivare da un nome personale piuttosto che da una caratteristica naturale del
terreno. E Con-Cor si perdette in una disquisizione accademica.
Altrettanto l’ipotesi di Concoret località che un clan cenomano concordava con
uno insubre di tenere in territorio non
appartenente alla propria tribù.
Erano vie, non da me percorribili, dalle quali presto mi
discostai.
Poi la corrispondenza con il Gallese Joseph Biddulph,
direttore del Centro linguistico per gli Studi di lingua Gallese e Celtica.
Essa durò più a lungo che non con altri,
anche perché egli da buon toponomasta si
dimostrò il più interessato alla materia, senza le remore di molti suoi
colleghi. Egli nutriva, però, dei dubbi che si potesse trovare materiale per adeguati dettagli per ogni
caso. E scriveva: “Sembra che lo studio di elementi celtici nei nomi di luogo
sia stato assai trascurato, come pure gli studi del Celtico, e circolano molte idee sbagliate che andrebbero
attentamente esaminate”. E’ stato negli
anni Ottanta che Biddulph, per il quale i nomi di luogo rivestivano un interesse particolare, mi
fornì pure dettagli sulle differenze fra
vocaboli nei dialetti Gaelico irlandese, Gallese, Inglese e della
Cornovaglia, che potevano avere
una qualche attinenza con la mia ricerca. Devo aggiungere che egli non era
sempre d’accordo con le autorità ufficiali sulla derivazione di non pochi
toponimi. Difatti più di uno studioso in
lingue celtiche e galliche aveva espresso la propria riluttanza a suggerire un
significato al nome Concorezzo, il più
delle volte glissando. Non un’ipotesi e tanto meno una congettura, che potesse
rappresentare uno strumento per pervenire ad una conoscenza.
Escludevano il Celtico, il neo Celtico, il Gallese,
l’Irlandese; il Gallico e, pure… l’Old Gallico. Vale a dire la lingua
celtica sia della Gallia che del Nord Italia, che a differenza del Gaelico ha caratteristiche sia dell’antico Irlandese
che dell’antico Gallese e molte proprie.
“Insomma, si tratta di un nome estraneo
ai paesi in cui viene oggi usato il Celtico. La conclusione che se ne può
trarre è che vi furono molti dialetti
diversi nella lingua originale Old Celtic, con una grande variazione nei
vocaboli adoperati per i nomi di luogo. Un dizionario di Old Irish non sarebbe
più valido di una attenta ricerca condotta sul posto. Sarebbe imprudente
estendere inizialmente la ricerca fuori
dalla Gallia Cisalpina. A meno che non si voglia ottenere dei può
darsi, dei forse, non molto
producenti”. Neppure queste osservazioni realistiche
potevano essere, obiettivamente, molto incoraggianti.
Dove e quando nacque Concorezzo
In una parola, per poter indagare sul nostro toponimo sarebbe opportuno partire dal dato naturale
che il nostro occhio più non riesce a scorgere. Non ci rimane che cercare di
immaginare il tempo e lo scenario nel
quale esso sorse, vale a dire la
conformazione in quel momento del territorio al quale fu dato quel nome.
Il tempo. La
sacralità degli alberi, delle pietre. la forza della natura dominano l’uomo
costretto a vivere in una natura per secoli ostile. Nella quale prevalgono foreste, acquitrini e spazi soffocati dalla
vegetazione. In certi punti il bosco rimane intatto a causa di acque stagnanti.
Persino il paesaggio in cui vaste aree sono incolte contribuisce, infatti, a
segnare il comportamento dell’uomo.
Egli é alla mercè di quel mondo naturale e dalle sue stesse
leggi regolato. Ma, in un certo momento della sua esistenza, anche quell’uomo,
per un gioco di forze, fra cui i nuovi strumenti di lavoro, i mezzi di
produzione, i commerci, che determinano
lo sviluppo delle sue capacità, ritiene di poter influenzare in maniera
fantastica la natura che lo condiziona e lo tiene sottomesso. E scopre la
magia, la cui pratica in origine non si distingue dalla religione. Ecco il
druida e la druidessa: persone di insolite
capacità, che si muovono tra il mondo umano e un mondo invisibile svolgendo
nella tribù una funzione che oggi definiamo sciamanica.
Giulio Cesare ricorda i druidi, come
una potente casta sacerdotale intorno alla quale si era organizzata la
resistenza di quelle popolazioni contro gli invasori romani.
Lo scenario. Quasi
impossibile è disegnare la forma e la
struttura del terreno sul quale si è sviluppato al suo nascere Concorezzo.
La geomorfologia tra
gli alvei fluviali di Lambro e Adda, in cui si trovano i territori tra Monza-Concorezzo e
Vimercate, segnala “terrazzi del
quaternario superiore entro strisce di terrazzi del quaternario medio.” La Carta
geolitologica della Brianza tra il Seveso
e il T. Molgora e quella allegata alle ricerche condotte da Arturo Riva Gli anfiteatri morenici a sud del Lario e le pianure diluviali tra
Adda e Olona indicano tra i lembi di diluviale medio fluvio glaciale Riss
quelli emergenti dall’Alluvium recente (alluvioni postglaciali) della valle del
Molgora. Il primo è compreso tra Velasca-Vimercate-Oreno e si esaurisce a sud
del cimitero di Concorezzo, delimitato ad est da una scarpata ed a ovest da un
piano inclinato. I terreni argillosi
garantiscono maggiore protezione alle falde acquifere.
In seguito alla dolina di sprofondamento verificatasi tra
via Manzoni e via S. Marta il 9 dicembre 1950, lo speleologo Salvatore Dell’Oca
dopo avere esaminato il fenomeno scrisse: ”La roccia nella quale si era formata
la dolina è un conglomerato debolmente cementato del quaternario (normale
alluvione del quaternario recente cementata). Terriccio , composto di humus
sabbia ghiaia detriti…”. Si potrebbe
pensare a depressioni di varie dimensioni - anche a forma di imbuto o di catino
come le doline, ingrandite dall’azione meccanica ed erosiva delle acque?-
sparse sul nostro territorio, prodotte al tempo delle grandi alluvioni. In una
delle quali si versava, forse ancora, un corso d’acqua.
Un territorio che é stato coperto dalle acque del mare prima
e sconvolto poi dalle fiumane derivate
dallo scioglimento dei ghiacciai che in qualche punto hanno inciso solchi più o
meno profondi. Il golfo emerso dal mare, progressivamente colmato dai detriti
trascinati dalle acque giù dalle Alpi, rimase dopo che le acque del mare si
erano ritirate e se ne ritrovano a molte decine di metri sotto l’attuale
superficie in occasione di trivellazioni alla ricerca di acqua potabile.
Il Riva nel suo lavoro
scriveva a proposito del ceppo:
“ Va sottolineato la imponenza di questa formazione sia per potenza come per
estensione. In tutti gli spaccati profondi, tra l’Adda e l’Olona, ed ovunque si
buchi per trivellazioni, ci si imbatte in questa formazione al punto di fare
sorgere l’idea che si tratti di una pianura sepolta…”. Negli scavi di una certa profondità fra
ghiaie e sabbia vi erano conglomeratici
del ceppo usato, anche dopo il V secolo
d. C., quale materiale da costruzione.
L’azione erosiva delle acque diluviali, che irrompevano
impetuosamente verso il punto di maggiore depressione incidendo solchi profondi
e distruggendo quanto veniva a frapporsi al loro passaggio, avrebbe modellato il territorio di
Oreno. Da qui sarebbe arrivata parte nella futura piazza
S. Damiano; parte deviando in altra direzione per raggiungere il Lambro? Diramazioni di un corso d’acqua di cui una
confluiva in una valletta, riempiendola, mentre un’ altra proseguiva dopo l’attuale cimitero verso il fiume Lambro (fluvius frigidus), dal corso
piuttosto stagnante, secondo Plinio. Fiume che, per portata e per ampiezza, era
assai maggiore, però, di quello noto dal
XIII secolo già parzialmente interrato rispetto al periodo romano e in seguito
ancora più ridotto, del quale il torrente Molgora, forse nel corso della terza
glaciazione detta Riss, si presume sia
stato tributario, seguendone, probabilmente, la medesima sorte.
Anche dopo le fiumane derivate dallo scioglimento dei
ghiacciai, quello che noi conosciamo come
torrente Molgora provocò straripamenti tali da coinvolgere il nostro
territorio?
“ Sono state larghe fiumane d’acqua, scriveva il prof.
Ardito Desio agli inizi degli anni Cinquanta, che hanno disperso su vasta
superficie le ghiaie che i grandi ghiacciai avevano trasportato verso la regione pedemontana, correnti in massima parte provenienti dalla
regione abduana”.
A grandissime linee il paesaggio, secondo i geologi, non
differirebbe da quello osservato dai più antichi abitanti della nostra regione
circa 200 mila anni fa. L’omogenesi terziaria aveva già modellato le catene
montuose, fissato le vallate ed i tratti più salienti dell’idrografia,
delimitata grosso modo nei confini attuali la conca della Padania. Al tempo
stesso, però, lo provano i dati forniti dalla geologia, dalla paleobotanica e
da altre discipline del campo delle scienze chimico-fisiche, matematiche,
naturalistiche e naturali, le differenze dovevano essere notevoli ed in alcuni
casi addirittura stridenti: nei dettagli la conformazione del suolo, la
composizione della flora e della fauna ed i lineamenti del clima. Un paesaggio,
insomma, ed ancor più un ambiente, diverso. O, meglio, tanti paesaggi e
tanti ambienti, diversi da un’ epoca
all’altra.
Gli ambienti umidi, fra i quali paludi e stagni,
esercitarono una forte attrattiva, in tutte le epoche, sulle popolazioni umane
in una pianura spazzata costantemente dalla instabilità dei fiumi. Con
territori dispersi su ampie superfici, in cui la vegetazione spontanea
ricopriva qualche area, altre con detriti, piccoli avvallamenti, stagni e corsi d’acqua pescosi ed
indispensabili per le necessità di
quell’uomo. Quegli stagni in cui vivevano i pesci erano soggetti, però, a
periodi di disseccamento quando la siccità faceva scarseggiare le acque che li
alimentavano. Mentre i detriti esistenti
richiesero un lavoro di ripulitura dei
terreni che durò molti secoli, come ci ricordano pagine di storia concorezzese
ancora nel XIX secolo. Difatti “ …i
terreni agrari hanno spesso ben poco in comune con i suoli naturali originari,
avendo l’uomo agito da fattore principale della loro evoluzione…”10
Rilevamenti sui depositi venuti alla luce in seguito alle
voragini verificatisi tra il 1874 e il 1950 sulle attuali vie Libertà e
Manzoni, e su quelli delle perforazioni dei pozzi per uso di acqua potabile hanno
evidenziato le caratteristiche morfologiche del sottosuolo di Concorezzo nei
suoi diversi strati. Sabbia, argilla e ghiaia elaborata, trovata alla
profondità di 30 metri, in cui compaiono ciottoli di varie dimensioni sino a parecchi metri sotto il piano stradale,
rivelano i cambiamenti naturali succedutisi, specialmente con lo scioglimento
dei ghiacciai alpini che arrivavano a pochi chilometri dal nostro attuale
territorio nel Quaternario (èra geologica suddivisa in due periodi: il
Pleistocene terminato attorno a 12mila anni fa e l’Olocene che continua
tuttora). Si tratta di un sottosuolo composto da materiali appartenenti a due
momenti del Quaternario e distinti gli uni dagli altri. I substrati geologici
appartengono tutti all’area quaternaria. Nella parte più ampia del territorio
predominano sabbia e ghiaia prodotti del diluviale recente, penultima
glaciazione del Quaternario conclusasi circa 120.000 anni or sono, ed una
striscia, un lembo del diluviale medio ultima glaciazione della stessa èra
iniziata intorno ai 70.000 mila anni fa. Altimetricamente più alta, ancora parzialmente rilevabile ad occhio fino
dopo la metà del Novecento dalla strada Oreno-Concorezzo fino alla strada
Monza-Agrate, comprendente il cimitero e le ex fornaci di laterizi Quirici e Lissoni. A nord-est
come ad ovest di quest’area, in cui prevale l’argilla, nei secoli scorsi
esistevano cave per l’estrazione di sabbia e di ghiaia utilizzate per la
costruzione di case e per la manutenzione delle strade; cave ormai scomparse. A
diverse profondità del sottosuolo si incontrano, pure, falde acquifere, più o
meno ricche, che sono servite e servono agli abitanti di Concorezzo.
Al sopraggiungere dei primi abitatori, il popolamento nel
senso di prima colonizzazione del territorio o di un semplice contatto, è probabile, quindi, che le condizioni del
terreno conservassero tracce degli effetti delle alluvioni postglaciali, a mano
a mano ridotta dalle necessità crescenti delle nuove popolazioni.
All’ ing. Pella prospettai pure, ma invano, l’opportunità
di contattare un geologo esperto della Brianza e del nostro
territorio.
Tra le domande di un certo interesse, che si sarebbe potuto
includere, quelle sul periodo della scomparsa del lago di Bernaga e di qualche
torrente minore.
In carte del Quattrocento si nominano, per esempio, rogge
del Vimercatese sparite nel nulla. Non è
ben chiaro se per operazioni effettuate
dai proprietari terrieri secondo i loro interessi del momento o perché esse
erano solo nelle intenzioni di qualche ingegnere idraulico. Come la rugiam Curoni, che nasceva tra Viganò e
Bernaga (sotto il monastero di Bernaga a Sirtori, passando ad est di
Montevecchia e Cernusco Lombardone) per finire nella Molgoretta che forma il
Molgora. Nel Quattrocento questa roggia
apparteneva ai Corradi, presenti nel Cinquecento anche a Concorezzo, si legge
in una carta, da “almeno 200 anni”.
Inoltre, se il nostro castello
del XII secolo era circondato da un fossato, con quale acqua lo
riempivano quei castellani?
Sappiamo che nei secoli XII
e XIII era detto fossatum un
corso d’acqua, naturale o artificiale.
E che per i castelli dei nostri borghi
si ricorreva anche all’acqua piovana conservata nei fossati, la quale vi
entrava dai canalicoli lungo le strade fatte a schiena. L’acqua veniva fatta
defluire, quando era in eccesso, attraverso altri sbocchi. Trattandosi di
abitati in area non livellata nel terreno, la raccolta delle acque piovane
riusciva più facile disponendo le strade in maniera adatta allo scopo.
In quei fossati le
donne si recavano a lavare i panni sporchi,
come nella roggia Ghiringhella
fino quasi alla metà del Novecento.
Una risistemazione idraulica della nostra pianura aveva
richiesto secoli. In pochi anni, al pari
del Barbarossa, che, vinta Milano nel 1162,
fece distruggere anche il fossato
da Guglielmo da Guintellino, ingegnere militare, iniziato verso il 1156, uomo e
natura uniti cancellarono una parte di quanto era stato fatto, con fatica, pure
per la bonifica idrica.
Come si può rilevare la mia conoscenza di un così lungo periodo di tempo per quanto
riguarda il nostro territorio non può,
purtroppo, che accontentarsi di
riflettere una geografia della casualità. Con un conseguente salto da una casella ad un’altra. Quale
disegno emergerà ed in quale direzione
il quadro potrà evolvere solo chi approfondirà queste mie note arriverà, forse,
a descrivere.
Dai Liguri ai Celti,
ai Romani
Diciamo, dunque, che Concorezzo si estendeva su un territorio dal paesaggio vario per morfologia, nel quale l’acqua non scarseggiava, coperto
da boschi per vaste estensioni, dove il suolo era ricco ed abbondante di
selvaggina, quando una tribù si
insediò disponendo in più nuclei le sue
capanne. Là dove il terreno consentiva
di stare gli uni vicini agli altri per
la sicurezza collettiva e per la sopravvivenza. Gli scrittori latini chiamarono
questi agglomerati abitativi rurali: vici.
Vicus, nel senso tecnico di villaggio, contrapposto alla
villa; non nel senso di caseggiati, che si possono avere anche nel fondo. Nei documenti medioevali si legge spesso vico et fundo Concoretio per indicare il villaggio e il suo
territorio. Villae erano, invece, nell’età romana aziende agricole. La campagna
lombarda, chiamata fino al V secolo della nostra èra con il nome indicativo di
Italia annonaria, aveva accolto molte
genti sparse in numerosi fundi, ma
riunite nei vici.
Rimane sempre da stabilire
quando avvenne il suo
principio: dal tempo in cui erano presenti i Liguri, o… i Galli?
Se l’incertezza attributiva dei vari momenti di invasioni o discese di
popoli nella pianura padana si trascina tra convegni e cataloghi di mostre
dedicati ai Celti; non si può certo sperare, per ora, di dare una risposta al
nostro quesito.
Con il nome di Liguri si indica la popolazione che abitò
l’Europa occidentale prima dei Celti. Le
popolazioni liguri avrebbero introdotto bonifiche e prosciugamenti, opera
perfezionata sotto l’influenza etrusca. Gli Etruschi, dal canto loro,
introdussero sulle nostre terre la coltivazione della vite (600 a.C. circa),
pianta che ha le proprie origini nell’Asia Minore. In Gallia i Liguri avrebbero
ceduto il passo, secondo Auguste Longnon, maestro della geografia storica, alle
popolazioni celtiche giunte cinque o sei secoli a. C. E la loro lingua si sarebbe perduta senza lasciare
tracce evidenti.
I Liguri della Padania si dividevano in vari gruppi, con
aspetto unico ma con gradi diversi di evoluzione, occupando inizialmente le
attuali regioni di Piemonte e Liguria, la Lombardia fino al Garda e parte
dell’Appennino Tosco-emiliano, dove ancora si trovavano in età romana. “Liguri,
popolo mediterraneo insediato su ampio fronte del litorale italico che lasciò
tracce nella linguistica….. nei reperti di cultura materiale, come nel caso
delle steli antropomorfe della Lunigiana conservate nei musei della Spezia e di
Pontremoli, nei castellari,
insediamenti protostorici su posizione collinare.” Tra le lingue preindoeuropee: “ il ligure
era stato assai fortemente intaccato dal celtico, assorbito, tanto che non
riesce facile distinguere, nell’area ligure, tra le voci preindoeuropee e
quelle celtiche o indoeuropee ( le iscrizioni leponzie rappresentano un ligure
gallicizzato) e il latino completa l’opera di dissoluzione… “ 11
Dire quanto vi sia di linguaggi antelatini, ligure e celtico nel nome Concorezzo spetta agli etimologi, avendo avuto quelle
lingue, all’origine la medesima
matrice. Spetta pure loro dire se
furono i suffissi originari etnici ad essere assimilati dalle civiltà
succedutesi. E come addentrarsi tra i sedimenti di una stratificazione
linguistica secolare ed un’altra.
Il Bognetti aveva scritto: “ I cosidetti Liguri del piano,
della prima età del Ferro, lasciarono tracce omogenee un po’ dovunque
nell’intera nostra pianura, dal Lodigiano al Comasco…anche a Monza vennero
rinvenute tombe ed oggetti dell’età del Bronzo…
I Galli si insediarono in territori già in precedenza
abitati e seppellirono spesso in necropoli dove si trovavano tombe della prima Età del Ferro e del
Bronzo…. Tra queste tribù vi furono i Leponzi, i Viberi, i Canini, i Mesiati,
forse tribù liguri gallicizzate. Esse si stanziarono nella valle padana e nella regione alpina…
Difatti la invasione gallica, che precederebbe di due o tre secoli la conquista
romana, non pare, per più indizi, forniti dall’archeologia, aver costituito una
innovazione così radicale della vita locale da giustificare da sola il
predominio dell’elemento celtico che si palesa nei dialetti, nei nomi di
persona e luogo, nei culti… territori di una comunità preromana portano il nome
di tribù, popoli e città, anche distanti, della Gallia o della Liguria…Nel
Milanese un probabile nome di popolazione: Concanauni, richiama gli Ingauni
liguri, e i reti Anauni, Genauni…L’immigrazione gallica del IV secolo era
costituita da numerose tribù…
Per secoli ancora dopo la conquista, fino ad Impero
iniziato, nelle campagne continua una civiltà celtica o celto ligure che
liberamente si svolge, la civiltà così detta gallo-romana…In conseguenza della
conquista romana, che per l’Insubria è definitiva dopo il 194 a.C.,
la condizione di queste comunità, che nell’ordinamento politico dei
Celti dovevano avere carattere di sottostato, subisce successivi mutamenti.
Dopo l’assoggettamento, gli Insubri, come i Cenomani, furono da Roma ammessi
alla condizione di federati…( 89 a.C.:
Lex Pompeia, che accorda agli Insubri il diritto latino; 49 a.C.: Lex Iulia(promossa
da Giulio Cesare), che accorda ai popoli
originari della Cisalpina la cittadinanza romana ).” 12
Secondo il Bognetti i Liguri vissero sulle sponde del Ticino
e di altri corsi d’acqua; e secondo il Romussi,
in Milano nei suoi monumenti, i
Liguri (palafitticoli) hanno lasciato tracce lungo le sponde del Lambro.
Agli inizi degli anni Novanta, il prof. Ermanno Arslan scriveva: “ Le guerre che
seguono quella annibalica ridisegnano politicamente l’Italia settentrionale. In
una prima fase i Galli padani sono tutti alleati con una notevole capacità
offensiva nei confronti dei Romani ancora indeboliti dal lungo confronto con i
Cartaginesi…Ma la superiorità militare romana non tarda a rivelarsi…E il
territorio insubre è ora molto ridotto, esteso a nord forse poco sopra
l’attuale Monza…”.
I Romani, dunque,
attuarono la conquista del territorio gallico a sud del Po, attuale
Emilia-Romagna, nel periodo immediatamente precedente ed in quello successivo
alla seconda guerra punica; e sottomisero definitivamente le tribù degli Insubri e dei Cenomani stanziate a nord del
Po. Roma condusse la campagna contro gli
Insubri, nel 222 a.C., che avevano
reagito alla fondazione delle colonie di Piacenza e Cremona nel 218 a.C.. Ma li
sconfisse con le guerre condotte dal 196 al 191 a.C. I patti che ne seguirono tennero legate a
Roma le popolazioni locali senza togliere ad esse l’autonomia. Gli Insubri si
integrarono, quindi, nel mondo romano conservando ancora per un certo periodo
di tempo aspetti della loro organizzazione e del loro modus vivendi.
Lo strato gallico
La posizione geografica della Lombardia rappresentava il
punto di passaggio dei traffici tra le genti stanziate nell’Europa centroccidentale
e la nostra penisola. Che, per i suoi vasti territori ubertosi in un clima
mite, un fiorente mercato del mercenariato e gli antichi commerci, calamitava
l’eccesso della crescita demografica di ogni tempo e di ogni parte del nostro
continente.
Passata la metà del primo millennio a.C. l’esodo, ripetutosi nel tempo, di numerose
tribù di Galli transalpini occidentali, guidati da chi in Italia era già stato
per commercio o per mercenariato al servizio degli Etruschi contro Roma, non si
arrestò. Queste genti, dopo essersi affidate una parte ai fiumi Marna e
Senna, avevano raggiunto il lago Lemano,
o lago di Ginevra. Ed erano calate, a più riprese, nella pianura padana
attraverso le Alpi, abitate da esseri
umani fin dal Paleolitico dopo lo scioglimento dei ghiacci dell’ultima
glaciazione. Erano scese per i
passi del Moncenisio, della Maddalena e…
del Gran S. Bernardo. Il valico del S. Bernardino, per la Val
Mesolcina, collegava alla valle del Reno, alle regioni del corso medio del Reno
e della Mosella abitate dai Celti.
Una migrazione, che quasi senza soste, si ripeteva da secoli
verso un nuovo spazio vitale.
A mettersi in movimento alla ricerca di una nuova casa non
era mai l’intera tribù, bensì quella parte di essa che non riusciva più a
trovare in patria ciò che gli consentiva di sopravvivere.
Le ultime ondate migratorie
celtiche di rilievo in Val Padana si verificano sul finire del V secolo
a.C. L’Italia settentrionale sarà la
Gallia Citeriore o Cisalpina nominata da Cesare in La guerra gallica. Divisa fra Insubri fino all’Adda; Cenomani (il
cui centro in Francia era l’attuale Le Mans) al di là dell’Adda ed oltre
l’Adige i Veneti. Passato il Ticino si
trovavano i Levi, i Marici, i Libici, i Salassi ed i Taurini. Mentre tra
Casteggio e Piacenza, oltre il Po, a sud, gli Anari.
La Gallia propriamente detta, descritta anche come
Transalpina o Ulteriore per distinguerla dalla Gallia Cisalpina, invece,
comprendeva l’attuale Francia continentale, oltre i paesi sulla sinistra del
Reno, e parte della Svizzera.
“La Gallia celtica, la parte più vasta, era limitata dalla Garonna, dalla Marna,
dalla Senna e dall’Atlantico, abitata dai Sequani fra il Giura e la Saona,
dagli Edui tra la Saona e la Loira,
dagli Arverni a sud degli Edui, dagli Armorici lungo la Manica, dai Veneti
nella parte meridionale della Bretagna.
La prima divisione della Gallia risale al tempo in cui i
Romani entrarono in quella regione, 122 a.C.. E denominarono Provincia, oggi
Provenza, il paese fra le Alpi e il Rodano, da loro sottomesso, per
contraddistinguerlo dal rimanente della Gallia, indipendente.
Cesare divise la Gallia in tre parti corrispondenti ai
principali elementi della popolazione, cioè: Aquitania, fra la Garonna e i
Pirenei, abitata da popolazioni di razza ibera; Celtica, fra la Garonna e la
Senna, e i confini della Provincia; Belgica, fra la Senna e il Reno, abitata da
genti mista di Germani e Celti.”
I nuovi migranti gallici avrebbero rappresentato l’ultimo
apporto etnico al popolamento della
Padania, modificandone la geografia culturale. Il processo di sovrapposizione
dei nuovi arrivati ai gruppi preesistenti non è stato ancora chiarito in
maniera definitiva dall’archeologia.
Scarsa è la documentazione archeologica delle sue fasi più antiche. Ma non conosciamo neppure particolari della vita degli Insubri,
insediati tra Adda e Ticino. Particolari da cui
poter risalire alle modalità in
cui si erano verificati ed evoluti
quegli eventi. Che, però, al pari di
ogni invasione, non sappiamo se abbia
determinato in senso assoluto il formarsi di una civiltà.
Ogni insediamento è, comunque, il risultato delle azioni con
cui gli uomini modificano l’ambiente fisico in rapporto alle loro necessità di
vita.
I gruppi di tribù galliche giunti nella Cisalpina, dato vita
ad un abitato, nei primi tempi lo
consideravano una colonia di un centro
più antico. Rimanendo legati alla
madrepatria da una catena sentimentale. Un esempio, i Galli che vivevano nel
retroterra di Marsiglia nel II secolo a. C. mantenendo rapporti con i loro
congiunti dell’Asia Minore, i Galati.13
Ma qualcuno potrebbe domandare, come è possibile collocare
il primo apparire del nome Concorezzo a duemilacinquecento anni fa o forse più, quando oscure sono per
noi le origini del nostro borgo ad una
distanza inferiore ai mille anni?
Cercare di partire dall’arrivo,
come viene detto il confine tra la
preistoria e la storia, è, infatti, un
compito piuttosto arduo quando
già è difficile muoversi nella storia.
E quasi impossibile ormai poter delineare con precisione un
paesaggio quale poteva essere
due-tremila anni fa allo stato attuale del terreno sul quale si
estende Concorezzo. Come abbiamo visto,
la morfologia del territorio di Concorezzo, senz’altro, non era uniforme, sia per la costituzione che
per i vari eventi geologici di cui esso era stato teatro.
Fra le ipotesi: la conformazione dell’antico borgo
potrebbe rivelare ancora non tanto uno
stampo romano, quanto celtico attorno
all’antica chiesa di S. Damiano che fu tra via Battisti e via Toti. Attenendoci a quanto hanno evedenziato per
altre località italiane, francesi e tedesche, gli scavi archeologici finora
effettuati. Malgrado gli archeologi abbiano ulteriormente complicato i problemi
dello storico in seguito alle loro scoperte, proviamo ugualmente ad
immaginare come avrebbe potuto
presentarsi quell’abitato di Concorezzo. Nella parte più elevata del suolo
sarebbe stato se non un vero e proprio santuario, un luogo sacro, poi delubrum,
in cui avverrà la celtizzazione delle
divinità romane e, in seguito, la
trasformazione di queste divinità in santi. Proprio qui potrebbe essere sorta secoli
dopo la chiesa di S. Damiano. Da Cesare apprendiamo che i Galli adoravano
soprattutto Mercurio (Teuthates, Vellaunus, Artaius) “I culti importati si sovrapposero ai
culti locali, spesso collegandoli per riconosciute affinità,” scriveva ancora il Bognetti.
Nella piazza sottostante (ancora nel 1756, dalla relazione
stesa in occasione della visita pastorale del cardinale Pozzobonelli si apprende
che essa risultava di circa 2 metri sotto il livello della chiesa), di fronte
alla facciata di S. Damiano, le residenze degli esponenti principali del
villaggio e più in basso in prossimità della porta del villaggio e in una
valletta adiacente il quartiere degli artigiani, costituito da capanne di forma
ovale con fondo scavato, suddiviso per
attività. Con un fossato non molto profondo che
cingeva l’abitato. E’ l’immagine
di un oppidum celtico: ma perché non potrebbe essere stata pure quella di un
villaggio come Concorezzo di cui si sa
ancora meno di nulla?
Mentre i limiti ortogonali dell’antico borgo potrebbero indicare il centro abitato del
periodo romano con la composta geometria della
campagna attorno?
“In sede di ricerca scientifica tutte le ipotesi non
destituite di qualsiasi fondamento possono essere avanzate ,“ scriveva sempre il Riva.
Alla geologia, dunque, il primo passo.
Quanto si trova anche sotto il suolo di Concorezzo potrebbe superare, difatti, la nostra
fantasia, volgendo il pensiero al lontano passato di questa terra.
Lo sviluppo della maglia urbana di un centro abitativo si è
quasi sempre formato attraverso lente e disomogenee stratificazioni culturali.
Oggi si può ricorrere alle prospezioni geochimiche,
geofisiche e stratigrafiche. Le
prospezioni geochimiche, basate sull’analisi del terreno, servono a fini
archeologici. Quelle stratigrafiche sono anche più importanti in quanto
consentono un rilevamento sul posto di tutti gli elementi che favoriscono la
ricostruzione delle condizioni di vita e delle caratteristiche ambientali di
ogni età archeologica. La presenza di antichi insediamenti umani viene
evidenziata da numerosissime tracce lasciate dall’uomo in pozzi, fossati ed
altre opere costituite da frammenti di manufatti e residui di ogni sorta,
organici ed inorganici. Informazioni
sulla vita quotidiana, sulle attività commerciali sarebbero utili anche per un
piccolo centro abitato quale fu il nostro. E... sul rapporto tra il territorio
di Concorezzo celtico e quello romano.
Sarebbe interessante, per una ricostruzione globale del
passato, dare almeno qualche risposta
alle domande che coinvolgono pure i
fattori ambientali e morfologici che si pongono secondo innumerevoli
connotazioni e valenze.
La microstoria potrebbe incontrarsi così con la storia
ufficiale, vale a dire con i racconti di quegli storici greci e latini che la
Gallia Cisalpina hanno visitato e ne hanno scritto. Offrendocene un quadro naturalmente per tutti
più intelligibile.
Concoret e Concorezzo
La parte del nostro toponimo sul quale si era soffermato ed…arenato più di uno studioso era stato il Con-. Il
Con- diffuso sul continente nelle aree già celtiche.
Esso aveva
rappresentato, infatti, per buona parte degli studiosi ai quali era stato
sottoposto il nome di Concorezzo, più di un problema.
Le antiche significanze sbiadivano, si confondevano i tratti
individuanti.
Discutendone con il prof. Biddulph, appresi che un nome
gallese con il Con-, di solito, ha una
radice analoga al latino cum. Quindi con-
ha il significato a tutti noto. E: “ Cymmer significa confluenza,
incontro di corsi d’acqua. Ma
qualora Concorezzo venisse da cored, bisognerebbe spiegare il prefisso Con- che
sembra essere maschile e non femminile. Questo potrebbe essere stato all’origine
un aggettivo più che un nome, che seguiva una parola come tech, ti corrispondente a casa,
che è maschile, oppure una parola maschile
per villaggio: in Gallese...”.
E il piccolo dosso, cocculus, dal quale
Dante Olivieri riteneva derivasse
più verosimilmente il nostro
toponimo? Egli mi spiegò, anche con schizzi, come ciò avrebbe potuto
essere; ma solo in determinate
condizioni del terreno.
Per l’area nostra, in fatto di corografia, non si andava,
tranne pochi casi, molto più in là delle
ricerche condotte dal Fumagalli, dal Puricelli, dal Giulini e dal Porro per
nominare i maggiori. Erano seguiti il Dizionario di toponomastica lombarda. Nomi
di Comuni, frazioni, casali, monti, corsi d’acqua ecc. della regione lombarda,
studiati in rapporto alla loro origine dell’ Olivieri del quale il cocculus o piccolo dosso potrebbe essere
accettato, in assenza a Concorezzo di un’altura stretta, simile alla parte
posteriore del corpo umano o spina dorsale, mi spiegava Biddulph, se il termine
fosse riferito al suolo economico comune, nel senso di terra, terreno non
cintato usato per il pascolo o landa, terreno incolto aperto. E Liguri-Celti-Germani
nei nomi di luogo in Lombardia del Bottazzi.
Nacquero altre
domande.
Fra le quali: da una conchiglia a spirale, che somiglia
molto a quegli esemplari di ammoniti (da Ammone, dio degli antichi Egizi
effigiato con la testa di montone), o cefalopidi, anche del diametro di 40
centimetri? Estintisi quasi completamente nel periodo Oligocenico, i cui
fossili sono stati rinvenuti in Brianza, dimostrando l’origine marina delle
nostre montagne.
Ma nella preistoria la concezione delle cose era proprio
simile alla nostra? Sappiamo, ad
esempio, che per noi un’isola è
semplicemente una terra circondata dall’acqua, mentre presso i nostri antenati
del nordovest d’Europa, celtica o germanica,
il concetto sembra sia stato
applicato a qualsiasi terra vicina all’acqua, utilizzata per le pecore ed il
bestiame al pascolo. Un caso? Il
solo?
Rimaneva sempre una spiegazione per il Con-., base con- (in cui rientra il celtico e il latino). Ampliata da una
suffissazione, e cioè dall’aggiunta di un suffisso? L’indoeuropeo possedeva un
suffisso per esprimere la qualità in grado relativamente elevato ed un suffisso
oppositivo, che serviva a mettere in contrapposizione due persone o due cose.
Il Ga- rappresenta il Con- di un antico nome personale nel
Cornish (dialetto della Cornovaglia: la più vicina alla Francia). E nomi con
Con- divenuto Ke- si trovano in gran numero. Uno di essi: Conmingen poi
Kemynyon.
Tuttavia, essendo esso
assai diffuso sul Continente europeo nelle aree dell’antico celtico, non
si poteva trattare che di una preposizione o un prefisso preposizionale
corrispondente a: presso a, vicino a.
Concorezzo, dunque,
deriverebbe presumibilmente da: Con – Coret (maschile?). Se questo,
invece, è Celtico, coret potrebbe
corrispondere al Gallese cored e cioè
stagno o conca piena d’acqua in cui si pesca. O una chiusa, uno
sbarramento creato per interrompere il flusso di un corso d’acqua o sua derivazione, attraverso la costruzione
di una barriera. Cored potrebbe
essere stato coret nel primitivo Gallese. Questo è, però, un
vocabolo femminile, così pure lo sbarramento, la chiusa di un corso d’acqua: Y
GORED. Una derivazione possibile, dunque: Nant-y-gored (sbarramento, chiusa di
un piccolo corso d’acqua), Pant-y-gored (sbarramento che forma una valletta
ombrosa). Purtroppo Joseph Biddulph non trovò un nome con questa
radice.
Non è impossibile che
lo trovi, invece, chi domani ritenesse
di dover esplorare questa via per andare oltre.
“Il Gallese non
comprende, ovviamente, l’intera storia
della lingua celtica, la quale é
suddivisa in più parti che sono un residuo dell’originale parlata celtica. Le
differenze fra esse? Non vi fu mai un
originale Celtico, bensì una serie di dialetti simili. Grappoli di dialetti un po’ come
in Africa oggi. Questo rende tutta la questione non poco incerta; ma
serve per rilevare che nella grammatica l’antico Celtico di tipo Gallico
assomiglia alle lingue Italiche.”
Insomma la difficoltà sta anche nel comprendere le sfumature
dei termini per gli elementi che compongono il nome di luogo. Certamente non si perverrà mai alla sua
percezione nel periodo celtico. E le
caratteristiche fonetiche del dialetto locale contribuirono a storpiare il nome
antico (kom kored, com cored…).
Del resto fin quasi agli anni quaranta del Novecento, per la
memoria che ne conservo, in paesini attorno a Concorezzo, lontani da città e
dalle principali vie di comunicazione, si
parlavano dialetti con accenti, espressioni o pronuncia ben diversi da quelli
che ero abituato a sentire. Relitti antichissimi che l’italianizzazione non
aveva ancora cancellati? E, quando in
ogni paese gli abitanti pronunciavano il
nome del luogo in cui vivevano, tutti
erano più tenacemente conservatori dei
lessicografi. Anche se per la
trasmissione orale non esistono codificazioni scritte e di conseguenza punti di
riferimento concreti. Non avendo forma scritta, nel succedersi di popoli
migranti provenienti da terre diverse, una lingua è più vulnerabile, oltre che
ad essere modificata anche ad essere in parte dimenticata. Specie il nome di
luogo se la precedente popolazione diviene minoranza. Lasciando alle spalle una
memoria della cultura che l’ha espresso. Per coloro che pronunciano quel nome
nel tempo non riveste più il significato che aveva in origine. E’ solo
il nome del luogo in cui trascorrono la loro esistenza: é il loro universo.
E alla luce di quanto avevo potuto cogliere sforzandomi di
penetrare in questo angolo magmatico che è calato entro l’uomo, radicandolo nel
passato e nel territorio, non accantonai
l’ipotesi di una chiusa su un corso d’acqua, piccolo o grande che fosse stato. Mi tornavano alla mente, inoltre, Clusura de Cerone e Prato de Valle nominati nella permuta
dell’892 tra Pietro, abate del monastero di S. Ambrogio di Milano, e Pietro,
arciprete e custode della chiesa di S.
Giovanni di Monza, della basilica di S. Eugenio in Concorezzo di beni, terre a
vigna ed a campo, con la basilica di S. Giorgio in Cologno e sue
proprietà. Ma clusura in quel periodo era riferito non ad un incastro o chiusa
per contenere l’acqua, bensì ad un recinto, vale a dire una struttura
agricola (vi è, però, chi lo interpreta
anche come terreno collettivo). Se lo
si vuole verificare, basterà esaminare
le carte dell’epoca per la nostra regione. Dal canto suo, il Du Cange, a pagina
356, al termine clausura scrive: ager clausus sepibus, campo chiuso da
siepi; mentre per argine, incastro per
le acque riporta il termine clusa.
Come per il mulino dei fratelli Deodato e Senatore ad Ottavo.
Non vi è dubbio che al suo sorgere, nella preistoria,
Concorezzo sia stato situato sopra un territorio a diversi livelli, come pure
nel medioevo: da qui un prato de valle. Fino al 1800, terreni detti la gera e strade dette della valletta ci confermano che le condizioni
naturali del terreno non sono ancora del
tutto mutate.
Per ora chi può dire
se vi sia o non vi sia stato uno
specchio d’acqua artificiale, oppure uno stagno, un corso d’acqua, magari
pescosi? Ma si potrebbe pure andare un
po’ più in là e pensare che il nostro territorio fosse già, come appena dopo il Mille, più
prossimo al Lambro di quanto noi possiamo supporre.
Volgiamo, intanto, il nostro sguardo oltralpe per qualche
raffronto.
Conquereuil, ad esempio, nel dipartimento francese
Loire-Atlantique canton de
Guemené-Penfao, è una città bretone in
una zona caratterizzata da terreno
lievemente ondulato con stagni
pescosi e il fiume Le Don, che scorre prossimo al suo territorio. E dal quale hanno
preso il nome i circoli celtici
locali. Inoltre, a pochi passi da quel
borgo vivono ancora querce multicentenarie.
Ritenuto da alcuni studiosi uno dei toponimi equivalenti a
Concoretio, consultai su segnalazione della dott.ssa Marie Heléne Jullien
dell’Institut de Recherche et d’Histoire
de Textes et de Mondes Anciens et
Medievaux di Parigi, i Cartoulaires. Constatai così che Conquereuil, a metà dell’XI secolo veniva
scritto Concretus, Conquareticum, Conquereus, con doppio
suffisso –ari(a) –olum. Studiosi francesi attribuiscono il suo suffisso –euil
al periodo gallo-romano.
Conqueyrac, nel Gard, invece, concharia, insieme di cunette, più il suffisso –acum.
Mentre per: Concorès nel Lot, non lontano da Gourdon, vicino
al fiume Céou, a confine con la Dordogne; Concourès nell’Aveyron;
Concoules pure nel Gard (Nimes);
Concorés nella regione di Rodergue in Linguadoca; o Correze, non rinvenni
riferimenti. Forme antiche del celtico diversamente latinizzate?
Tutte queste località francesi compaiono già, come pure
Concorezzo, in un dizionario geografico del 1859. 14
Per il nostro territorio si ripropone la domanda: com’era la
sua conformazione al sorgere del primo villaggio?
Questo, però, non mi
impedisce di concludere dicendo che il
nome Con-cored o Concoret –io è più
simile a quello di Concoret, antico
villaggio in Bretagna, tra le Morbihan e l’Ille et Villaine, terra
che ha conservato il suo carattere misterioso, dove Storia e leggende si sono
coniugate fra le acque pulite, nell’antica foresta di Brocéliande e nella
verdeggiante foresta di Lanouée.
Anche per Concoret
non ho trovato per il
medioevo alcuna variazione nella
grafia. Forse perché la Bretagna
é la sola regione francese in cui ancora
si parli un dialetto celtico… che,
si riteneva, vi fosse stato importato nel VI secolo d. C . dai Bretoni. Ma
che le ricerche condotte dall’abate
François Falc’hun hanno stabilito che il bretone moderno è
l’erede del gallico e non un dialetto insulare importato. Il medesimo
Autore, inoltre, sostiene: “ In una stessa lingua, più interpretazioni di uno
stesso toponimo rimangono ancora possibili…Il primo problema che pone un nome
di luogo che non fa più parte del vocabolario comune della lingua del paese in
cui si trova è quello della lingua attraverso la quale solamente può ricevere
una interpretazione corretta”. 15 Senza
dimenticare che sono stati i parlanti a produrre un mutamento fonetico dei
toponimi.
In ogni caso tutte le località francesi con il nome
somigliante a Concorezzo sono Comuni rurali e contano un numero molto limitato
di abitanti. Un pò più di quelli del
Concorezzo di Lacchiarella. Hanno mantenuto, invece, più caratteristiche del
passato di quelle che può avere perduto il nostro borgo.
Les Concoretois, gli abitanti di Concoret, ad esempio, fino
al 1998 avevano ancora una guardia campestre ed allevavano maiali che i Concorezzesi di oggi hanno appreso dagli
anziani che ciò pure qui avveniva… oltre mezzo secolo fa.
Per noi è rimasto, dunque, solo lo scheletro di quel nome,
uno scheletro che, al pari di un fantasma, compare paludato secondo le
occasioni?
E’ vero che la Bretagna è una regione attraversata da fiumi.
Che nelle vicinanze di Concoret si incontrano tre corsi d’acqua; che questa
parte dell’Armorica, ricoperta da un’immensa foresta nei primi secoli della nostra èra, fu la terra di mago Merlino e della fata Viviana, di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Favola, realtà o
coreografia, questo non cambia molto per il nostro toponimo.
Si può solo domandarsi: se in Gallia furono le radici del
nome del nostro antico borgo, quali sono oggi le affinità e le differenze della
città di Concorezzo con i suoi omonomi
dopo che ognuno di essi ha seguito una propria strada? Che lascio da
definire ai ricercatori che volessero addentrarsi negli antri oscuri di questa micro odissea.
I contatti con il dr.Olivier Szerwiniack, membro
dell’Institut de Recherche et d’Histoire des Textes di Parigi, specialiste de
la littérature celtique, il quale mi indirizzò al prof. Pierre –Yves Lambert,
spécialiste de Galois, e con la Faculté de Celtique dell’Université de Haute
Bretagne a Rennes, rappresentarono
l’ultimo passo del mio lungo cammino.
Le considerazioni e indicazioni scaturite mi sospinsero verso la Linguistic Society of
America di ieri con il suo Supplement to Language: “De la toponymie bretonne, dictionnaire étymologique, par William B.S. Smith, préparé sous la direction de
Louis H. Gray d’aprés le manuscrit inédit d’Auguste Brizeux”. E tra le località bretoni compare Concoret:
derivazione dal gallico con-cored. Lingua, il Gallico, che appartiene alla
galassia delle lingue celtiche.
Il significato di Concoret: una valle ( cwm =con) dove un
corso d’acqua incontra uno sbarramento(cored). Viene segnalato che il gallico cored
e il nome di antico luogo. Coret
loencras corrispondeva alla chiusa in Avézac.
Ma pure un villaggio vicino ad uno sbarramento, naturale o
artificiale, di un corso d’acqua che si
riversava in una depressione del terreno dove
l’acqua, indispensabile per la vita, si conservava. Tuttavia non va
trascurato il fatto che a quegli uomini era sufficiente che il capo della tribù
o il druida riconoscesse al nuovo territorio qualche caratteristica simile a quello
che erano stati costretti ad abbandonare. Non che necessariamente ne fosse la
copia identica. Oltre, naturalmente, l’esistenza di fatti dei quali è
impossibile conoscere o comprendere l’essenza.
“Il termine conca, ad
esempio, nella toponomastica non implica necessariamente l’esistenza attuale o
passata di una valletta (né di un dosso). Esso si può applicare a date forme
che fanno pensare a quella data forma del terreno.”
“Anche nell’Insubria,
come scriveva, poi, il Bognetti,
malgrado la prevalenza dell’elemento indigeno, tali toponimi potrebbero
spiegarsi col fatto di essere rimasti dei nuclei gallici a diretto contatto o
addirittura chiusi in mezzo a qualche gruppo compatto di coloni romani. Indizi
di centuriazione pare di scorgere tutt’ora (1920 ca.) nel tracciato delle vie
campestri di parecchie zone della pianura alto milanese…” 16
“Fece qui fine e… tacque”
Se si conviene con Socrate che la giustezza delle parole si
ha quando la parola indica qual è la cosa designata, allora con la mia ricerca, suffragata da studiosi di
lingua celtica e gallica, posso dire di essere giunto all’ultimo passo. Se le parole sono, invece, convenzioni e designano le cose solo per
coloro che partecipano della convenzione e le cose già conoscono, chi potrebbe
sottoscrivere la certezza assoluta di questa interpretazione, all’infuori di
coloro che diedero vita al
toponimo? Ho almeno sfiorato le vie certissime
della scienza che sono per Cartesio l’intùito e la deduzione?
A questo punto qualcuno, di ogni cosa dubitando, potrebbe
obiettare che per la storia di Concorezzo dopo tutto questo ricercare non cambia nulla.
“La parola del passato, diceva
Nietzsche, è sempre simile ad una sentenza d’oracolo: e voi non la intenderete
se non in quanto sarete gli intenditori del presente…”.
Per chi, infatti, vive attanagliato nella morsa del
quotidiano in un microcosmo eccessivamente dilatato, che quasi non gli consente
di pensare a ciò che è, figuriamoci di pensare a ciò che è stato, non
cambierà nulla. Ma per quelle famiglie che qui vivono da
numerose generazioni con profonde radici il cui richiamo innesta un
corteo di rimandi ? E, soprattutto, per coloro che qui sono calati a vivere
l’avvenire ed hanno il diritto di conoscere le origini della città della quale,
negli anni, non sarà per loro facile dimenticarsi? Meglio disconoscere, quindi, le proprie
origini o prenderne coscienza?
Cosa bella mortal passa e non
dura. Che la vita e la storia, in
forme assai meno petrarchesche, confermano. Specie se si tratta di una società come l’attuale. Impigliata nella
rete di una globalizzazione opinabile,
entro un globo che sembra voler fuoriuscire dal mappamondo. Con punti di
riferimento che più che fluttuare
vengono sommersi da un chiacchierio irrefrenabile, in cui il genere umano,
incatenati lo spirito del carpe diem
oraziano, e l’invocazione faustiana, attimo,
sei bello, fermati, è
inconsapevolmente invorticato non nella ricerca del sapere e della felicità, ma
della bufera infernale dantesca che mai non resta.
Cerchi chi ha soltanto un dubbio
su questa derivazione di soffermarsi un istante per chiedersi, almeno, che cosa
può avere indotto coloro che qui migrarono a dare quel nome alla nuova
terra. Che cosa se non un luogo ospitale
che ricordasse loro il villaggio in cui
erano nati e dove avevano vissuto per anni? Non sarà esattamente il nome, ma ne
è sicuramente il supporto. E’ ciò che si è verificato in un passato molto
remoto e si è ripetuto fino al Novecento.
Lo si può constatare sfogliando un atlante. Dal Cinquecento, difatti, un gran numero di
individui ha lasciato il paese natale in Europa alla ricerca di una terra in cui poter
continuare a vivere. Le testimonianze
più numerose le ritroviamo nel Nord come nel Sud America, e in altre parti del
mondo. Ovunque si incontrano nomi di
località dalle quali provenivano i migranti. Perché, dunque, anche i Liguri, i
Celti non potrebbero avere portato in Italia, come in altri Paesi, i nomi dei
villaggi, o un ricordo dei medesimi, che erano costretti ad abbandonare per
poter sopravvivere?
E come l’esule in solitaria melanconia ti penso, ma
che nel tuo secolare mutar seguo,
terra mia.
Esistono dei limiti oltre i quali
un singolo individuo non sempre riesce ad andare.
Altri più fortunati di me, non è
detto che, sostenuti in loco e con il progredire della scienza e della tecnica, non
possano rinvenire sentieri che per
me sono stati impraticabili. Andando…
oltre le tecniche oggi definite avanzate.
Del resto che cos’è la
stessa ricerca scientifica se non un
lungo brancolare alla cui conclusione si arriva più rapidamente quando ciascuno
fa per gli altri il bilancio dei suoi brancolamenti?
Quanto
sin qui ho riportato, con imperfezioni e riduzioni di diverso genere nel corso
dell’ esposizione, vuole essere, quindi, solamente un contributo di un non
specialista della disciplina linguistica alla
ricerca della derivazione del nome di luogo Concorezzo.
1 C. Beard, That noble dream, 1935, ristampato in The
varieties of History, a cura di Fritz Stern, New York, Meridien Books, 1956, p.
324; Lynn Townsend White jr., Tecnica e
società nel medioevo, Il Saggiatore, 1967.
2 Aldo A.Settia, La
toponomastica come fonte per la storia del popolamento rurale, in Medioevo
rurale a cura di V. Fumagalli e G. Rossetti, Bologna 1980, pp.35-37.
3 L. Mumford, Il mito
della macchina, Milano 1969, pp. 32-33.
4 Docente presso
l’Universita degli Studi di Milano, autore, fra le altre opere, di L’etimologia
–Storia-Questioni-Metodo, Brescia 1967.
5 Era la fine degli
anni Sessanta. E quel: “Je n’en vay
chercher un grand peut etre”, che François Rabelais avrebbe detto sul letto di
morte al cardinale de Chatillon, non mi parve proprio una bella
prospettiva per la mia ricerca.
5* Cfr. pure Albert Dauzat, Les noms de lieux- Origine et
evolution, Paris 1937; Ch. Rostaing, Les noms de lieux, Press universitaires de France1997; Roland
Breton, Géographie des langues, Paris 1976; Auguste Longnon, Les noms de lieux
de la France – Leur origine, leur signification, leur transformation..., Paris
1968 e Ch. Peyre, La Cisalpine gauloise du IIIème au Ier siècle avant J. C.,
Paris 1979. Inoltre: Atlas Linguistique
de la France par regions, 1969; J. Moreau, Dictionnaire de geographie et de
historique de la Gaule et de la France, Paris 1972 (toponimi Gallia, repertorio)
e John Field, Place names of Great Britain and Ireland, David & Charles,
Newton Abbot.
Ancora meglio se
si riuscisse a trovare un gazetteer o lista completa dei nomi di
luogo del mondo romano con il significato
etimologico di ciascun nome.
6 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro secondo,
p. 101, Milano 1970
6* La chiesa di S. Andrea, scomparsa nel secolo XVI, a circa metà strada
tra la Monza-Olginate e la Melzo-Vimercate, stava tra il Palazzone e la Trattoria la
Gabina, e cioè sul primo tratto dell’attuale via S. Rainaldo andando verso
Villasanta. Quindi non dove l’antica
chiesa di S. Andrea é stata indicata in Concorezzo
medioevale, schema allegato al numero I di Ricerche storiche sulla Chiesa
ambrosiana edito nel 1970, vale a dire nel luogo in cui venne edificata la
nuova Chiesa parrocchiale del Cagnola.
Lo dicono le carte parrocchiali del
Seicento in Archivio Plebano di Vimercate ed in Archivio di Stato di Milano; e
le carte del censimento settecentesco:
descrizione del territorio di Concorezzo e mappa di lavoro del 1721. Nel
1672 l’horto chiamato
il S.to Andrea di pertiche 3; nel 1759 aratorio
avitato chiamato il Tre codaglio(Tricudai) di proprietà del Beneficio
parrocchiale, che nel 1809 é già stato venduto o permutato dal parroco Pietroli
o da don Frigerio. Ne feci cenno nella
mia relazione dell’11 novembre 1989 al Convegno sul 90° della Chiesa dei SS.
Cosma e Damiano e in Il Cittadino di Monza del 25 novembre 1989.
6** Ho avuto occasione di esaminare le genealogie di antiche famiglie
nobili. Quella dei De Capitani di
Scalve, che facevano risalire le loro origini a Milo I. Rex Caenomannorum et
Angleriae, A. 493; quella dei De Giorgi alla figlia di Teodolinda e re Agilulfo, un po’ più a portata di verifica, e di altre.
E mi astengo da ipotizzare le origini dei Concorezzo.
Anche se non credo che sia possibile, sic et
sempliciter, escludere una loro origine più antica.
7 Grande Illustrazione del Lombardo Veneto, ossia
Storia delle città, dei borghi ecc...
compilata da L. Gualtieri e diretta da Cesare Cantù, Milano A.
Tranquillo Ronchi, 1857-1861, vol. I, pp.546-547, 1857.
G. Aguilhon, Scoperte
archeologiche nell’antica corte di Monza, in Archivio Storico Lombardo, 1890,
parte II, pp. 754-755.
A. Cavallazzi, La sorpresa della epigrafia celto etrusco-pelasgica. Appendice prima: La tomba ad ustione
di Concorezzo, pagine 209-214, parzialmente
riportata in Storia di Concorezzo del 1978.
7 * Avevo conosciuto don Enrico Cattaneo negli anni
Cinquanta e lo frequentai per qualche tempo quando mi occupai della storia di
Concorezzo dal 1918 al 1935, parroco
Antonio Girotti e podestà Gerolamo Bonati, sapendo che egli era stato
Assistente di mons. Cavezzali il quale fu sempre vicino a don Girotti. Mentre incontrai mons. Enrico Villa, più di
una volta, in Arcivescovado nell’Ufficio
per le Nuove Chiese della diocesi di Milano, quando suo
Assistente era il giovane architetto don Giancarlo Santi.
8 F. Falc’hun, Les noms de lieux celtiques, Genève-Paris
1982, Avant propos, p. 4.
9 Cfr. J. Vendryes, Lexique ètymologique de l’irlandais
ancien, fasc. C, Dublin and Paris 1987, s. vv. cocur, con-cuirethar, pp. 139,
276-7. Questo dizionario dell’antico
irlandese fu composto da Joseph Vendryes (1875-1970), e tra il 1959 e il 1987
venne completato a cura di F. Bachellery e Pierre Yves Lambert. Cfr. inoltre: Contributions to a dictionary of the Irish
language by M. Carney-Mairìn O Daly, 1975 Dublino e A Grammar of Old Irish di Rudolph Thurneysen, Dublin
1980.
10 G. Haussmann, Il suolo d’Italia nella storia, in
Storia d’Italia, Torino 1972, vol. I, p. 65.
11 F. Martinelli, Storia di La Spezia, febbraio 2000; B. Migliorini,
Stotia della lingua italiana, Firenze 1976, p. 7-8.
12 G.P. Bognetti, Studi sull’origine del comune rurale,
Pavia 1925 – Milano 1978, pp. 44-50.
Nelle Storie, opera
della metà del V secolo a.C., del greco Erodono troviamo le prime menzioni sui
Celti dell’Europa interna.
Notizie più prossime al
momento in cui si verificarono le migrazioni celtiche sono arrivate dalle Historiae, II, 15-17 di Polibio (III-II
secolo a. C.). In questo libro si trova una descrizione dell’Italia e della
Gallia Cisalpina che egli visitò verso la metà del II secolo a. C. e della
quale ricorda la ricca produzione di grano, panìco, miglio e vino; delle ghiande
e dei maiali esportati in Italia, dei commerci. I suoi 40 volumi, scritti in
greco, coprivano gli avvenimenti storici del Mediterraneo dal 164 al 146 a.
C. Anche Catone e Plinio il Vecchio
hanno lasciato notizie sulla Cisalpina,
sulla sua composizione e sulle risorse economiche del territorio se pure non
sempre concordi con altre tradizioni. Su quei Celti che i Romani chiamavano
Galli. Per la Gallia Cisalpina, vi furono anche altri storici come: Fabio
Pictor, storico romano di lingua greca, Posidonio, al quale pare abbia attinto
pure Giulio Cesare, ma le sue Storie sono andate perdute.
13 Cfr. Edwin Bevan, House of Seleucus, vol. II, pp.
45-46.
I Galli celti avevano
appreso l’alfabeto greco dai Marsigliesi; tuttavia solo i caratteri erano
greci; la lingua era celtica.
14 V. de Castro, Gran dizionario geografico, politico
dell’Europa, vol. I, p. 601, Milano
1859.
Non in Dictionnaire
topographique departemental de la France comprenant les noms de lieux anciens
et modernes, curato dal ministero dell’istruzione pubblica, che dal 1858 e il
1960 non aveva superato un terzo dei
dipartimenti. Ciascun volume comprende, oltre un’introduzione di geografia
storica, l’elenco alfabetico dei nomi di luogo del dipartimento. Vi sono
registrate le forme antiche, se storicamente classificate con i riferimenti. Nè
in Dictionnaires des Postes et Tèlègraphes del 1913 (I^ edizione 1858) formato
da 150mila nomi o in Dictionnaire ètymologique des noms de lieux en France di
A. Dauzat et Ch. Rostaing del 1963. E
neppure in Archives Dèpartementales.
15 F. Falc’hun, op. cit., pp. 189-207. Le invasioni
scandinave portarono solamente un’immissione di elementi lessicali stranieri
specie in Bretagna e in Normandia. Anche se su questo punto vi siano voci non concordi.
E, pagina 9. Del resto il gallico
non è considerato da tutti linguisticamente compatto, ma variegato.
Dal libro III dei
Commentari della guerra gallica di Giulio Cesare si apprende della campagna,
breve e spietata, del 56 a. c. in cui i Veneti furono battuti per terra e per
mare. E, oltre la Normandia e la Bretagna, tutto il resto della Gallia fra il
fiume Garonna ed i Pirenei venne sottomesso al dominio romano.
16 G.P. Bognetti, op. cit., p. 72.
5 aprile 2013
Caro Floriano, scartabellando in una libreria,
sono colpito da un tentativo di chiarire a tutti noi poveretti la
paternità o maternità di CONCOREZZO. Trascrivo: “Concorezzo (MI).Il
toponimo deriva probabilmente da un “COCCULUS” = PICCOLO DORSO.
Concorezzo presenta epentesi di N ed è formato dal sufisso
.ICEUS” . Firmato: Carla Marcato, università di Udine,
coordinatrice scientifica. (Dizionario dei nomi geografici italiani. Editrice
TEA – I Dizionari – UTET)
Tu che hai sudato per aiutarci a capire qualcosa
!!!
NB- In nessun vocabolario ho trovato il termine COCCULUS.
In India esiste una pianticella con questo nome
che viene usata per cure omatopeiche.
Buona giornata. Don Ercole
6 aprile 2013
Caro don Ercole,
Ti ringrazio, innanzi tutto della Tua
partecipazione alla Storia del Borgo. Purtroppo quando le righe da scrivere
superano la decina, sono costretto ad attendere la presenza di qualche anima
buona a cui poter dettare. Per telefono non potrei dare certo una risposta più
completa.
“Quid ergo sum, Deus meus, quae natura mea?”
Anche se attraverso periodi sempre un po' più
critici per la salute, mi fa piacere vedere che almeno Tu cerchi di fare
chiarezza su qualche punto della nostra Storia.
Non mi meraviglia più di tanto, pur essendo
oggi molte le vie aperte alla conoscenza ai miei giorni sconosciute, che
un altro docente universitario peschi nel mazzo. Mi ero quasi abituato a ciò
negli anni che ho passato a ricercare. Successe con una docente della Statale
per una pergamena del XIV secolo, riguardante Bernabò Visconti, e con una della
Cattolica a proposito di un momento della vita di San Rainaldo de Concorezzo
dalla stessa ripreso senza verifica. Lasciando così monca la parte da me
scritta sul cardinale Peregrosso, suo protettore, in Dizionario della
Chiesa ambrosiana. Per la qual cosa allora nemmeno mons. Majo ritenne di poter
prendere posizione.
Non é che sia onnisciente, ma almeno per quel
poco che ho trovato nel corso delle mie ricerche e soprattutto verificato...
Toccherà a chi proseguirà la ricerca, qualora rinverrà documenti sfuggiti al
tempo e soprattutto ai falsi dell'uomo, ripulire la nostra Storia dai dubbi che
non possono mai mancare in ogni storia. Senza dimenticare che: Non
esiste la certezza assoluta ed eterna nella ricerca storica.
Questa nuova leva universitaria non fa niente
di nuovo: segue le orme di altri che l'hanno preceduta nel tempo; mentre le
case editrici si fidano del sapere di chi si é dato all'insegnamento di una
materia. Ancora che Carla Marcato aggiunge probabilmente.
Del cocculus, nel significato di piccolo
dosso, scrisse Dante Olivieri negli anni Trenta del secolo scorso e un po' di
anni dopo Natale Bottazzi, come ho riportato nel primo volume della Storia di
Concorezzo.
Non so se in Italia la toponomastica ha fatto
oggi molti passi avanti, ma se dovessi giudicare da questo, avrei qualche
dubbio. Anche se si tratta di una materia considerata dagli esperti non facile.
Quello che non può farmi piacere é vedere che
ho scritto probabilmente in
una forma non molto intelligibile sul tema. In ogni caso, anche se vale
sempre il primo principio di Cartesio: "Non prendete niente per vero a
meno di non sapere in modo chiaro ed evidente che é vero", per i toponimi
dalle radici tanto lontane e profonde non possono esistere certamente
testimonianze inoppugnabili.
Devo lasciarTi, malgrado l'aiuto avuto da
questo amico: troppi i farmaci e sonno sempre interrotto.
Un caro saluto, Floriano
Nessun commento:
Posta un commento