mercoledì 20 aprile 2016

Mulattiere e sentieri della Muggiasca di ieri: memorie...ricordi, 2012

Mulattiere e sentieri della Muggiasca di ieri
Memorie…ricordi
di Floriano Pirola


La memoria sarà un’atmosfera e i ricordi, non  altrettanto suggestivi ,  saranno quasi una specie di presente retrodatato, in cui gli eventi vengono resuscitati e rivissuti com’erano e come non possono più essere; ma nella mia mente essi non sono così facilmente divisibili.  
E mi auguro che altrettanto sia per altri in questo momento in cui la vita intorno a noi si rincorre al pari di un cane che cerchi disperatamente la propria coda senza comprendere, nel suo vorticoso ruotare, non soltanto dove essa sia, ma, forse, neppure più che cosa essa sia realmente.
Mentre il segmento dell’esistenza nostra sulla terra è segnato sempre dall’ora che fugge.
Stamane era un fanciullo, e  or son vecchio, scriveva il Petrarca.
E La bellezza delle cose non è tale se non a chi la percepisce; e la capacità di percepirla s’accresce con l’arte, cioè coll’osservare e col meditare, scrisse il Rosmini.
Nell’un pensiero e nell’altro traggono sostegno queste mie memorie e questi miei ricordi che
iniziano da quel mercoledì, 6 giugno 1934: avevo sei anni. 
Quella mattina, insieme alle nostre mamme Enrico Teruzzi ed io, dopo aver percorso in auto le strade di Brianza, la statale da Lecco lungo il lago di Como fino a Bellano e da qui salendo il versante sud del Monte Croce di Muggio posai per la prima volta lo sguardo sulla Muggiasca, anticamente il nome di Vendrogno, poi capoluogo della medesima.   In quell’aria pulita si diffondevano rintocchi di campane.   
Questo primo incontro avvenne sul piazzale del santuario della Madonna di Loreto, che tutti chiamavano “Madonnina”, alta sullo Zucco.  Dinanzi alla chiesa una colonna ricorda il voto di quella comunità al tempo della peste manzoniana dalla quale essa uscì indenne. Al di là del muretto tutt’intorno al piazzale la visione spaziava dal Pizzo di Parlasco alla cuspide rocciosa della Grigna. Tra le forre il vento rotolava a fondovalle. Dove nella valle Muggiasca in cui sprofonda, il torrente Pioverna, detto il fiume della Valsassina, si snodava invisibile fino al piccolo piano sul quale si distende Bellano, dividendolo, prima di disperdere le sue acque nel Lario ubique pellucidum, ovunque scintillante.
Mi furono a lungo compagne immagini cariche di luce in un mare di verde sotto un cielo terso e un silenzio violato solo dal suono delle campane, dai lampi e dai tuoni dei temporali.
In seguito mi domandai come poteva presentarsi agli occhi di quegli abitanti questo panorama quando la chiesa della Madonnina venne edificata.       
Nelle estati dei dieci anni che seguirono nel vicolo centrale di Vendrogno, non lontano dalla chiesa di San Antonio, che sulla facciata conservava un affresco cinquecentesco della Casa di Loreto, bevvi alla fontanella l’acqua di San Carlo, freschissima e, da una fonte che sgorgava nel territorio di Inesio, acqua ferruginosa.  
La natura rivestì ogni mio pensiero; penetrai nei numerosi boschi invadenti, ai cui margini sopravvivevano gli antichi terrazzamenti definiti “uno dei capolavori della fatica contadina”, attorno  ai minuscoli centri demici composti di vicoli angusti e di edilizia rustica, fatta di sassi sconnessi e di pietre debordanti. Così Mosnico, Mornico, Sanico, Inesio e Comasira, la frazione più bassa di Muggiasca collocata su un ripiano sopra la valle del Pioverna.
Ma pure da Bellano per la mulattiera fino a Lézzeno, passando accanto al Santuario della Madonna della lacrime edificato agli inizi del Settecento,  ad Ombriaco, e all’ ultima frazione, Pradello, la parte più alta di Bellano al confine con la Muggiasca.   E che, con Enrico o Lorenzo Marcati, facevo a gara a percorrerla in discesa in un tempo non superiore ai… dieci minuti.
Conobbi alberi diversi fra i quali primeggiava il castagno, e ai loro piedi eriche, felci, lecci e molti altri arbusti. Ho corso per prati tra erbe dai colori brillanti e delicati profumi, fra narcisi e…ortiche dagli umori irritanti. Mi inerpicai per quei pendii  fra trasparenti e gelidi ruscelletti fino ai pascoli brulli sui quali mandrie di mucche che con i loro campanacci penzolanti dal collo comunicavano i loro spostamenti al mandriano, mentre nugoli di tafani le assalivano avidi e balordi fra il loro scuotersi nervoso.
Dai fondovalle ammirai le cime e dalle cime rimirai la Muggiasca. In particolare dal Monte Croce di Muggio, allora per me quasi sacro, che digrada verso la Muggiasca, nel suo intreccio di visioni alpestri e lacuali. Il suo versante a settentrione che scende nella Valle del Varrone, più aspro e boscoso per risalire il Monte Legnone. A meridione sovrasta la Grigna Settentrionale, laggiù, a oriente, s’impone il Pizzo dei Tre Signori e a ponente i laghi di Como e di Lugano sotto un cielo di un azzurro intenso. Il Monte Muggio, é isolato da altri monti e domina tre valli che formano la Valsassina fra il corso del Pioverna, il corso del Vallone e la convalle della Maladiga. Il versante occidentale scende a formare la sponda del Lario da Bellano a Dervio, mentre sui versanti orientale e meridionale si stendono i pascoli. Le pendici a occidente e settentrione sono in parte coperte da vaste macchie di arbusti, le falde a mezzogiorno e a settentrione sono lambite dal Pioverna e dal Varrone e scendono ripide in profonde forre. Dallo stesso Monte Muggio si abbraccia uno scorcio del Lario; mentre dai pascoli dalla parte opposta dell’alpeggio di Giumello, circondato da montagne, i villaggi di Val Varrone sulle falde del Legnone. Visioni che affascinano, sublimi, nei dì di sole.
A scuola ne alimentarono il fascino, la sacralità Plinio e Virgilio che si erano estasiati dinanzi al bacino lacustre abduano. Meravigliosa, magica era quella luminosità che dava risalto ai grandiosi panorami che si spalancavano sul Lario e sui monti che ad esso facevano corona. Nelle giornate di vento già dall’isolato promontorio sul quale sorgeva la chiesetta dedicata a San Grato e dai prati sottostanti sui quali si posavano talvolta grossi falchi, si scorgeva, oltre il lago di Lugano, il Monte Rosa, in un’orizzonte, per i miei occhi, senza fine. E, rivolto il mio sguardo verso il basso, a sud, seguivo ogni volta la sinuosa valle nella quale il Pioverna,   passato l’Orrido di Bellano, in una lingua di terra si perdeva nel Lago. Nella mia memoria sono impresse quelle visioni che mutavano da un punto all’altro della montagna. Nei miei occhi, invece, che gli anni e le antiche carte hanno reso stanchi, scorre, come in un trasparente, quella vegetazione che ricopriva i fianchi dei monti, qui abbondante e lussureggiante e là scarsa. In particolare sulle terrazze, quelle piccole strisce di terra spianate dalle fatiche di innumerevoli e dimenticate generazioni che diedero vita anche alle mulattiere. Sugli alberi e sugli arbusti disseminati in ogni parte i movimenti e i versi degli uccelli si fondevano e si confondevano con lo strusciare del vento o lo stormire delle fronde.
Ma i canti, i suoni di armoniche e fisarmoniche che davano vita alle valli e che ancora mi risuonano negli orecchi…dove sono? E lo scampanio, che levandosi dai campanili delle chiesette, adagiate ai limiti dei grandi e naturali rilievi del terreno, ad iniziare dalla Madonnina a San Lorenzo, la parrocchiale di Muggiasca, ricordata nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani del secolo XIII, si diffondeva per le valli nelle giornate di sole in cui il vento scompigliava quella distesa infinita di verde e…i miei capelli; si addentrava tra le forre, mentre movimentava nel cielo i cirri e le nuvole più basse fin sopra la Grigna da cui nei pomeriggi d’estate nascevano spesso i temporali.  In quel profondo azzurro le nubi si alternavano biancheggianti nelle forme più varie.  Ma pure il mio:
CRUCCIO
I miei occhi corrono dalla valle - alle nuvole che incupiscono nel cielo - in mille forme bizzarre.
Le mie orecchie sentono la cornacchia - gracchiare nel vuoto - e il silenzio delle piante
immobili - in un verde prigioniero di mille goccioline - affamate di sole.
Un letamaio è vicino - e, dietro, un gatto nero- si sfrega con le zampine i baffi
come un bimbo che si lavi.
Odore d’acqua- porta un leggero vento - e dal torrente salgono al monte
bianchi sbuffi di fumo.
Laggiù- il cimitero tra le sue lapidi- tace - e il mio sguardo sale verso le cime dei monti
e non mi dà pace.
In quel mondo trascorsi quelle estati. Furono gli unici anni che mi levai al canto del gallo, camminai tra il frinire delle cicale e mi coricai al primo stridere dei grilli. I segni incisi in quegli anni nella mia memoria, uno dopo l’altro, uno accanto all’altro, e molti liberi, si agitano di tanto in tanto, come in uno dei piccoli caleidoscopi della mia infanzia. Dal Collegio Giglio, sorto alla fine dell’Ottocento e affidato ai Salesiani nel 1939, che durante la seconda guerra mondiale utilizzarono per le loro scuole, reggendo pure le due parrocchie della Muggiasca.
Qualche volta li sovrasta il disegno di un abitato nel quale i pochi rumori che si levavano intorno si perdevano nella cornice di azzurro, di verde e di luminosità cui faceva da sfondo la sagoma dei monti, non di rado emblematica per la gente del posto e, soprattutto, per noi bambini. Come il frate e la monaca, parte caratteristica del pizzo di Parlasco. Su di esso, una notte di luna, afosa, tanto che scendendo dall’abitato di Vendrogno al piazzale della Madonnina e fin quasi a Comasira la gente a mezzanotte andava in cerca di  un po’ di frescura, un Salesiano, Enrico ed io, partiti per   raggiungere la Grigna, ci perdemmo nel buio inerpicandoci tra sterpi e sassi e fummo costretti ad arrestarci causa il terreno impervio fin che sopra i monti non si diffusero le prime luci del giorno. Era il 25 luglio del 1943 quando il Gran Consiglio del Fascismo defenestrò Mussolini.
Le sequenze sulla pellicola del mio freudiano interno paese straniero sono numerose e richiederebbero uno spazio in più per la memoria e i ricordi per meglio visionarle alla moviola del tempo presente.
Molte di quelle immagini sono legate alle vie di comunicazione di ieri: le mulattiere e i sentieri. Mulattiere e sentieri che collegavano Bellano a Vendrogno, Noceno, Taceno, Narro, e le loro frazioni, su fino alla Capanna Vittoria dalla quale si poteva meglio ammirare il crocione del Monte Muggio. Quegli spazi aperti al passaggio, inizialmente scavati nei monti dalle acque e con tanta cura mantenuti praticabili nel loro acciottolato da uomini laboriosi, instancabili, che per secoli esercitarono la pazienza e non rifuggirono mai dalla fatica.  Furono sin dai tempi più remoti sentieri, viottoli, spesso tortuosi a seconda dello sporgere e del rientrare della montagna, attraverso i quali le genti che vi vissero comunicarono prima e dopo l’arrivo delle legioni di Roma. Ne conobbi alcune con il nome di mulattiere, che le persone colte nell’Ottocento chiamarono mollettiere. Fu, infatti, solo con la prima guerra mondiale che s’incominciò a chiamarle mulattiere essendosi il loro uso diffuso tra i meno colti.
Prima del Seicento prevalevano i sentieri, forse con solo pochi tratti particolari acciottolati, che per quelle popolazioni erano indispensabili.
Ma chi oggi si immagina quali e quanti lavori furono necessari per realizzare una mulattiera e per mantenerla agibile in ogni stagione? Sterrare con picconi levando da una parte con badili e mani terra e roccia per scaricarle con ceste da un’altra, per fare il piano o per migliorare l’esistente; predisporre cordoni di pietra, gradini più o meno alti per attraversarlo simili a spine dorsali in grado di tenere insieme le varie porzioni di acciottolato, specialmente negli abitati, fatto di sassi, ciottoli presi dai torrenti, saldamente connessi gli uni agli altri; per comporre una pavimentazione capace di resistere all’usura provocata dal passaggio dell’uomo con o senza mulo o trainante lui o lei grosse fascine di legna; dalle intemperie e dallo scorrere delle acque nei periodi di piogge. Pur con lo scarso denaro di cui potevano disporre, quelle comunità, con l’aiuto di qualche persona benestante o per solidarietà di comunità vicine, riuscivano a rimediare picconieri, spaccapietre e scalpellini per dare misure giuste alle pietre. Qualche cronaca locale, ricavata anche da registri parrocchiali, accenna al capitolo delle comunicazioni, sotto la voce di lavorerio, come si usava dire, del fervore di opere cui partecipava collettivamente ogni popolazione montana nella realizzazione di quelle erte stradicciole acciottolate. Per quelle mulattiere, scarponi o pedule ai piedi a secondo della mèta e della stagione, zaino in spalla salivo respirando a pieni polmoni. Raro il fumo di sterpaglie bruciate, circoscritto l’odore proveniente da qualche deposito di stallatico fumante.
Su di esse iniziai presto a domandarmi: chi sarà passato di qui in secoli lontani, che cosa avrà visto  che io non possa più vedere? Poi mi accompagnarono le letture che divoravo nel tempo libero. E quanto da qualche lettura apprendevo non sempre mi lasciava interiormente tranquillo. Anche se quel vivere pericolosamente che riempiva ai miei tempi le aule scolastiche non sempre me lo faceva esternare. Tra le “Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe dalla più remota età fino all’anno 1844” di Giuseppe Arrigoni mi colpì quella relativa alla presenza, agli inizi del Seicento,  di torme di lupi ed orsi. In seguito appresi che lupi e orsi infestarono la Valsassina già nel Trecento, ma che ancora nel Settecento  non erano del tutto scomparsi. Come l’orso ucciso nel 1760 sui monti di Indovero e Narro in località, dove si dice alla piazza di Ortiglara e un altro, dal pelo grigio, quattro anni dopo ucciso sui monti della Muggiasca. Ma casi simili accaduti in tempi successivi costellavano i racconti dei più anziani. Tanto che qualche volta avventurandomi solo per quei sentieri e in quei boschi, quando il silenzio, mai più ritrovato, che mi accompagnava, veniva rotto da un saltellare più marcato delle acque limpide dei ruscelli, da un canto di uccello a me sconosciuto o dall’ululare lontano di cane, suscitava in me un vago timore. Ancora non sapevo che i lupi in Valsassina si trovavano oramai tra le carte polverose degli archivi. Ma mi risonava negli orecchi quel vivere pericolosamente e non ne parlavo: pena, essere messo in celia. E pure quello non mi piaceva.
Di quelle mulattiere, di quei sentieri più indicato a parlare sarebbe un novello Antonio Balbiani. Uno scrittore calato nella vita di quegli anni, che certo neppure più erano quelli in cui immerse nelle mille pagine, in tre volumi, il tempo nel quale agì “Lasco, il bandito della Valsassina”. Opera data alle stampe sessant’anni dopo i Promessi sposi. Per me di quegli anni non sono sopravvissuti che frammenti di memoria che i rovi graffianti dell’esistenza non hanno ancora cancellato. Fra essi se ne inserisce uno sui sentieri che portavano dall’Alpe di Giumello con i pascoli attorno all’ombrosa mulattiera che da Narro scendeva fino al Mulino in quel di Vendrogno. La fine dell’estate del 1943 non era molto lontana, ma ancora le giornate erano piene di luce. Da noi ragazzi il tempo si misurava dalla luce e dal buio, non dallo spostamento delle lancette sul quadrante dell’orologio. Da un po’ di giorni, nel pomeriggio, si udivano rombare sopra di noi i motori di un aereo che volava verso monte Muggio, volteggiando. Sull’alpeggio di Giumello, circondato da montagne, il tramonto in cui la mandria si avvia verso la malga era ancora lontano. “La balconata dell’Alpe di Giumello si prestava per paracadutare da aerei sia merci che uomini”, qualcuno mi aveva detto. E ciò mi aveva incuriosito.
Quel pomeriggio, consumato il pasto del mezzogiorno, invece di incontrarmi con Enrico e Lorenzo tra i sassi e l’acqua del Mulino, decisi di imboccare la mulattiera per San Grato, che superai in breve, inoltrandomi sul sentiero alla mia destra fin che, oltrepassata la fonte dalla quale si abbeveravano pure i passanti, m’inerpicai diretto all’Alpe di Giumello. Faceva ancora caldo e sudavo: la vegetazione si faceva sempre più rada, perdendosi fra piccoli arbusti, ciuffi d’erba e terra. Mi ritrovai su un sentiero solitario, pochi gli alberi, e là, dove arrivava lo sguardo, vecchie baite.  Anche quel giorno, nel primo pomeriggio, un aereo aveva eseguito gli stessi movimenti. Quando arrivai sul pianoro udii in lontananza il suono dei campanacci delle mucche al pascolo: Camaggiore con  qualche rustico alpeggio. Mentre a un centinaio di metri mi apparvero le figure di un uomo che mi sembrò un mandriano e di un frate.  Avvicinandomi, il mandriano si diresse verso il monte. Il frate, che visto più da vicino giudicai sulla trentina, il viso incorniciato da una barba un po’ trascurata, sollevò da terra una bisaccia ponendosela sulla spalla sinistra. E nei suoi sandali mosse verso Narro.
Un’ immagine che in quello spazio aperto era un po’ fuori dalla sua cornice. E tale rimase lasciandomi con lo sguardo al paesaggio sottostante, mentre il vento mi asciugava il sudore provocato dalla salita.
Con il trascorrere degli anni anche questo frammento di memoria ha perso più di un contorno. Un po’ come quei lenti pendii naturali trasformati in terrazzi dove si coltivava in particolare la vite, oggi quasi tutti abbandonati, quei bei prati con le loro erbe che brillavano al sole. Come quei sentieri, quelle mulattiere, che, anno dopo anno, asfalto dilagante, il piede dell’uomo calcò sempre meno, posato sempre più sull’acceleratore dell’automobile.
Non mi rimane che concludere, non sarà positivo ma è realistico, unicuique suum, parafrasando Cicerone nel suo De natura deorum. Anche se non so bene con quale animo: lieto, certo no.  Eppure la Storia mi ha insegnato, o dovrebbe, che il buon tempo antico non è mai esistito, almeno non in quel segmento in cui un uomo comune vive sulla terra.


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