Mulattiere e sentieri della Muggiasca di ieri
Memorie…ricordi
di Floriano Pirola
La memoria sarà un’atmosfera e i ricordi, non altrettanto suggestivi , saranno quasi una specie di presente
retrodatato, in cui gli eventi vengono resuscitati e rivissuti com’erano e come
non possono più essere; ma nella mia mente essi non sono così facilmente
divisibili.
E mi auguro che altrettanto sia per altri in questo momento
in cui la vita intorno a noi si rincorre al pari di un cane che cerchi
disperatamente la propria coda senza comprendere, nel suo vorticoso ruotare,
non soltanto dove essa sia, ma, forse, neppure più che cosa essa sia realmente.
Mentre il segmento dell’esistenza nostra sulla terra è
segnato sempre dall’ora che fugge.
Stamane era un
fanciullo, e or son vecchio, scriveva il Petrarca.
E La bellezza delle
cose non è tale se non a chi la percepisce; e la capacità di percepirla s’accresce
con l’arte, cioè coll’osservare e col
meditare, scrisse il Rosmini.
Nell’un pensiero e nell’altro traggono sostegno queste mie
memorie e questi miei ricordi che
iniziano da quel mercoledì, 6 giugno 1934: avevo sei
anni.
Quella mattina, insieme alle nostre mamme Enrico Teruzzi ed
io, dopo aver percorso in auto le strade di Brianza, la statale da Lecco lungo
il lago di Como fino a Bellano e da qui salendo il versante sud del Monte Croce
di Muggio posai per la prima volta lo sguardo sulla Muggiasca, anticamente il
nome di Vendrogno, poi capoluogo della medesima. In quell’aria
pulita si diffondevano rintocchi di campane.
Questo primo incontro avvenne sul piazzale del santuario della
Madonna di Loreto, che tutti chiamavano “Madonnina”, alta sullo Zucco. Dinanzi alla chiesa una colonna ricorda il
voto di quella comunità al tempo della peste manzoniana dalla quale essa uscì
indenne. Al di là del muretto tutt’intorno al piazzale la visione spaziava dal
Pizzo di Parlasco alla cuspide rocciosa della Grigna. Tra le forre il vento
rotolava a fondovalle. Dove nella valle Muggiasca in cui sprofonda, il torrente
Pioverna, detto il fiume della Valsassina, si snodava invisibile fino al
piccolo piano sul quale si distende Bellano, dividendolo, prima di disperdere
le sue acque nel Lario ubique pellucidum, ovunque scintillante.
Mi furono a lungo compagne immagini cariche di luce in un
mare di verde sotto un cielo terso e un silenzio violato solo dal suono delle
campane, dai lampi e dai tuoni dei temporali.
In seguito mi domandai come poteva presentarsi agli occhi di
quegli abitanti questo panorama quando la chiesa della Madonnina venne edificata.
Nelle estati dei dieci anni che seguirono nel vicolo
centrale di Vendrogno, non lontano dalla chiesa di San Antonio, che sulla
facciata conservava un affresco cinquecentesco della Casa di Loreto, bevvi alla
fontanella l’acqua di San Carlo,
freschissima e, da una fonte che sgorgava nel territorio di Inesio, acqua
ferruginosa.
La natura rivestì ogni mio pensiero; penetrai nei numerosi
boschi invadenti, ai cui margini sopravvivevano gli antichi terrazzamenti
definiti “uno dei capolavori della fatica contadina”, attorno ai minuscoli centri demici composti di vicoli
angusti e di edilizia rustica, fatta di sassi sconnessi e di pietre debordanti.
Così Mosnico, Mornico, Sanico, Inesio e Comasira, la frazione più bassa di
Muggiasca collocata su un ripiano sopra la valle del Pioverna.
Ma pure da Bellano per la mulattiera fino a Lézzeno,
passando accanto al Santuario della Madonna della lacrime edificato agli inizi
del Settecento, ad Ombriaco, e all’
ultima frazione, Pradello, la parte più alta di Bellano al confine con la
Muggiasca. E che, con Enrico o Lorenzo Marcati, facevo a
gara a percorrerla in discesa in un tempo non superiore ai… dieci minuti.
Conobbi alberi diversi fra i quali primeggiava il castagno,
e ai loro piedi eriche, felci, lecci e molti altri arbusti. Ho corso per prati
tra erbe dai colori brillanti e delicati profumi, fra narcisi e…ortiche dagli
umori irritanti. Mi inerpicai per quei pendii
fra trasparenti e gelidi ruscelletti fino ai pascoli brulli sui quali
mandrie di mucche che con i loro campanacci penzolanti dal collo comunicavano i
loro spostamenti al mandriano, mentre nugoli di tafani le assalivano avidi e
balordi fra il loro scuotersi nervoso.
Dai fondovalle ammirai le cime e dalle cime rimirai la
Muggiasca. In particolare dal Monte Croce di Muggio, allora per me quasi sacro,
che digrada verso la Muggiasca, nel suo intreccio di visioni alpestri e lacuali.
Il suo versante a settentrione che scende nella Valle del Varrone, più aspro e boscoso
per risalire il Monte Legnone. A meridione sovrasta la Grigna Settentrionale,
laggiù, a oriente, s’impone il Pizzo dei Tre Signori e a ponente i laghi di
Como e di Lugano sotto un cielo di un azzurro intenso. Il Monte Muggio, é
isolato da altri monti e domina tre valli che formano la Valsassina fra il
corso del Pioverna, il corso del Vallone e la convalle della Maladiga. Il
versante occidentale scende a formare la sponda del Lario da Bellano a Dervio,
mentre sui versanti orientale e meridionale si stendono i pascoli. Le pendici a
occidente e settentrione sono in parte coperte da vaste macchie di arbusti, le
falde a mezzogiorno e a settentrione sono lambite dal Pioverna e dal Varrone e
scendono ripide in profonde forre. Dallo stesso Monte Muggio si abbraccia uno
scorcio del Lario; mentre dai pascoli dalla parte opposta dell’alpeggio di
Giumello, circondato da montagne, i villaggi di Val Varrone sulle falde del
Legnone. Visioni che affascinano, sublimi, nei dì di sole.
A scuola ne alimentarono il fascino, la sacralità Plinio e
Virgilio che si erano estasiati dinanzi al bacino lacustre abduano. Meravigliosa,
magica era quella luminosità che dava risalto ai grandiosi panorami che si
spalancavano sul Lario e sui monti che ad esso facevano corona. Nelle giornate
di vento già dall’isolato promontorio sul quale sorgeva la chiesetta dedicata a
San Grato e dai prati sottostanti sui quali si posavano talvolta grossi falchi,
si scorgeva, oltre il lago di Lugano, il Monte Rosa, in un’orizzonte, per i
miei occhi, senza fine. E, rivolto il mio sguardo verso il basso, a sud, seguivo
ogni volta la sinuosa valle nella quale il Pioverna, passato l’Orrido di Bellano, in una lingua di
terra si perdeva nel Lago. Nella mia memoria sono impresse quelle visioni che
mutavano da un punto all’altro della montagna. Nei miei occhi, invece, che gli
anni e le antiche carte hanno reso stanchi, scorre, come in un trasparente,
quella vegetazione che ricopriva i fianchi dei monti, qui abbondante e
lussureggiante e là scarsa. In particolare sulle terrazze, quelle piccole strisce
di terra spianate dalle fatiche di innumerevoli e dimenticate generazioni che
diedero vita anche alle mulattiere. Sugli alberi e sugli arbusti disseminati in
ogni parte i movimenti e i versi degli uccelli si fondevano e si confondevano
con lo strusciare del vento o lo stormire delle fronde.
Ma i canti, i suoni di armoniche e fisarmoniche che davano
vita alle valli e che ancora mi risuonano negli orecchi…dove sono? E lo
scampanio, che levandosi dai campanili delle chiesette, adagiate ai limiti dei
grandi e naturali rilievi del terreno, ad iniziare dalla Madonnina a San
Lorenzo, la parrocchiale di Muggiasca, ricordata nel Liber Notitiae Sanctorum
Mediolani del secolo XIII, si diffondeva per le valli nelle giornate di sole in
cui il vento scompigliava quella distesa infinita di verde e…i miei capelli; si
addentrava tra le forre, mentre movimentava nel cielo i cirri e le nuvole più
basse fin sopra la Grigna da cui nei pomeriggi d’estate nascevano spesso i
temporali. In quel profondo azzurro le
nubi si alternavano biancheggianti nelle forme più varie. Ma pure il mio:
CRUCCIO
I
miei occhi corrono dalla valle - alle nuvole che incupiscono nel cielo - in
mille forme bizzarre.
Le
mie orecchie sentono la cornacchia - gracchiare nel vuoto - e il silenzio delle
piante
immobili
- in un verde prigioniero di mille goccioline - affamate di sole.
Un
letamaio è vicino - e, dietro, un gatto nero- si sfrega con le zampine i baffi
come
un bimbo che si lavi.
Odore
d’acqua- porta un leggero vento - e dal torrente salgono al monte
bianchi
sbuffi di fumo.
Laggiù-
il cimitero tra le sue lapidi- tace - e il mio sguardo sale verso le cime dei
monti
e non mi dà pace.
In quel mondo trascorsi quelle
estati. Furono gli unici anni che mi levai al canto del gallo, camminai tra il
frinire delle cicale e mi coricai al primo stridere dei grilli. I segni incisi
in quegli anni nella mia memoria, uno dopo l’altro, uno accanto all’altro, e
molti liberi, si agitano di tanto in tanto, come in uno dei piccoli
caleidoscopi della mia infanzia. Dal Collegio Giglio, sorto alla fine
dell’Ottocento e affidato ai Salesiani nel 1939, che durante la seconda guerra
mondiale utilizzarono per le loro scuole, reggendo pure le due parrocchie della
Muggiasca.
Qualche volta li sovrasta il
disegno di un abitato nel quale i pochi rumori che si levavano intorno si
perdevano nella cornice di azzurro, di verde e di luminosità cui faceva da
sfondo la sagoma dei monti, non di rado emblematica per la gente del posto e,
soprattutto, per noi bambini. Come il frate
e la monaca, parte caratteristica
del pizzo di Parlasco. Su di esso, una notte di luna, afosa, tanto che
scendendo dall’abitato di Vendrogno al piazzale della Madonnina e fin quasi a
Comasira la gente a mezzanotte andava in cerca di un po’ di frescura, un Salesiano, Enrico ed
io, partiti per raggiungere la Grigna,
ci perdemmo nel buio inerpicandoci tra sterpi e sassi e fummo costretti ad
arrestarci causa il terreno impervio fin che sopra i monti non si diffusero le
prime luci del giorno. Era il 25 luglio del 1943 quando il Gran Consiglio del
Fascismo defenestrò Mussolini.
Le sequenze sulla pellicola del mio
freudiano interno paese straniero sono numerose e richiederebbero uno spazio in
più per la memoria e i ricordi per meglio visionarle alla moviola del tempo presente.
Molte di quelle immagini sono
legate alle vie di comunicazione di ieri: le mulattiere e i sentieri.
Mulattiere e sentieri che collegavano Bellano a Vendrogno, Noceno, Taceno,
Narro, e le loro frazioni, su fino alla Capanna Vittoria dalla quale si poteva
meglio ammirare il crocione del Monte Muggio. Quegli spazi aperti al passaggio,
inizialmente scavati nei monti dalle acque e con tanta cura mantenuti
praticabili nel loro acciottolato da uomini laboriosi, instancabili, che per
secoli esercitarono la pazienza e non rifuggirono mai dalla fatica. Furono sin dai tempi più remoti sentieri,
viottoli, spesso tortuosi a seconda dello sporgere e del rientrare della
montagna, attraverso i quali le genti che vi vissero comunicarono prima e dopo
l’arrivo delle legioni di Roma. Ne conobbi alcune con il nome di mulattiere, che le persone colte
nell’Ottocento chiamarono mollettiere.
Fu, infatti, solo con la prima guerra mondiale che s’incominciò a chiamarle
mulattiere essendosi il loro uso diffuso tra i meno colti.
Prima del Seicento prevalevano i
sentieri, forse con solo pochi tratti particolari acciottolati, che per quelle
popolazioni erano indispensabili.
Ma chi oggi si immagina quali e
quanti lavori furono necessari per realizzare una mulattiera e per mantenerla agibile
in ogni stagione? Sterrare con picconi levando da una parte con badili e mani
terra e roccia per scaricarle con ceste da un’altra, per fare il piano o per
migliorare l’esistente; predisporre cordoni di pietra, gradini più o meno alti
per attraversarlo simili a spine dorsali in grado di tenere insieme le varie
porzioni di acciottolato, specialmente negli abitati, fatto di sassi, ciottoli
presi dai torrenti, saldamente connessi gli uni agli altri; per comporre una
pavimentazione capace di resistere all’usura provocata dal passaggio dell’uomo
con o senza mulo o trainante lui o lei grosse fascine di legna; dalle
intemperie e dallo scorrere delle acque nei periodi di piogge. Pur con lo
scarso denaro di cui potevano disporre, quelle comunità, con l’aiuto di qualche
persona benestante o per solidarietà di comunità vicine, riuscivano a rimediare
picconieri, spaccapietre e scalpellini per dare misure giuste alle pietre.
Qualche cronaca locale, ricavata anche da registri parrocchiali, accenna al
capitolo delle comunicazioni, sotto la voce di lavorerio, come si usava dire, del fervore di opere cui partecipava
collettivamente ogni popolazione montana nella realizzazione di quelle erte
stradicciole acciottolate. Per quelle mulattiere, scarponi o pedule ai piedi a secondo della mèta e
della stagione, zaino in spalla salivo respirando a pieni polmoni. Raro il fumo
di sterpaglie bruciate, circoscritto l’odore proveniente da qualche deposito di
stallatico fumante.
Su di esse iniziai presto a
domandarmi: chi sarà passato di qui in secoli lontani, che cosa avrà visto che io non possa più vedere? Poi mi
accompagnarono le letture che divoravo nel tempo libero. E quanto da qualche
lettura apprendevo non sempre mi lasciava interiormente tranquillo. Anche se
quel vivere pericolosamente che
riempiva ai miei tempi le aule scolastiche non sempre me lo faceva esternare.
Tra le “Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe dalla più
remota età fino all’anno 1844” di Giuseppe Arrigoni mi colpì quella relativa
alla presenza, agli inizi del Seicento,
di torme di lupi ed orsi. In seguito appresi che lupi e orsi infestarono
la Valsassina già nel Trecento, ma che ancora nel Settecento non erano del tutto scomparsi. Come l’orso
ucciso nel 1760 sui monti di Indovero e Narro in località, dove si dice alla piazza di Ortiglara e un altro, dal pelo grigio,
quattro anni dopo ucciso sui monti della Muggiasca. Ma casi simili accaduti in
tempi successivi costellavano i racconti dei più anziani. Tanto che qualche
volta avventurandomi solo per quei sentieri e in quei boschi, quando il
silenzio, mai più ritrovato, che mi accompagnava, veniva rotto da un saltellare
più marcato delle acque limpide dei ruscelli, da un canto di uccello a me
sconosciuto o dall’ululare lontano di cane, suscitava in me un vago timore.
Ancora non sapevo che i lupi in Valsassina si trovavano oramai tra le carte
polverose degli archivi. Ma mi risonava negli orecchi quel vivere pericolosamente e non ne parlavo: pena, essere messo in
celia. E pure quello non mi piaceva.
Di quelle mulattiere, di quei
sentieri più indicato a parlare sarebbe un novello Antonio Balbiani. Uno
scrittore calato nella vita di quegli anni, che certo neppure più erano quelli
in cui immerse nelle mille pagine, in tre volumi, il tempo nel quale agì
“Lasco, il bandito della Valsassina”. Opera data alle stampe sessant’anni dopo
i Promessi sposi. Per me di quegli anni non sono sopravvissuti che frammenti di
memoria che i rovi graffianti dell’esistenza non hanno ancora cancellato. Fra
essi se ne inserisce uno sui sentieri che portavano dall’Alpe di Giumello con i
pascoli attorno all’ombrosa mulattiera che da Narro scendeva fino al Mulino in quel di Vendrogno. La fine
dell’estate del 1943 non era molto lontana, ma ancora le giornate erano piene
di luce. Da noi ragazzi il tempo si misurava dalla luce e dal buio, non dallo
spostamento delle lancette sul quadrante dell’orologio. Da un po’ di giorni,
nel pomeriggio, si udivano rombare sopra di noi i motori di un aereo che volava
verso monte Muggio, volteggiando. Sull’alpeggio di Giumello, circondato da
montagne, il tramonto in cui la mandria si avvia verso la malga era ancora
lontano. “La balconata dell’Alpe di Giumello si prestava per paracadutare da
aerei sia merci che uomini”, qualcuno mi aveva detto. E ciò mi aveva
incuriosito.
Quel pomeriggio, consumato il pasto
del mezzogiorno, invece di incontrarmi con Enrico e Lorenzo tra i sassi e
l’acqua del Mulino, decisi di imboccare la mulattiera per San Grato, che
superai in breve, inoltrandomi sul sentiero alla mia destra fin che,
oltrepassata la fonte dalla quale si abbeveravano pure i passanti, m’inerpicai
diretto all’Alpe di Giumello. Faceva ancora caldo e sudavo: la vegetazione si
faceva sempre più rada, perdendosi fra piccoli arbusti, ciuffi d’erba e terra. Mi
ritrovai su un sentiero solitario, pochi gli alberi, e là, dove arrivava lo
sguardo, vecchie baite. Anche quel
giorno, nel primo pomeriggio, un aereo aveva eseguito gli stessi movimenti.
Quando arrivai sul pianoro udii in lontananza il suono dei campanacci delle
mucche al pascolo: Camaggiore con
qualche rustico alpeggio. Mentre a un centinaio di metri mi apparvero le
figure di un uomo che mi sembrò un mandriano e di un frate. Avvicinandomi, il mandriano si diresse verso
il monte. Il frate, che visto più da vicino giudicai sulla trentina, il viso
incorniciato da una barba un po’ trascurata, sollevò da terra una bisaccia
ponendosela sulla spalla sinistra. E nei suoi sandali mosse verso Narro.
Un’ immagine che in quello spazio
aperto era un po’ fuori dalla sua cornice. E tale rimase lasciandomi con lo
sguardo al paesaggio sottostante, mentre il vento mi asciugava il sudore
provocato dalla salita.
Con il trascorrere degli anni anche
questo frammento di memoria ha perso più di un contorno. Un po’ come quei lenti
pendii naturali trasformati in terrazzi dove si coltivava in particolare la
vite, oggi quasi tutti abbandonati, quei bei prati con le loro erbe che
brillavano al sole. Come quei sentieri, quelle mulattiere, che, anno dopo anno,
asfalto dilagante, il piede dell’uomo calcò sempre meno, posato sempre più
sull’acceleratore dell’automobile.
Non mi rimane che concludere, non
sarà positivo ma è realistico, unicuique suum, parafrasando Cicerone nel suo De
natura deorum. Anche se non so bene con quale animo: lieto, certo no. Eppure la Storia mi ha insegnato, o dovrebbe,
che il buon tempo antico non è mai esistito, almeno non in quel segmento in cui
un uomo comune vive sulla terra.
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