sabato 16 aprile 2016

Il ferroviere, cronaca d'un viaggio, 1945

Sabato, 14 luglio 1945
Chi lo aveva visto per primo? Chi per primo aveva gridato:”E’ una carogna d’un fascista, ammazziamolo!” ?
Entravo proprio in quel momento nella stazioncina di Bellano sul lago di Como. Ancora ansimante per la corsa giù per la mulattiera da Vendrogno a Bellano, passando per Ombriaco e Lezzeno senza quasi vederli, anzi senza proprio averli visti.
Ma quelle parole le sentii molto chiaramente anche nel bofonchiare della vaporiera. Il convoglio proveniva da Colico diretto a Milano. E i suoi carri bestiame, utilizzati per il trasporto  di persone, erano quasi vuoti. Accanto ad essi, che il tempo e la guerra avevano segnato e alla locomotiva a vapore, fumante, un po’ di gente si agitava.
L’aria quel pomeriggio era certo più pesante che non in qualche bosco su verso l’Orrido o giù in riva al lago.
“E’ là, ammazzalo!” gridavano, ora, più voci insieme.
Mi diressi pur io là dove si levavano quelle voci. E vidi l’uomo.  Barba lunga, incolta, un paio di pantaloni e un camiciotto sporchi, in alcuni punti laceri, e un tascapane a tracolla. Con un braccio piegato contro la parete di uno di quei carri, gli occhi sbarrati, il viso contratto e una mano affondata in una tasca dei pantaloni dove stringeva, lo si notava bene, convulsamente un oggetto.
“E’ armato! Facciamolo fuori!”, fu un urlo quasi corale.  Un uomo trasse di tasca una pistola, mandò il colpo in canna e gli intimò:”Scendi!”.
Un tuono lontano lacerò l’afa che incombeva sulla valle in cui il torrente Pioverna rotola al lago.  Alcune raffiche di vento scomposero le pianticelle, mezzo avvizzite nella calura estiva, che fiancheggiavano la piccola stazione. Grosse nubi nere, minacciose, scorazzavano nel cielo.
L’uomo che si era aggrappato ai respingenti dei due carri bestiame si scosse all’ordine gridatogli dal giovane: si piegò nell’atto di saltare a terra, sempre tenendo una mano in tasca.
Uno dei presenti lo afferrò all’improvviso per un braccio e lui cadde pesantemente sopra i ciottoli sparsi fra le rotaie. “Macchinista, fa andare il treno!” si levò acutissima la voce di una donna scarmigliata, la quale d’un balzo fu sopra l’uomo dalla lunga barba colpendolo con due calci in volto. “Maledetto! Anche tu hai aiutato a uccidere mio figlio! Che aspetti? Sparagli! continuò implorante, rivolta a colui che agitava la pistola.
Si respirava aria di tragedia. Mi sembrava di essere ritornato a fine aprile quando a Milano avevo visto per le strade casi simili finiti nel sangue. L’eccitazione era negli occhi di tutti i presenti, quasi per un contagio, ora come allora. Non era difficile che un proiettile raggiungesse colui il quale veniva a contatto con quella rabbia. Che aveva prodotto casi che, meglio è non nominare. E come era accaduto ripetutamente pure nel tempo che aveva preceduto la fine del conflitto. 
Ad un tratto un giovane ferroviere si fece largo fra quegli scalmanati.
Qualcuno gridò: “E’ uno sporco fascista! Mettiamolo al muro!”
Ma la voce del ferroviere si fece sentire più forte: “Siamo diventati matti, adesso!?”
Replicò uno fra la piccola folla che si era radunata lungo la stazioncina:” Sei un suo camerata, forse? Vuoi proprio finire tu pure contro un muro!?”
“Silenzio! Urlò allora il giovane ferroviere tutto roso in volto. Anch’io sono stato partigiano e ho combattuto i fascisti proprio sui monti”, proseguì allungando un braccio nella direzione  dei monti a settentrione. “E se è il caso di sistemare le cose non sono io che mi tiro indietro. Ma non senza sentire chi è davvero costui!”
Dal fondo della stazioncina arrivò ancora una voce:” Su, basta! Non perdiamo più tempo! Facciamola finita! Scostati tu!”
Il ferroviere allora si lanciò accanto all’uomo che giaceva per terra con lo sguardo allucinato.
Due ragazzotti gli furono addosso prendendolo a pugni. Egli reagì, e dopo averli scaraventati l’uno contro l’altro, afferrò un tubo di metallo, abbandonato su un lato del Vespasiano della stazione, con voce minacciosa si rivolse a quegli scalmanati:”Ho detto basta! Prima dobbiamo accertarsi chi sia veramente questo qui.  Sono io il responsabile di questo treno!... Indietro!”
Nessuno parlò più e la piccola folla incominciò a disperdersi.
Altre folate di vento, un altro tuono e il sole scomparve fra grossi nuvoloni neri.
Svelto il ferroviere incitò a muoversi, sospinse, trascinò sul carro più vicino quell’ombra d’uomo sottratto alla folla. Un minuscolo gruppo si avvicinò al carro, vociando.
Dopo un istante, appoggiandosi all’asta di ferro che divideva a mezzo la porta del carro, mostrò loro una tessera, forse sua, un foglio e spiegò loro che quell’uomo era un poveraccio, e. abbassando il suo tono di voce, un demente. Mentre con una mano si asciugava il sudore che gli colava dalla fronte. Su quei volti l’incredulità si sparse sopra l’ira non del tutto scomparsa.
Il ferroviere si sporse dal carro e gridò: “Siamo in ritardo…Si parte, via!”.
Uno scroscio di pioggia si rovesciò su ciò che era rimasto della piccola folla, sollevando bolle nella polvere. Un fischio prolungato e il convoglio si mosse sbuffando.
Vento, tuoni e acqua si mescolarono nell’aria e dalla terra incominciò a sollevarsi il calore dell’estate.
Dire come abbia fatto a montare proprio su quel carro non lo so; ma sono un ragazzo e un ragazzo può fare a volte anche ciò che gli adulti non possono più.
L’uomo dalla barba incolta si era buttato in un angolo del carro e, ora, non mi sembrava più spaventato. Anche se nei suoi occhi si coglieva un che di strano. Il ferroviere gli stava di fronte, voltandomi le spalle. Gli sentii chiedere notizie, quasi esigere spiegazioni del perché si comportasse così.  Mentre quello taceva. Solo dopo un po’ dalla mano che teneva nella tasca dei pantaloni comparve un cucchiaio, che lui continuava a stringere convulsamente.
Seguì qualche parola, in modo confuso nel buio fra una galleria e l’altra. Ma che mi consentì di comprendere realmente chi egli era. Un reduce da un campo di concentramento, che arrivato, con difficoltà al paese dal quale era stato strappato alla famiglia, da qui era ripartito, con la mente naufragata in un mondo sconosciuto, dopo avere appreso che i suoi erano morti bruciati in una baita nel corso di un rastrellamento delle brigate nere.
Il ferroviere, udita la storia, si volse.  Mi vide?  Dall’espressione del suo viso non compresi; ma non mi parve più lo stesso individuo.   
Ad  ogni fermata del treno egli tornava a dare un’occhiata al poveretto che, nel frattempo, si era addormentato nell’angolo in cui si era accovacciato.
Arrivati alla stazione di Lecco il ferroviere fece di nuovo la sua apparizione sul carro bestiame. Lo svegliò, gli sussurrò qualcosa all’orecchio e l’uomo, alzatosi a fatica, strascicò i piedi, si sedette davanti all’apertura del carro e con lui saltò a terra.
Il convoglio proseguì, quindi, nel suo sferragliare assordante, fin che, superati gli ultimi colli, si immerse nella pianura che già affogava nell’afa , disperdendovi il fumo nero che la vaporiera lasciava, a tratti, dietro di sé, insieme ai suoi laceranti fischi.
Floriano Pirola      






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