I DE CAPITANI DI SCALVE
Principio e fine di un Casato
Principio e fine di un Casato
Se per il genealogista la metodologia generale
e le sue problematiche rappresentano le regole di ogni sua ricerca, non
altrettanto si è sempre verificato, scrive Dante Zanetti, per i genealogisti che nei
secoli lo hanno preceduto:
“…genealogisti di tutti i tempi hanno cercato di ricostruire, generazione dopo generazione, le vicende di famiglie ricche e potenti. Ma il loro impegno si era esercitato specialmente nella ricerca di motivi encomiastici e nella illustrazione di vicende patrimoniali, particolari araldici e simili, accogliendo spesso con eccessiva disinvoltura quanto servisse al loro intento apologetico e scartando ciò che vi contrastasse…”[1]
Lo storico oggi rilegge i documenti esistenti
con uno sguardo nuovo, tenendo conto anche del mutamento della scansione del
sapere, con una nuova griglia
interpretativa.
Nel tempo in cui si formarono le genealogie come
quella in esame a ciò provvedevano, nella maggior parte dei casi, scrittori
mercenari. Ai quali si affidavano, salvo rare eccezioni, documenti apocrifi e
biografie celebrative, dipanate all’interno di quelle classi emergenti, di cui
l’ignoranza e la miseria della popolazione, che le circondava, favorivano
l’avallo.
Per questo il Manaresi suggeriva, a quegli
storici che alla genealogia si volevano dedicare, uno studio sistematico dei
prefissi d’onore dominus, ser e don[2]
sottolineando: “…oltre che nei riguardi storici un tale studio potrebbe
riuscire interessante anche nei riguardi araldici, poiché in Lombardia, come
altrove, sull’uso dei prefissi d’onore si fonda in una grande quantità di casi
la prova principale pel riconoscimento di nobiltà…i prefissi settecenteschi non
hanno (già) più il valore di quelli del Cinquecento. Nel Cinquecento, dal più
al meno, se si fa eccezione degli abusi lamentati anche dal Collegio dei
Giurisperiti, i prefissi d’onore stanno ad indicare nella persona che ne è contraddistinta
la condizione nobiliare non disgiunta da una agiatezza che le consente di
vivere more nobilium; nel Settecento,
invece, essendo ormai troppo remote le origini della nobiltà, i prefissi d’onore si attribuiscono con una certa
facilità anche a persone la nobiltà della cui famiglia è tutt’altro che
provata…
Ma fortunatamente nella seconda metà del
Settecento un fatto nuovo doveva togliere definitivamente ogni valore ai
prefissi d’onore… Voglio alludere all’obbligo fatto da Maria Teresa a tutti i
nobili e titolati di provare con documenti autentici dinanzi al Tribunale
Araldico, istituito nel 1768, i propri diritti nobiliari…”. Perdettero così “ ogni valore gli appellativi
dati dai notai e dai pubblici ufficiali se le persone alle quali venivano attribuiti
non avevano saputo ottenerne il riconoscimento dal competente Tribunale
Araldico”.[3]
Prete Giovanni Battista Angelini, dal canto suo,
riscontrò nelle carte di Bergamo del XIII secolo che “il titolo di domine si diede in quel secolo a quelle
persone che erano dell’ordine consolare di giustizia e de’ giudici e de’
cavalieri chiamati militi, de’ dottori fisici detti domini maestri, degli
anziani, de’ sapienti, degli assessori dei podestà, de’ podestà medesimi,
benchè la podesteria fosse la prima carica della città e una specie di breve
principato, e se si legge il titolo di nobile signore dato a qualche soggetto
in quel secolo in cui anche il titolo di domine
era usato con limitazione nelli soli soprannominati, si può notare qual
distintivo rarissimo in alcune delle famiglie o persone de’…”[4]
E quello che l’Angelini disse per Bergamo, secondo
il Manaresi, vale in genere anche per
altre città lombarde, Milano compresa.
“…schematizzando al massimo, potremmo dire che tra l’inizio del
Cinquecento e la metà del Settecento la nobiltà milanese fu caratterizzata da
un triplice registro di distinzione: in primo luogo vi era un tipo di distinzione nobiliare legata, almeno
apparentemente, alla residenza, cioè al fatto di abitare entro le mura del
comune cittadino: in realtà l’origine di questo tipo di nobiltà risaliva alle
vicende politiche dell’età comunale e all’appartenenza alle diverse fazioni che
avevano caratterizzato l’epoca…accanto a questa, in età spagnola coesistette
una forma di distinzione nobiliare che poteva dirsi un’eredità del periodo
visconteo-sforzesco. Si trattava di una nobiltà legata alla nobiltà terriera e
all’egemonia politica signorile e fu legata alla corte dei Visconti e degli
Sforza; pertanto caratterizzò le famiglie nobilitatesi grazie al favore del
principe durante l’epoca ducale…
Da qui era sorta una nobiltà che, rispetto a
quella cittadina di epoca comunale, poteva essere definita nuova e feudale, perché scaturita dalla concessione di investiture feudali,
ma anche cortigiana per il rapporto particolare che la legava ai principi, e
dunque perché strettamente legata alle corti instaurate a Milano dalle dinastie
signorili…
Infine, nel Seicento, si venne profilando una
distinzione legata alla ricchezza, che caratterizzò le famiglie nobilitatesi
grazie alle necessità finanziarie, ma non solo, della Monarchia Cattolica, cioè
della Spagna, prima, e della Monarchia Asburgica poi…
Quindi, partendo da esigenze di vario tipo, fu
approntata l’alienazione di terre, ovvero di feudi, su cui si poterono appoggiare,
con ulteriore esborso di danaro, titoli nobiliari tanto più prestigiosi quanto
più importanti erano i feudi…”[5]
Ne consegue che le notizie arrivate sino a noi
sulla famiglia dei Capitani di Scalve, che sarebbe stata originaria di Locarno,
andavano verificate.
Ed è quello che ho fatto, nei limiti in cui può
essere ancora possibile farlo, avvalendomi anche delle fonti genealogiche della
nobiltà milanese e lombarda, edite ed inedite. Unite a ricerche in più
direzioni: per strade già battute e per altre nuove, senza trascurare quelle,
negli anni, intraprese presso archivi di famiglie legate ai de Capitani di
Scalve da rapporti di parentela; di istituzioni ecclesiastiche; e così pure
presso Biblioteche e nella parte antica del Fondo Araldica.[6]
Non distogliendo lo sguardo da una storia non
automatica, bensì problematica, per quello che il tema e la documentazione
reperita lo consentono.
Ma, ecco, innanzi tutto, in un minimo di cornice
cronologica, da quale albero sarebbe germogliato, secondo una Genealogia
settecentesca accreditata dalla famiglia de Capitani, il ramo di Scalve a
Milano dal periodo sforzesco.
Feudalesimo
laico
“Carlo Magno aveva alzato il feudo; ma quando
questo istituto aveva minacciato di sopraffare l’impero gli Ottoni avevano
reagito innalzando e diffondendo i poteri temporali degli ecclesiastici,
nell’intento di deprimere quelli dei laici.
Divenuta presto temibile anche la stessa potenza
ecclesiastica, gli imperatori cominciarono ad orientarsi verso i ceti sociali
gradatamente sottostanti. Per ricostruire le basi dell’impero, si cominciava a
cercare un appoggio più in basso”.[7]
Per quel che riguarda il sistema feudale
sappiamo che era caratterizzato da una struttura gerarchica a forma di
piramide. Alla sommità della quale stavano i principi, cioè duchi, marchesi e
conti; venivano quindi i capitani, valvassores maiores, che possedevano una
circoscrizione della contea (titolare di un feudo in capite, vale a dire di un feudo concessogli direttamente dal
principe) e seguivano i valvassori, vassalli del vassallo del re, titolari di
un feudo solitamente costituito da un castello loro concesso dal capitano; ed,
infine, sotto di essi stavano i valvassini.
Ma questo sistema, al pari di ogni cosa umana,
non rimase, come sintetizza la Zanetti, immobile. Non solo, esso, in momenti
diversi, non può essere sempre facilmente inquadrato nello schema appena sopra
delineato.
Si tratta, insomma, di un fenomeno molto
complesso che produsse un nuovo assestamento sociale importante per il futuro
dell’Europa occidentale, partendo dalla commendazione e dal rapporto
beneficiario.
Ottone I, il grande, succeduto al padre Enrico
I, re di Germania, ricevuta la corona imperiale in Roma da papa Giovanni XII donando
ai vescovi, presenti all’incoronazione, castelli di cui disponeva in Italia non
segnò ancora la fine del feudalesimo laico. Ma i castelli, con le terre
annesse, costituirono buona parte della proprietà fondiaria di quei vescovi e
diedero vita all’infeudamento delle pievi.
I Capitani di Sondrio sosterranno di avere
ricevuto dal primo Ottone l’investitura.[8]
Il Bognetti scrive al riguardo:” Però se in
alcuni casi il nome coincide col capopieve, in certi casi il predicato di
capitanei, pur dotati di decima nella rispettiva pieve, deriva appunto da
quello di un castello, ben distinti dalla località pievana.” “…tutto indica la persistente funzione
militare dei capitanei, anche quando ricevettero le pievi, il loro predicato
feudale si riferì per lo più ad un castello compreso nella pieve ma distinto
dalla chiesa battesimale…I capitanei erano, relativamente, forza nuova, come ci
dice anche Landolfo seniore…la funzione dei capitanei collocati dal vescovo o
divenuti (in quella crisi che replicatamente pose fuori legge conti e marchesi
dichiaratisi contro il sovrano) vassalli del vescovo fedele al sovrano
legittimo…”[9]
La famiglia di Locarno ed i Capitanei da Sondrio
Tra il Codex
diplomaticus Capitaneorum locarnensium del de Muralt, ristampato dal Besta[10]
con la versione della medesima cronaca,
e la Genealogia dei Capitani di
Scalve l’unico punto in comune è quello della presunta località di partenza:
Locarno.
La Genealogia
dei Capitani di Scalve parte non da Viviano e da suo figlio Alberto che
nell’anno 961 fu in Festo hastiludii
Mediolani, nominata pure dal Besta, bensì dopo la caduta dell’Impero
romano.
Quali conclusioni si possono trarre da quanto è
scritto nella Genealogia, dinanzi a
tradizione popolare e cronaca leggendaria, sapendo che i documenti arrivati a
noi relativi alla costituzione del capitaneato, e non certamente solo quelli, sono assai spesso lacunosi?
E come ignorare la fluttuazione feudale delle
fonti di potere e dei loro effetti giuridici e fiscali e la grande elasticità
nell’interpretazione dei diplomi e della loro esecuzione?
Non ci rimane, allora, che una cronaca, punteggiata da leggende,
riguardante la famiglia locarnese, di origine franca, che la tradizione estese ai capitanei di
Sondrio ed a quelli della Valle di Scalve.
Insomma, quel Viviano di Roberto, disceso dal
paladino Orlando, esule per un amore contrastato a Locarno insieme al padre ed
ai fratelli Landolfo ed Aurelio, fuggiti dalla Francia per sfuggire alla morte,
direi che rientri più nelle leggende cavalleresche che non nella storia. E
neppure in leggende italiane perché questo mondo cavalleresco non era mai stato
in Italia che un mondo di fantasia e
visto da lontano. Da noi, difatti, non
vi fu un serio sentimento cavalleresco in grado di ispirare qualche cosa come
il Cid.
Per Alberto, figlio di Viviano, invece, che
sarebbe partito da Locarno, nel 961 al seguito di Ottone I, per partecipare al
torneo di Milano nel quale si sarebbe
distinto e l’imperatore, per questo, gli avrebbe donato pedaggi e terre in
Valtellina, abbiamo quanto hanno scritto gli studiosi di storia valtellinese.[11]
Ma non è
per niente facile per un ricercatore muoversi in una realtà di guerre,
di violenza, in una età di ferro; in
un paesaggio politico tra IX e X secolo solcato da intrecci di interessi
passati e recenti sparsi in carte raramente originali e spesso molto
controverse, con una marcata carenza di documentazione.
Se si
aggiunge che “verso la fine del secolo X, inoltre, non è da escludere neppure
l’influenza del vescovo di Bergamo”[12]…
le ombre, allora, crescono.
Ancora più quando tra gli storici che si sono
occupati della Valtellina vi è pure chi nega, come il Romegialli, che vi sia un
rapporto fra le famiglie locarnesi e i capitanei di Sondrio.[13]
La famiglia di Locarno, al contrario, continuerà
a fare ruotare tutto attorno ad Ottone I di Sassonia.
Egli era sceso in Italia nel 951 e si era fatto
proclamare re d’Italia in Pavia. Tornato in Germania a causa delle lotte civili
e del pericolo ungaro aveva lasciato in Italia quale vassallo Berengario.
Sconfitti gli Ungari, Ottone ridiscese in Italia nel 961 e l’anno seguente
ricevette la corona imperiale in Roma.
La politica dell’imperatore, come già ho
accennato, fu quella di sottrarsi allo strapotere dei grandi feudatari laici
sostituendoli con i vescovi senza ereditarietà personale e di conseguenza
sottoposti direttamente per la nomina
alla volontà imperiale.
Dai Carolingi ai re italici ed agli Ottoni nelle
mani dei vescovi si accumularono così enormi ricchezze. Essi per poter
mantenere e difendere l’immenso patrimonio affidarono nel contado i distretti
rurali delle pievi, infeudandone le decime ai capitanei plebum, scelti tra la
nobiltà rurale divenuta loro vassalla. E si delineò una nuova feudalità, non
più di carattere militare, ma soprattutto amministrativa, legata al vescovo.
“La feudalizzazione dell’attività
amministrativa, prevalendo sugli aspetti militari nella seconda metà del X
secolo, finì col permeare tutta la vita civile. Si ebbero varie nuove figure
giuridiche dei feudi, dall’amministrativo al patrimoniale, all’ecclesiastico,
per cui sotto i livelli feudali di primo rango pullulò ovunque una folla di
militi minori, di vicedomini, di visconti, di capitani, di valvassori e
valvassini, di gastaldi, di avvocati vescovili, con un processo sociale di
partecipazione, un vero e proprio assalto degli interessati, inteso a
frazionare il potere a loro vantaggio.”[14]
E le famiglie assunsero a loro patronimico il
nome dell’alto ufficio loro concesso. E tale cognome permarrà nel tempo.
“I capitanei di Sondrio lo furono anche di
Berbenno: essi così dominavano la via che dalle valli Madre, Cervia e Livrio
conduceva attraverso la valle Malenco e il valico del Muretto all’Engadina… I
trasferimenti dei capitaneati corrispondono anche all’accresciuta o diminuita
importanza delle singole pievi, per ragioni mercantili, demografiche, di
fortificazione. Così originariamente i capitanei dovettero avere la loro sede
in Berbenno, centro della pieve; ben presto prevalse nella medesima pieve
Sondrio, ed ecco i capitanei trasferirsi a Sondrio…Più in là i capitanei
s’impadroniscono della rocca di Stazzona e di altre che dominavano le vie verso
la Camonica o l’Engadina…
I capitanei di Sondrio, gli avvocati di Bormio,
i conti di Chiavenna sono dunque vassalli feudali minori che traggono
direttamente la loro autorità dall’imperatore e ne rappresentano e ne
esercitano i poteri, sia giudiziari, sia amministrativi in genere, nel quadro
della crisi che colpisce la grande feudalità e della frantumazione del
feudalesimo….”[15]
La Valle
di Scalve ed i Capitanei
La
tradizione confermerebbe che dai
Capitanei di Sondrio siano discesi i Capitanei di Scalve.
Questo
almeno si ricava dalla lettura della Tavola II “ Famiglia de’ Capitanei da
Sondrio”.
Ad ogni modo la valle di Scalve comprendeva “
anche l’alta Val Seriana, al di là del passo della Manina e la Valle di Belviso
valtellinese...”[16]
E’ un fatto che già nel 1026 il nome di Scalve
compare nel documento di cessione della Valle al vescovo di Bergamo da parte
dell’abate Regimerio del monastero di S. Martino di Tours; e poi ancora nel
1047 l’imperatore Enrico III usò il nome di Scalve nel suo privilegio…”. I
monaci di Tours, incontrate qui difficoltà amministrative e geografiche furono
spinti a scambiare queste proprietà con il vescovo di Bergamo, un Tornielli di
origini novaresi, il quale dette in cambio terre poste in Piemonte e nei
territori di Milano e di Pavia per l’estensione di circa 800 jugeri ossia,
secondo il Ronchetti, circa 7200 pertiche bergamasche, con case, servi, aldani
ecc.
E nel 1222 lo stesso vescovo ne investì due rami
della nobile famiglia dei Capitani che sborsò per tale investitura cento lire
imperiali, impegnandosi, inoltre, ad un canone annuo di lire 20 imperiali
pagabili la festa di S. Martino. E’ questo uno degli atti più importanti della
Valle, che diviene automaticamente, in virtù di questo scambio, proprietà del
vescovo di Bergamo. Le dificoltà amministrative e geografiche incontrate dai
monaci di Tours, possono essere state le stesse che decisero nel 1222 il
vescovo Giovanni a cedere il feudo della Valle alla nobile famiglia de’
Capitani da Scalve…[17]
L’investitura dei Capitani non era stata di
troppo gradimento agli Scalvini e d’altro lato pare che anche i nuovi Padroni
non seppero accattivarsi la simpatia, anzi, come annota il Grassi, seguendo il malcostume dei Signorelli di
quei tempi, usi a misurare la forza e non il diritto, eccitarono la pubblica
indignazione e poi l’aperta resistenza del Comune di Scalve; talchè cacciati i
loro espilatori, essi stessi furono
costretti ad allontanarsi dalla Valle.[18]
Alla fine, pro bono pacis et ad majorem Dei
gloriam, addì 3 marzo 1231 fu firmata una convenzione, con pubblico atto a
rogito di Giovanni Ferragalli notaio del Sacro Palazzo, nel palazzo del comune
di Almenno con la quale i Capitani cedono alla Comunità di Scalve,
rappresentata dai suoi stessi procuratori, tutti i diritti e le giurisdizioni
feudali ad essi spettanti in forza della perpetua locazione sottoscritta dal
vescovo Giovanni, ad eccezione della
decima del grano, del lino e della canape, e del tributo sul bestiame, cioè un
agnellino ogni dieci, d’un capretto ogni cinque e di un denaro per ogni
vitello… La Valle sborsò ai Capitani per il suo riscatto 2200 lire
imperiali e in più si caricò del canone di lire 20 da pagarsi al vescovo nella
festa di S. Martino…La Valle aveva così raggiunto la sua completa autonomia per
la quale si dibatteva da vari secoli…”
La famiglia dei Capitani era la più illustre e
ricca famiglia di Scalve, ammessa alla
cittadinanza di Bergamo, di Brescia e di Milano.[19]
Nessuno storico segnala
la presenza dei Capitani nella Valle di Scalve prima dell’XI secolo. Uno di
questa famiglia, Ripaldo, fu console di
Bergamo agli inizi del 1100; mentre nel 1180 Raimondo è uno dei consoli
maggiori della Repubblica di Bergamo.
Anteriormente al Mille
la Valle esisteva come Università o Comunità di Scalve, non sappiamo
esattamente con quali oneri e verso chi.
Un “Raimondo era podestà del Comune ed Università di Scalve, quando l’ 8
settembre 1202, venne fatta una divisione semplicemente patrimoniale, non
politica né giurisdizionale fra la Comunità di Scalve (o comune Grande) e
quella parte della medesima che si chiamava Bondione…; lo stesso Raimondo era
podestà di Bergamo negli anni 1213, 1219 e 1220…”
Mentre Filippo dei Capitani di Scalve, nel 1253,
in rappresentanza del Comune di Scalve, firmò l’Atto di sudditanza all’Impero,
la riconferma cioè dei vecchi privilegi da parte del rappresentante
dell’imperatore.[20]
Alcuni discendenti dei Capitani vivono ancora
nella Valle; ma il ramo più ricco di questa famiglia abbandonò presto la Valle
di Scalve.
Quanto scritto dal Bonaldi coincide, salvo
qualche nome e data, con quello che compare nella genealogia dei Capitanei di
Scalve, cittadini di Bergamo.
Il ramo milanese dei Capitanei di Scalve
“Con istromento 6 maggio 1410, indizione nona,
rogato in Mezzate, nella casa di abitazione dei fratelli Tonolo, Giorgio e
Cristoforo de Capitaneis de Scalve, cittadini di Bergamo, da Bettino de’
Seminati, da Albano, notaro bergomense, - assistendo, quali testimoni, Giacomo
del fu Benvenuto de Capitaneis de Scalve, Giacomo del fu Tonolo de’ Gargani,
Martino, detto Maza, del fu Forchino de Pezzolis de Boniatica e Tonolo del fu
Alberto de suprascriptis Pezzolis de Boniatica, bergomensi,- Pietro Lorenzo de
Capitaneis fece acquisto di una torre e
di un appezzamento di terra nella contrada di Vilminore di Scalve, dai suddetti
fratelli Tonolo, Giorgio e Cristoforo, del fu signor Giovanni de Capitaneis de
Scalve, cittadini di Bergamo, ed abitanti alla Costa di Mezzate, nel distretto
di Bergamo.
Esso Pietro Lorenzo, con testamento rogato in
Bergamo, nel borgo di Sant’Andrea, nella vicinanza di San Michele al Pozzo
Bianco, nella casa d’abitazione e nella camera da letto di esso testatore, addì
28 luglio 1448, indizione undecima, da Betino di Pasino de’ Ficieni, da Albano,
notaro pubblico bergomense, istituì eredi universali, in parti uguali, i
fratelli Cristoforo ed Assalonne, dottore nelle arti e nella medicina, suoi
figli legittimi e naturali…
Detto testamento non potè essere compiuto per la
sopravvenuta morte del testatore.
Esso Pietro Lorenzo è citato come defunto padre
dei medesimi Assalonne e Cristoforo nel seguente istromento, rogato in Bergamo
il 20 dicembre 1451, indizione quattordicesima, da Benzanino di Giovanni de’
Maioli, da Lorentino, notaro pubblico bergomense…
Il medesimo Pietro Lorenzo ebbe in moglie Elena
dei conti di Calepio”[21]
Questi de Capitani di Scalve divennero cittadini
milanesi a metà Quattrocento.
Lo storico bergamasco Donato Calvi, nelle sue Effemeridi Sacro-Profane, dice che
Assalonne, chiamato il 4 gennaio 1456 da Francesco Sforza, duca di Milano,
venne ad abitare in questa città.
La duchessa Bianca Maria, figlia naturale di
Filippo Maria Visconti e moglie di Francesco Sforza, il 17 maggio 1457 creò Assalonne, che era cittadino di Bergamo,
suo familiare “ e lo aggregò al consorzio dei fisici familiari ducali e, con
diploma dato in Milano il 14 gennaio 1460, conferì a lui, suoi figli e
discendenti, la cittadinanza di Milano”.[22]
Il vescovo di Padova, quale cancelliere
apostolico dello Studio patavino, con patente di venerdì ultimo di giugno del
1447 lo aveva creato dottore nelle arti
liberali, e, con patente del 1448, dottore in medicina. Professione esercitata
in seguito dal figlio Pietro, che nel 1515 venne “eletto a giurare in verba Maximiliani Sfortiae;” e, nello stesso anno, istituito erede dal
padre. Anche il figlio di Pietro,
Giovanni-Cristoforo, fu dottore nelle
arti liberali e nella medicina. Egli fu pure “donatario della cugina magnifica
signora Maria, figlia del fu magnifico signor cavaliere Francesco Suardo; e
venne eletto a orare avanti il Re Cristianissimo, in occasione della di lui
venuta in Milano”.
Mentre dalla figlia di Assalonne, Clara
Leonarda, sposata a Cesare Porro, verrà il cognome Porro che i de Capitani aggiungeranno al loro.[23]
Per il de Capitani di Scalve, fisico in casa
ducale, non valsero gli Statuti del 1517 che allo statuto XI stabilivano: Nemo in Collegio medicorum admittatur aut
recipiatur nisi vetus civis, non per litteras, Mediolano aut ducatu oriundus de
nobili et antiqua saltem centum et viginti annorum prosapia. [24]
Con il passare degli anni questi de Capitani
entrano così, di diritto, a far parte
del patriziato milanese.
E dal “sangue dei re longobardi” al quale
sarebbe appartenuta la moglie di Cristoforo, si arriva a metà Cinquecento alla
moglie di Pirro,[25]
figlio di Cristoforo, la cui famiglia è imparentata con Gian Giacomo Trivulzio,
maresciallo di Francia e marchese di Vigevano. Pirro sposa, infatti, Paola
Gallarati, figlia di Nicolò, sorella di Pietro Francesco e di Marc’Antonio[26]
grandi proprietari terrieri a Concorezzo,
dove avevano anche una casa da nobile
con giardino, per la villeggiatura. La loro residenza è a Porta Nuova,
parrocchia di S. Babila intus Mediolani.
I Gallarati furono alla corte dei Visconti e poi
degli Sforza. Alla metà del Quattrocento un Giovanni Gallarati è a Concorezzo.
A lui venne venduto il dazio dell’imbottato, del pane e della carne di
Concorezzo, Passirana ed Agrate il 6 novembre 1466.
Tra fine Quattrocento e prima parte del
Cinquecento il territorio di Concorezzo è diviso prevalentemente tra i Rabbia
ed i Gallarati.
L’altro figlio maschio di Cristoforo fu Agostino
o Agosto del quale le fonti ufficiali della famiglia de Capitani di Scalve ci
dicono: “Consta da documenti del 1548, 1549, 1550, 1566, 1567 ed altri, che
egli era dottore collegiato di Milano. Fu prelato nella Curia Romana,
referendario dell’una e dell’altra segnatura, governatore di Città di Castello
e di Benevento, e, durante i torbidi di Francia, venne per alcuni particolari
negozi, dal Pontefice Pio IV (Giovanni Angelo de’ Medici), inviato alla Maestà
di Filippo II.”
E dal Sitoni apprendiamo che nel suo ultimo anno
di vita (1568-1569) Agosto de’ Capitanei di Scalve fu arciprete (il LIV) della Chiesa di Monza: ”
Augustinus J.C. Archypresbyter Modoetiae; obijt 1569, sepultus in ecclesia S.
Angeli P. N. Mediolani.”[27]
Nelle Genealogie della famiglia de
Capitani di questo, però, non si fa cenno; anche se il Frisi nelle sue Memorie storiche di Monza ha scritto di
avere appreso ciò dalle “carte esistenti nella Casa de Capitani a Milano”. Ma
nel 1794, quando le Memorie del Frisi vengono pubblicate, il Teatro Genealogico
del Sitoni è noto da oltre mezzo secolo. Si tratta, dunque, di un capitolo
della storia di questo Agostino de Capitani al quale dovrebbe essere dedicata
una più approfondita indagine. Anche perché si tratta di un periodo della
Controriforma in cui la storia della Chiesa ambrosiana retta dal primo Borromeo
riveste una particolare importanza, religiosa
politica e sociale, non solo per la diocesi di Milano.
I de Capitani di Scalve hanno iniziato, ormai,
un’attenta politica di alleanze matrimoniali ed un’accorta politica
patrimoniale ed ereditaria con importanti casate bergamasche e milanesi. E, in
parallelo, procederanno all’acquisizione di beni immobili a Concorezzo ed in
altre località. La creazione di un patrimonio fondiario ed economico sarà il
risultato delle strategie da essi attuate sul lungo periodo.
Non
si tratta di una delle famiglie più importanti di Milano, ma certamente di una
famiglia tra le poche il cui status aristocratico non proveniva dalla mercatura
o da altre attività commerciali, e men che meno da lavoro mercenario, come si legge, invece,
per qualche capostipite in “Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi”.
Dalla metà del secolo XVI i nomi dei principali
esponenti della famiglia compaiono nel Consiglio dei LX Decurioni, nel
Tribunale dei Dodici di Provvisione e nella Giudicatura delle strade.
Cesare, figlio di Pirro, sposerà Elena Rabbia,
figlia del conte Fulvio, milanese, e di Angela Scarioni, un altro, come
abbiamo visto, grande proprietario terriero di Concorezzo[28].
Sarà da questa Elena che, rimasta vedova di Cesare de Capitani e
rimaritatasi con Marco Maria Arese, figlio di Benedetto e di Virginia de Medici
di Ossona, verrà la famiglia dei conti Arese.[29]
Cesare abitava a Milano nella parrocchia di San
Pietro all’Orto. “Nel 1600 dal governatore di Milano venne eletto uno dei
Signori Dodici di Provvisione. Testò con istromento 29 aprile 1609, rogato dal
notaio Giovan Maria Besozzo fu Bartolomeo, lasciando erede il figlio Daniele ed
il nascituro, che fu poi Francesco, e fra gli altri legati dispose dotes
singulo anno puellis nubilibus Burgi Concoretij.”
I de Capitani di Scalve a Concorezzo
A
Concorezzo i de Capitani di Scalve approdarono per l’eredità Gallarati.
Marc’Antonio
Gallarati era morto alla fine del
1580, preceduto nel 1571 dal fratello Pietro Francesco,
entrambi senza discendenza, e la loro erede universale era stata la sorella
Paola, sposata a Pirro de Capitani. Ne avevano così beneficiato i figli di
Paola: Cesare, Carlo, Agostino e Camilla.
Camilla
sposerà Annibale Silva di Gio. Battista,[30]
accompagnata da una ricca dote.
Troveremo,
invece, l’ultima figlia di Pirro, Anna tra le
monache del monastero di S.Vittore in Meda.
Erede
universale di Camilla sarà il nipote Daniele, figlio di Cesare.
Daniele[31]
nacque a Milano il 10 marzo 1597 da Cesare de Capitani e da Elena Rabbia.
“Battezzato il 26 dello stesso mese nella
parrocchia di San Pietro all’Orto” ebbe
come padrino il dottor Carpano, “in nome di S.E. il duca di Montemarciano
Sfondrato” e come madrina donna Caterina Trivulzio Gonzaga.
Egli sposerà, il 10 luglio 1617 (notaio
Bonifacio Farra fu Gregorio), Maria Anna, di Ercole e di Antonia Marliani,
conti di Valle d’Intelvi, signori di Mariano e sua pieve.
Daniele, che “aggiungeva al proprio il cognome Porro, fu capitano di fanteria; padre di
dodici figli[32] e
per questo esentato dalle tasse.
Nel 1628 venne delegato a sedare i tumulti del
popolo di Porta Comasina, che erasi sollevato in occasione della distribuzione
del pane”; nel 1633 fu titolare dell’Officio di Corriere maggiore dello Stato
di Milano, alle dipendenze del governatore di Milano, e vantò un credito verso
la regia Camera o Erario,[33] e nel 1644 fu dei XII di Provvisione.
E’ con lui che i de Capitani accrescono
considerevolmente il loro patrimonio.
E le loro aspirazioni di potere si rivolgeranno
al feudo di Concorezzo, località in cui essi hanno numerose proprietà, sia per
l’eredità da Paola de Capitani Gallarati,
da Camilla de Capitani Silva e da Giulio Vimercati, che per i nuovi
acquisti immobiliari.
Nella formazione e nel perfezionamento del
patrimonio i de Capitani di Scalve “non escono dagli schemi dei comportamenti
della nobiltà italiana, impegnata ad espandere e conservare i propri sistemi
patrimoniali”, che vanno dai beni da incamerare con le alleanze matrimoniali
all’acquisto di nuove “ possessioni”. Là
dove, con la consistente presenza di loro beni immobili distribuiti in vasti
“tenimenti”, si sono assicurati un insediamento stabile.[34]
Come a Concorezzo ed a Meda.[35]
“A Concorezzo, però, vivono altre famiglie con
non minori proprietà e ricchezze, e non tutte sono allineate con i de Capitani,
anche se a volte imparentate con essi. Dalla prima metà del Seicento fin quasi
alla fine si susseguono, infatti, le grida
contro i furti campestri ed altri danni che maliziosamente
si arrecano ai beni che i de Capitani hanno in loco.
Non sarà, comunque, ciò ad arrestare la loro
scalata a questo borgo ed al suo territorio”[36]
E’ del 24 febbraio 1633, infatti, un atto, rogato da Giuseppe Fossati fu
Gio.Battista, notaio milanese, dal quale
veniamo a conoscenza dell’offerta del conte Cesare Taverna al Magistrato
dei Redditi straordinari per l’acquisto del feudo di Concorezzo a nome di
Daniele de Capitani.[37]
“Nel 1649 venne deliberato in favore di esso
Corrier Maggiore il feudo di Cameri, nel Novarese, quando quella Comunità
chiese ed ottenne il Regio Demanio…”.
Egli, però, muore nella sua abitazione in S.
Pietro all’Orto il 18 settembre 1661, e
gli viene “ data sepoltura il giorno seguente nella Chiesa dei Padri di
Sant’Angelo”.
Ma oramai la via al feudo per i de Capitani è
aperta. E saranno i figli di Daniele a percorrerla fino in fondo, unendovi il
titolo di conte.
Al titolo di
conte segue il feudo di Concorezzo
Daniele de Capitani, il più dovizioso della
Casata, aveva un conto aperto con la Corte di Madrid dal quale sarebbero stati
detratti i denari necessari ai suoi successori, Pirro e Giovanni Battista, per
ottenere il feudo di Concorezzo.
Anche Pirro de Capitani ce lo conferma: “…poco
dopo ricevuta la gratia del Questorato, fui di più gratiato d’un titolo di
Conte con la clausola, et successoribus,
qual titolo penso d’appoggiar in breve sopra del Borgo di Concorezzo con far
acquisto del detto luogo in feudo a disconto di parte del credito che la Casa
ha verso la Regia Camera per esecutione di Real Cedola ottenuta quando fui a
Spagna e presentata al Signor Conte di Melgar allora Governatore…”[38].
Nel frattempo aveva indirizzato una supplica al Magistrato straordinario per avere il possesso di quel
feudo, precisando che la famiglia de Capitani a Concorezzo “… da cent’anni a questa parte possiede il
maggior corpo di beni, con li datij feudali di pane, vino, carne et imbotato,[39]
et dove per informatione fatta dal detto Magistrato, non è concorso alcuno per
volerlo infeudare, non ostante le cedole esposte ultimamente et altre volte
ancora..”. Ed invita il medesimo magistrato ad includere nel bilancio “ ciò che
definitivamente e per minore risulterà essere il credito della Casa del supplicante
a effetto di riceverne il rimborso annualmente, limitatogli dalli suddetti R.
Ordini et in tutto come in essi si contiene, che li riceverà dalla mano et
grandezza di Vostra Eccellenza.”[40]
Il 9 giugno 1690 comparve finalmente la carta “
Feudo da vendere”.[41]
Il 20 dello stesso mese Pirro si presentò per
acquistare il feudo di Concorezzo. E quel giorno “ nel maggior concorso di
popolo, nel luogo solito della Ferrata posto sopra la piazza de’ Mercanti a
Milano, fu venduto il feudo di Concorezzo per 72 imperiali per focolare alla
migliore oblazione…ma fu venduto al Questore conte Pirro de’ Capitani, il quale
ha accettato la bacchetta deliberatoria dalle honoratissime mani dello
spettabile Signor Presidente Don Ortensio Cantone…”.[42]
Pirro Agostino
era nato “ e battezzato nella Parrocchia di San Pietro all’Orto il 20
aprile 1623, essendogli padrino il signor Gerolamo Sagarula, questore.
Con comparizione 22 luglio 1652 chiese di essere
ammesso al Collegio dei Giurisperiti,[43]
conti e cavalieri di Milano e, con atto 27 luglio 1652, vi venne ammesso.
Coprì tre volte la carica di Vicario di
Provvisione:[44]
negli anni 1658-1659, 1669-1670 e 1679-1680.[45]
Per due volte fu oratore del Senato di Milano
presso Sua Maestà Cattolica.
Ed infine fu
Questore del Magistrato sopra i Redditi Ordinari.
Venne, insieme al fratello Giovanni Battista e
ai discendenti maschi di questi, con istromento del 4 settembre 1690, ricevuto
da Benedetto Agnello,[46]
coadiutore del regio ducale notaro camerale, investito, con mero e misto imperio
e potestà di gladio, di Concorezzo, feudo di 136 fuochi, per il prezzo di lire
72 imperiali per ciascun fuoco, per un valore complessivo di lire imperiali
9.792.
Carlo II, re di Spagna e duca di Milano, con
lettere patenti date in Madrid addì 10 marzo 1691, decorò del titolo di conte
sopra la terra e feudo di Concorezzo esso Questore don Pirro de’ Capitanei e i
di lui discendenti maschi nati, e nascituri, da legittimo matrimonio, in
infinito, erigendo in Contea la detta terra e luogo di Concorezzo.”[47]
Il 30 ottobre 1689, una domenica, il conte
Pirro, soggiornando ancora, “a causa delle vacanze”, nella casa che i de
Capitani avevano in Concorezzo, detta il suo testamento alla presenza del
notaio Francesco Isola fu Giuseppe e di otto testimoni del luogo.
“Morì esso conte Pirro de’ Capitanei all’età di
74 anni, in Milano nella parrocchia di San Pietro all’Orto, addì 14 agosto
1690, e fu sepolto nella Chiesa dei reverendi Padri di Sant’Angelo”.
Il 5 settembre 1690[48]
il conte Carlo Francesco Gorrani, segretario di Sua Maestà e del suo Consiglio
segreto dello Stato di Milano, certificava come il conte Pirro de Capitani,
questore togato del Magistrato ordinario, a nome proprio, e come procuratore
del conte Gian Battista, suo fratello, avesse prestato “il solito e dovuto
giuramento di fedeltà a Sua Maestà per il feudo di Concorezzo acquistato dalla
Regia Camera per loro…” nelle mani del
Reggente Gran Cancelliere dello Stato di Milano.
“Il fratello di Pirro, Giovanni
Battista-Alessandro nacque a Milano nella parrocchia di S. Pietro all’Orto il
29 maggio 1630.
Fu capitano di uno squadrone di corazzieri nelle
Fiandre e ricoprì pubblici uffici in patria.
Avendo dimorato alcun tempo in Inghilterra, vi
si cattivò l’affetto di quel re Carlo III, per modo che, quando se ne partì,
quel Principe lo accompagnò al Re di Spagna con una lettera che grandemente e
vivamente lo raccomandava.
Prese in moglie, il 29 ottobre 1681 nella
basilica di S. Nazaro, Antonia, figlia di Lorenzo Eleyzaldi, conte di
Bereguardo, e della contessa Ippolita Cicogna dei conti di Tornerego e
Peltrengo, gentildonna milanese. E da essa ebbe otto figli.[49]
Ebbe la carica di Giudice delle Vettovaglie nel
1695.
Fu il secondo conte di Concorezzo, dove morì il
1° dicembre1703.”
Un istromento rogato il 26 settembre 1701, due
anni prima della sua morte, da Giacomo Antonio Serponti fu Giorgio, notaio,
riconosce Giovanni Battista vassallo di Filippo V di Spagna e feudatario di
Concorezzo.
Mentre Cesare-Giovanni-Battista, nato in Meda il
17 ottobre 1621[50],“venne
il 17 aprile 1638 ricevuto, per giustizia, Cavaliere nell’Ordine di Malta. Fu
pure capitano di fanti, e combattè valorosamente per Sua Maestà Cattolica in
vari fatti d’armi nel regno di Napoli, in Catalogna, in Aragona e nello Stato
di Milano.
Testò il 4 aprile 1681 con facoltà concessagli
dall’Eminentissimo Gran Mastro.
Morì frà Cesare de Capitanei in Milano il 7
aprile dello stesso anno e fu sepolto nella chiesa dei Padri di S. Angelo.”
“Pirro-Daniele-Francesco-Giovanni-Battista, nato
in Milano nella parrocchia di S. Pietro all’Orto il 2 settembre 1682, fu il terzo conte di Concorezzo, ( compossessoribus Medae..) proprietario a
Meda… ed a Vidigulfo, a Vignate ed a Truccazzano.
Portava aggiunto al proprio cognome quello dei Porro.
Nel 1708 fu nominato ciambellano, gentiluomo di
camera di Carlo III; e dei XII di Provvisione nel 1708 e 1719; dei LX Decurioni
di Milano nel 1711 e nel 1733.
Con lettere patenti 26 agosto 1712 dall’Università
dei Nobili di Locarno, e dai signori Pretori e Sindaci della medesima, vennero
ad esso conte Pirro ed ai di lui fratelli quali discendenti à Capitaneis Sondrii et de Scalve, che
molti secoli prima si erano distaccati dal comune stipite di Locarno,
riconosciuti tutti i privilegi e prerogative competenti ai Nobili di quella
Università.
Nel 1726 fu Priore del Monte di Pietà.
Nel settembre 1733, nell’incoronazione a Praga
di Carlo VI, e III come Re di Boemia, venne fatto cavaliere attuale della Chiave
d’Oro. E Grande di Spagna con diploma, in data 29.5.1737, dell’imperatore Carlo
VI.
Si era sposato in Milano nella parrocchia di S.
Simpliciano, omissis omnibus
proclamationibus etiam in vesperis addì 27 settembre 1705, ad Anna Maria
Brigida Crivelli di Enea dei marchesi di Agliate, nata nel 1685, e della
marchesa Eleonora Gabriella Trivulzio dei marchesi di Sesto Ulteriano e
Cologno.
Esso eccellentissimo conte Pirro de’ Capitanei
morì di 72 anni in Milano, addì 26 novembre 1753; la moglie era morta a 61
anni, in Milano, addì 7 febbraio 1749.”[51]
Questo Pirro fu il più blasonato della famiglia
de Capitani di Scalve.
Dei suoi tredici figli, Giuseppe Antonio, nato
nel 1712, fu canonico di S. Maria alla Scala in Milano; cinque furono monacate;
tre morirono in Concorezzo ( due infanti ed un adolescente); altri tre
seguirono la medesima sorte.
Il primogenito, Giovanni
Battista-Giuseppe-Antonio–Melchiorre, nato in Milano il 18 giugno 1707, sarà il
suo successore.
Un breve del cardinale Benedetto Erba Odescalchi,
dei marchesi di Mondonico, in data 9 ottobre 1721, a Pirro ci dice che nella villa de Capitani in
Concorezzo[52], la
loro residenza di villeggiatura, esisteva un oratorio nel quale si poteva
celebrare messa.
Declino ed
estinzione del ramo milanese dei Capitani di Scalve
I de Capitani ottennero in feudo Concorezzo, ma
non vi esercitarono tutto quel potere che avrebbero potuto o voluto, perché
gli altri compadroni del borgo, radicati
in esso da prima che i da Scalve vi arrivassero, direttamente o indirettamente
non glielo consentirono.
Il potere, quindi, derivò loro più che dal feudo
dall’intreccio di parentele che riuscirono a realizzare. Un potere, però, che
non aprì loro l’anima della Comunità, che, si diceva nel borgo, conservava la
memoria dei tempi, se non della vicinia, del periodo comunale.[53]
Giovanni Battista fu il quarto conte di
Concorezzo.
Ereditò il feudo ma non la fortuna e la salute,
non almeno come avevano arriso a suo
padre e del quale perderà ben presto
anche il cursus honorum.
Fu dei LX Decurioni nel 1733; dei XII di
Provvisione negli anni 1736, 1747 e 1750; Giudice delle Strade nel 1744 e nel
1747 Membro della Congregazione del Patrimonio[54].
“Venne creato Ciambellano dell’Imperatore e,
dell’Imperatrice e Regina, come risulta da lettera datata da Vienna 29 giugno
1754.
Ebbe in moglie Maria Anna, figlia di Cesare
Alberto Cuttica, marchese di Cassine, conte di Quargnento, patrizio
alessandrino, e di Maria Veronica Perboni dei marchesi d’Oviglio, nata nel
1723.”
Ebbe tre figli: due maschi ed una femmina che
morirà a dieci anni.
Il quarto conte di Concorezzo morì il 28 maggio
1769, all’età di 62 anni, e fu sepolto “ nella chiesa de’ Osservanti di S.
Angelo a Milano.”
La vedova, allora, in qualità di procuratrice ed
amministratrice dei propri figli minori, rivolse una supplica all’imperatrice
Maria Teresa, duchessa di Milano, affinchè accettasse la loro volontaria
rinuncia agli onori, prerogative e trattamenti di Grande di Spagna. “E
l’Imperatrice, con real Carta 14 marzo 1771, assecondando la supplica, accettò
tale volontaria rinuncia.”
Morirà il 4 febbraio 1783, di circa 60 anni, in
Milano nella parrocchia di S. Pietro all’Orto.
Marianna Cuttica, che si era risposata
segretamente con Gio. Giacomo Trivulzio dei marchesi di Sesto Ulteriano, fu in grado di preparare una ricca
primogenitura per il figlio Pirro.”
“Pirro-Daniele-Porro-Maria-Gaspare-Benigno, nato
in Milano nella parrocchia di S. Pietro
all’Orto il 20 novembre 1742, fu il quinto conte di Concorezzo.
Esso Pirro si sposò in Milano nell’insigne
basilica dei SS. Apostoli e di S. Nazaro il 12 giugno 1771 a
Costanza-Marianna-Carlotta-Gaetana figlia del marchese don Lorenzo Fornara,
nobile patrizio milanese, e della marchesa donna Francesca nata nobile Telò.[55]
Da questa unione nacquero quattro figli maschi,
due dei quali morirono nei primi tre anni di vita.
La R.I. Corte, con Aulico Decreto 10 novembre
1788, accordò ad esso conte don Pirro de Capitani, ed a’ suoi successori, per
ordine di primogenitura, la ripristinazione negli stessi onori, prerogative e
trattamento di Grande di Spagna, de’ quali la di lui famiglia era già in
possesso fin dal 1737, per concessione dell’Imperatore Carlo VI. Coll’obbligo,
però, per i di lui successori primogeniti, di caso in
caso, di pagare al R. Erario la somma, per tali casi stabilita, in L. 3000, a
titolo di trapasso. Restò, così, con tal nuova superiore disposizione,
annullata la suddetta volontaria rinuncia, che, nel 1771, con Real Carta del 14
marzo, era stata accettata da Sua Maestà, la quale aveva clementemente assecondate le suppliche ad essa porte da donna
Maria-Anna Cuttica, madre di esso conte Pirro, in qualità di amministratrice e
procuratrice dei propri figli minori avuti dal conte Gian Battista de
Capitanei.
Il R.I. Consiglio di Governo della Lombardia
Austriaca, con decreto 22 aprile 1789, premesso che esso conte Pirro de
Capitanei aveva documentato l’antico
possesso della propria arma gentilizia, e richiesto che venisse in tal figura registrata nel codice araldico
facendovi que’ aggiunti ed ornati che gli competevano nella qualità a cui era
stato repristinato di Grande di Spagna, trovando giustificata l’istanza,
ordinò [56] al Re d’arme di dare le convenienti
disposizioni per il registro dell’arma medesima, secondo le regole del Blasone,
rilasciandone alla parte il coerente certificato per sua direzione.”
Pirro morì il 30 marzo 1807 a Milano in via S.
Pietro all’Orto, nella parrocchia prepositurale di S. Maria de’ Servi “nella
quale era stata compenetrata la parrocchia allora soppressa di S. Pietro
all’Orto; ed il di lui cadavere venne trasportato a Concorezzo, dove venne
tumulato nella sepoltura di famiglia.”
“Giovanni-Battista-Francesco-Gaetano nacque in
Milano, nella parrocchia di S. Pietro all’Orto, il 16 aprile 1772 e fu il sesto
conte di Concorezzo.
Nel 1784 venne posto in educazione, insieme al
fratello Carlo Pietro, nel nobil collegio Tolomei di Siena.”[57]
Un periodo di turbolenze si stava addensando
sopra l’esistenza della nobiltà che viveva già, in buona parte, di eredità e si pavoneggiava della fama
tradizionale, spendendo i guadagni ed i risparmi degli avi.
Maria Teresa, con legge 26 marzo 1778, aveva iniziato con l’avocare allo Stato tutte
le regalie. Suo figlio, Giuseppe II, con decreto 18 ottobre 1785, avocò ai
feudatari ogni giurisdizione nell’amministrazione della giustizia.[58]
La rivoluzione francese e le vittorie di
Bonaparte in Italia sugli austriaci fecero il resto.
Il 24 luglio 1797, la legge 6 termidoro, anno V
republicano, soppresse i fidecommessi[59]
sia nel territorio della repubblica cisalpina sia nei paesi aggregati
posteriormente al Regno d’Italia.
Con legge 22 pratile del calendario
repubblicano, anno IV della nuova era, i francesi avevano abolito, in
Lombardia, anche i privilegi ed i diritti giurisdizionali esercitati dalla
nobiltà ed annessi ai feudi.
Poi fu la guerra agli stemmi: si combatteva
l’aristocrazia e se ne voleva cancellare l’immagine distruggendone i segni
esteriori.
A Concorezzo è parroco, dal 1766, don Angelo
Antonio Maria Frigerio, il quale, da poco, ha passato i sessant’anni. Nella chiesa parrocchiale del
borgo i de Capitani hanno appeso, dai tempi d’oro del terzo conte della loro
famiglia, “ ai piedi del Crocifisso, all’arcone del coro” lo stemma
gentilizio che il parroco fa rimuovere in questo periodo di rivoluzione.
Il conte di Concorezzo è Pirro, di qualche anno
più giovane di don Frigerio, che non contesta tale azione.
Ma al ritorno degli austriaci egli protesta con
le autorità di governo per l’atto compiuto dal parroco. E il commissario
imperiale, Coccastelli, ne informa Filippo Visconti, arcivescovo di Milano, il
quale chiede informazioni al vicario foraneo in Vimercate.
I preti giacobini, o anche simpatizzanti delle
idee portate d’oltralpe, non godevano, ovviamente, le simpatie degli
austriaci. Ne derivarono
“disaprovazioni”, richiami, uno scambio epistolare del parroco con
l’arcivescovo e dei vari organi governativi fra loro: quasi un affaire,
insomma, archiviato, però, ben presto .[60]
Intanto il
primogenito di Pirro, Giovanni Battista, aveva sposato in Milano “nella
parrocchia di Santa Maria de’ Servi in San Carlo, il 10 novembre 1795
Giovanna-Renata-Giulia-Maria-Anna-Teresa-Aloisa, figlia del conte Alessandro
Serbelloni-Sfondrati, nobile patrizio milanese, ciambellano di S.M.I.R.A. e
maggiore nel Regio Cesareo esercito austriaco, poi duca di San Gabrio e Grande
di Spagna, e della contessa Rosina, poi duchessa di San Gabrio, nata contessa
(del Sacro Romano Impero) di Sinzendorf.[61]
Da questa unione nacquero, in Milano, un maschio
e quattro femmine: Pirro Alessandro, Costanza Rosina, Rosina Giovanna,
Francesca Maria e Laura Agnese.[62]
“In seguito a parere favorevole 18 febbraio 1816
della Regia Cesarea Commissione Araldica di Lombardia all’I. R. di Governo,
Francesco I imperatore d’Austria, con sovrana risoluzione 28 gennaio 1817,
confermò l’antica nobiltà col titolo di conte e gli riconobbe la riammissione
del privilegio del titolo di Grande di Spagna ottenuta da S.M.I.R. Giuseppe II.
In detto parere della Regia Cesarea Commissione Araldica esso conte Giovanni
Battista viene indicato precisamente così: Giovanni
Battista de Capitani di Sondrio e di Scalve; ed, invece, nell’Elenco
ufficiale dei Nobili lombardi del 1828 trovasi indicato col semplice cognome de Capitani di Scalve, senza l’appellativo
di Sondrio.”
E si prosegue scrivendo che l’Università e
corporazione dei nobili della città di Locarno, “Canton Ticino Svizzero, nel febbraio 1827 riconobbe, accettò e riconfermò il conte Giovanni Battista fu Pirro de
Capitanei di Sondrio e Scalve e il di lui figlio Pirro Alessandro, e suoi
successori, domiciliati in Milano, via San Pietro all’Orto 910, essere
discendenti dallo stipite di Alberto (sic) figlio di Chiaromonte (sic) figlio
di Viviano ed appartenere alla illustre famiglia Orelli de’ Capitanei di quella
città, e quindi competerli tutti quelli onori e prerogative inerenti ed
aspettanti alle tre nobili famiglie Orelli de Capitanei, Muralti e Magoria di
Locarno…
Presto sarà Giovanna, sua moglie, ad intervenire
nella direzione e gestione degli affari
della casa a causa della salute del marito. In tutti gli atti ufficiali
comparirà lei, infatti, quale procuratrice e amministratrice generale del sesto
conte di Concorezzo.
Malgrado l’intervento di questa donna,
considerata nel borgo la vera feudataria, però, la situazione economica
dei Capitani di Scalve va
deteriorandosi.[63]
E l’unico figlio maschio, il primogenito Pirro,
crea alla madre, che ha aderenze entro il Governo di Milano e nella Corte di
Vienna, non pochi problemi.
Pirro
conduce, clandestinamente, una missione politica, insieme al marchese
Benigno Bossi a Torino nel 1821, “per prendere accordi con i liberali. Ed in Piemonte egli prende parte ai moti scoppiati in quello, stesso anno.
Ne seguì l’esilio in Spagna, dove militò agli
ordini di Gugliemo Pepe; passando poi in Inghilterra e, infine, a Parigi.[64]
Dal 1821 al 1830 i suoi beni vennero posti sotto sequestro, anche quelli in Concorezzo.
Rientrato in Milano nel 1830 fu processato per
essersi illegalmente recato all’estero e fu condannato a morte come colpevole
di alto tradimento, pena commutata in sei mesi di detenzione, che scontò nelle
prigioni di S. Margherita”[65].
In questi anni la madre era stata molto occupata tra gli uffici di Governo in Milano e la Corte di
Vienna, facendo ricorso a parenti ed amici, per salvare il figlio, che cesserà
di vivere,(non ne viene indicata la causa) nella sua casa in Milano, il 10
maggio 1834, all’età di 37 anni, senza essersi mai sposato. “…e la di lui salma
venne portata nel camposanto di Concorezzo”.
Il conte Giovanni Battista, suo padre, morirà
due anni dopo, in Milano, nella parrocchia di S. Maria dei Servi in S. Carlo “
in causa di tabe polmonare (tisi)” l’11 ottobre 1836, a 64 anni, ed il giorno
13, “con superiore autorizzazione, la sua salma venne trasportata nella
parrocchia di Concorezzo”.
Gli successe nel feudo di Concorezzo, in
mancanza di eredi maschi, il fratello Carlo Pietro, nato il 2 aprile 1773, che
“morì celibe, per encefalite, l’8 marzo 1841, di 68 anni, nella parrocchia di
S. Antonio Abate, nel comune di Sant’Angelo Lodigiano, nell’attuale circondario
di Lodi”.
Con il settimo conte di Concorezzo, Carlo
Pietro, si estingue la famiglia de Capitani, cittadini milanesi. Giovanna
Serbelloni, vedova di Giovanni Battista de Capitani, “…venne, invece,
dall’Imperatrice Regina nominata sua dama di palazzo[66]
ed, infine, dama dell’ordine della Croce Stellata nella promozione ordinaria
del 14 settembre 1839.
Nel frattempo era passata a seconde nozze, in
Milano il 10 febbraio 1839, con Luigi-Federico-Francesco-Maria Attendolo
Bolognini, conte di Sant’Angelo, nobile patrizio milanese, ciambellano di
S.M.I.R.A.
Morì a Milano, in causa di apoplessia, di anni 76, il 26 agosto 1854.[67]”
“La ricostruzione delle dinastie patrizie è
sempre stata fatta seguendo lo sviluppo patrilineare…ne
consegue che una famiglia viene considerata estinta allorchè viene a mancare
l’ultimo discendente maschile in linea diretta.”[68]
Rosina Giovanna, figlia di Giovanni Battista de
Capitani, maritata Carcano, ebbe un unico figlio maschio, Alfredo Giuseppe
Carcano, nato in Bergamo il 26 luglio 1825.
“Egli è Cavaliere di giustizia dell’Ordine di
Malta; proprietario attuale dell’antico palazzo de’ Capitanei di Scalve in
Milano, in via S. Pietro all’Orto, già al civico numero 910 ed ora numero 15”-
dove quella famiglia conservava il proprio archivio-, e Segretario di Governo
presso la I.R. Luogotenenza di Lombardia”.
A lui si deve una Genealogia dei Capitani di
Scalve, ”cittadini di Bergamo, patrizi milanesi, conti di Concorezzo, grandi di
Spagna di I^ classe, nobili della città di Locarno”, fino a Francesco Lorenzo ed Uberto Muzio Albertoni, figli di Luisa
Giuseppa, sua sorella maggiore.[69]
Appendice
Genealogia
Familiae
De Capitaneis,
hoc nomine decoratae sub Ottone Magno Imperatore, qui intuitu hospitii a
Viviano Claromontese, Conradi comitis Moguntiae olim Marescallo, eiusque
fratribus in oppido Locarno, sibi per mensem praestiti, Albertum ipsius Viviani
filium secum adductum anno 961 in Festo Hastiludii Mediolani habito, honorem
reportantem, dignitate Capitanei in Valtellina, una cum descendentibus
illustravit. Siquidem illo abhinc tempore floruit decore Imperiali Propago
Capitaneorum in Valtellina et ab ea processere Capitanei Vallis Scalvae, a
quibus itidem descenderunt comites de Capitanei mediolanenses Patritii. Munerum
autem, quibus hujus Familiae Viri Toga Sagoque continuis temporibus functi
sunt, ac Feudorum Imperialium Castellorum, aliorumque Regalium, quae
possiderunt, mentio habetur in vetustissimo Chronico Veterii quod conservatur
in Archivio Universitatis Nobilium in oppido Locarni; nec non in Annal. Bergomen., prout etiam apud
Fanianum nobilem mediolanensem in suis manuscriptis, quae reperiuntur in
Archivio D.D. Comitum et Judicum Collegiatorum Mediolani joanem petrum de crescentiis in Amphit. Rom. par. I pag. 200; bartholomeum corte Philosophum ac
medicum mediolanensem in Notit. histor.;
benedictum jovium, Hist. Novocomen. Lib. I pag. 41.
Plura
etiam suppeditant Liber editus, cuius titulus est: Corona Nobilitatis Italiae
et Memoriae historicae nobilis Jurisconsulti sitonis
de scotia, mediolanensis; joan
gulerius de wineck, lib. 12 Hist.
Rheticae; petrus angelus lavizarius, Memoriis
Historicis Vallistellinae pag.
41; &c. &c…
(a) Anno 493: Milo I, Rex Caenomannorum et
Angleriae
Alion I, Comes
498 Calvagnus
Perideus [70]
(b) Milo II, Rex Caenomannorum
700
Alion II, Rex Caenomannorum
-750-
Hujus frater Milo III, cujus
Uxor Bertha, Caroli
Magni soror [71]
Rolandus
Comes, propter maternam hereditatem, Comes Claromontanus
778
Vivianus de Claromonte, Comes Angleriae
consanguineus Germanus
comitis Rolandi
800 Viviani filius
858 Vivianus nepos, a comite Lamberto occisus
880 Viviani pronepos
900 Robertus de Claromonte
abnepos Viviani, Comes in Lotharingia
Filii Roberti: Landolfus, caput familiae de
Muralto; Aurelius, caput familiae de Orello; Vivianus, caput familiae de
Magoria. Ex his tribus familiis constat Universitas Nobilium de Locarno.
Albertus, alter ex filiis Viviani Claromonte
investitus fuit ab Othone Magno de Burgo Sondrii et de aliis Ditionibus in
Valletellina cum titulo Capitaneatus.
Et Descendetibus agnominati fuerunt Capitanei de
Sondrio.
Filii Alberti: Hugo, Conradus et Jacobus a
quibus multum propagata fuit Familia, quae in Valle de Scalve multas possedit
jurisdictiones.
Ab Jacobo: Venetianus I, ex Capitaneis de
Sondrio
Venetianus II et
Raimundus,[72]
supremus Praetor Bergomi anno 1219 tempore quo Civitas uti Repub. se
gubernabat, investitus fuit de Valle de Scalve, una cum Patre suo:
Venetiano I
Venetiano II et Jacobo, fratribus et agnatis
unde dicti sunt Capitanei de Scalve.
Lanfrancus, filius Venetiani II
Pellegrinus, filius Lanfranchi
Franciscus, filius Pellegrini
Petrus Laurentius, filius Francisci; eius uxor:
Helena ex comitibus de Caleppio, bergomensibus.
Venetianus II et
Raimundus,[73]
supremus Praetor Bergomi anno 1219 tempore quo ipsa
domo ubi Galeatius II inhabitabat: Teste Corio part, 3 , et nunc quoque anno
1740 ibi hac Familia moram trahit. Uxor Apolonia ex comitibus de Benaliis,
Bergomensibus.
Petrus, filius Absalonis, Decurio anno 1513, qui
a Maximiliano Sfortia, Mediolani Duce electus fuit ad jurandum nomine suo. = soror: Catherina, uxor Equitis Francisci
Suardi =
Uxor, Donetta Coria ex nobilioribus Familiis
Mediolani.
Christophorus, filius Petri
Uxor, Cecilia Ghisulfa mediolanensis, ex Regum
Longobardorum sanguine, ut videri ex Memoriis Historiographi Nob. J.C. Sitonis
de Scotia mediolanensis. (citato nel testo)
Phyrrus, filius Christophori, 1576
Uxor Paula Gallarati mediolanensis Magni Jacobi
Trivultii et generalis Jacobi Biraghi abnepos de qua Corona Nob. Ital., par. I, f. 178, et par 2, f. 716. = frater: Augustinus ex Collegio Comitum
Equitum et Judicum Mediolani, in Romana Curia Prelatus utriusque signatura.
Referendarius, Gubernator Thipherni et Beneventi, et sub pontifice Pio IV
Nuntius Apostolicus in Hispania (e arciprete di Monza)
Caesar, filius Phyrri, ex XII Viris Provisionum
Civitatis Mediolani 1591
Uxor, Helena, comitis Fulvi Rabiae,
medionalensis, filia.
Daniel, filius Caesaris, Centurio, nec non
Cursor Major pro S.C. 11 = frater:
Franciscus, Dux cohortis bis centum militum=
Uxor, Marianna ex comitibus Marlianis, Vallis
Intelvi et Burgi Mariani Dominis
Una schematica, ma chiara, Genealogia dei Capitanei de Scalve, conti di Concorezzo, con
inizio da Pietro Lorenzo, fisico, 1435 e termine a metà Settecento con il 3°
conte di Concorezzo, Pirro, ed il figlio Giovanni Battista, si trova in Teatro genealogico delle famiglie
nobili milanesi, manoscritto anonimo, conservato nella Biblioteca Nacional
di Madrid.
Malgrado l’intervento di
questa donna, considerata nel borgo di Concorezzo la vera feudataria, la
situazione economica dei Capitani di
Scalve va deteriorandosi. Giovanna Serbelloni, Rosina era figlia di Venceslao
conte (del Sacro Romano Impero) di Sinzendorf, burgravio a Reinegg, conte e
signore di Sinzendorf e Thanhausen, tesoriere ereditario del S.R.I.,
ciambellano di S.M. Romana Imperiale Reale e della contessa Maria Antonia, nata
contessa del S.R.I. di Harrach. Nata a Vienna nel 1754, morirà a Milano il 19 aprile 1837.
ariani Dominis
Una schematica, ma chiara, Genealogia dei Capitanei de Scalve, conti di Concorezzo, con
inizio da Pietro Lorenzo, fisico, 1435 e termine a metà Settecento con il 3°
conte di Concorezzo, Pirro, ed il figlio Giovanni Battista, si trova in Teatro genealogico delle famiglie
nobili milanesi, manoscritto anonimo, conservato nella Biblioteca Nacional
di Madrid.
BLASONATURA
Il termine arma è considerato sinonimo
di stemma, anche se questo viene utilizzato per indicare solo lo scudo araldico, una componente dell'arma, con gli ornamenti esteriori. Tali ornamenti, come elmo, mantello, corona evidenziano il grado di nobiltà, le funzioni, il rango del titolare…
ARMA
gentilizia del conte Pirro de Capitani di
Scalve
per decreto del R. I. Consiglio di
Governo 22 aprile 1789: Codice araldico di Lombardia, pag. 205.
Dalla descrizione manca, però, elmo
ornato di piume di rosso e
sono variate altre parti, come e col cimiero di una donna al
naturale, nascente, vestita di rosso, colla veste ornata d’oro intorno al collo
e sul seno….
Inquartato (è lo scudo diviso in 4 parti
uguali da 2 linee, 1 verticale e l’altra orizzontale che passano ambedue per il
centro, P. GUELFI CAMAIANI, Dizionario
araldico, Milano 1940, alle voci): al primo; d’azzurro a sette corone
d’oro, gemmate, sostenenti tre fioroni visibili, e due perle, pure visibili,
poste 1, 2, 1, 2, 1: al secondo; fasciato, tre pezzi d’argento e tre pezzi
scaccati di nero e d’argento, le fasce d’argento cariche di sei busti d’uomini,
i quali busti d’uomini potrebbero forse essere rocchi di scacchiere,
raffigurati come teste e busti d’uomini al naturale, coperti il capo di un cappello acuminato ed a larghe
tese pure di rosso, in maestà nascenti dallo scaccato, posti 3, 2, 1: al terzo;
d’argento, a quattro fiordalisi d’oro, per inchiesta, posti 1, 2, 1: al
quarto; d’azzurro al sole orizzontale,
destro d’oro, figurato di rosso, accompagnato
da una rupe al naturale movente dal canton sinistro della punta: sul tutto; d’oro all’aquila di nero, coronata del
campo ( indica che 1 figura ha lo stesso smalto del campo dello scudo); lo
scudetto ( piccolo scudo posto nell’arme come qualunque altra figura, spesso
sta sull’inquartatura o sulla partizione), cimato da corona comitale: cimiero;
una figura umana al naturale, vestita di rosso, colla veste ornata d’oro
intorno al collo e sul petto, stretta alla cintura, e coperta di un tòcco pure
di rosso, impugnante, colla mano destra, una picca al naturale, frangiata di
rosso, in banda. Corona (indica il grado di nobiltà) e manto di Grande di
Spagna; e cioè: corona consistente in un cerchio d’oro, gemmato, sostenente
otto fioroni, cinque visibili, pure d’oro, e carichi ciascuno di una perla; e manto
di velluto chermisino, guernito di frangia d’oro e foderato d’ermellini, ed
annodato in alto con cordoni d’oro terminanti in fiocchi pure d’oro.
Dei punti dello stemma descritto: il 1°,
il 2°, il 3° ed il 4°, secondo la tradizione, tutti e quattro, di Roberto di
Chiaramonte (vedi Tavola di Prefazione); il 2°, portato solo, era speciale dei
Capitani di Sondrio; lo scudetto sul
tutto, portato solo, è speciale dei Capitani di Scalve; per il loro stemma del
1789: asmi, Fondo Araldica, p. a., De Capitani, cart. 62.
I de Capitani di Scalve usavano il motto:
PULCRA FACIE ET
PULCRIOR FIDE. Tale motto era
scritto sopra un listello tenuto colla mano dalla figura umana del cimiero, e
disposto in modo che svolazzava in fascia sul di lei capo.
Il
conte Pirro Alessandro dei Capitani di Scalve: un patriota del 1821
Malgrado l’intervento di
questa donna, considerata nel borgo di Concorezzo la vera feudataria, la
situazione economica dei Capitani di
Scalve va deteriorandosi. Giovanna Serbelloni, Rosina era figlia di Venceslao
conte (del Sacro Romano Impero) di Sinzendorf, burgravio a Reinegg, conte e
signore di Sinzendorf e Thanhausen, tesoriere ereditario del S.R.I.,
ciambellano di S.M. Romana Imperiale Reale e della contessa Maria Antonia, nata
contessa del S.R.I. di Harrach. Nata a Vienna nel 1754, morirà a Milano il 19 aprile 1837.
Soffermàti sull' arida
sponda…
L' han
giurato: altri forti a quel giuro
rispondean
da fraterne contrade,
affilando nell' ombra le spade….
___________________________
NOTE
1 dante e. zanetti, La demografia del patriziato
milanese nei secoli XVII, XVIII e XIX, Università di Pavia 1972 con Appendice
genealogica di franco arese lucini,
p. 12.
2
Nel XVII
secolo il dominus venne sostituito
da don.
Cfr. anche f.calvi, Il
patriziato milanese, in asl
1874, da p. 414.
Con proclama del 31 dicembre 1796 Dupuy, comandante
francese della piazza di Milano, ordina la distruzione di tutte le armi
gentilizie, blasoni, scudi, stemmi ecc.
Qualche strascico dovette seguire, anche dopo il 1815, se il Porta
scriveva: Sissignor, sur Marches..
…e mi sont el sur Carlo Milanes, e bott lì!
senza nanch on strasc d’on Don (Sissignore, signor Marchese…e io sono il
signor Carlo Milanese, e fermo lì! senza
neanche uno straccio di un Don): c.porta, Le poesie, Feltrinelli editore,1964,
vol. I, p. 200.
“ Al posto del dominus sottentrò il don, nel secolo decimosettimo, il solo
titolo ufficiale a cui il patriziato avesse diritto, anche dopo che fu
assorbito dalla nobiltà. Fu negli elenchi ufficiali dei consiglieri comunali
dell’anno 1833, che si introdusse dalla autorità municipale l’uso di
sostituirlo coll’appellativo di nobile ”, f.calvi, op. cit.,
p. 424
3
c. manaresi, I prefissi d’onore e la prammatica
del 1591, in ASL, 25.1.1919, Serie V^, pp. 488-490. Cfr. pure lynn townsend white, Tecnica e società nel medioevo , Milano 1967,
passim.
4 g.b.angelini, Osservazioni genealogiche fatte sopra le pubbliche antiche
carte intorno agli estimi cognomi e titoli delle famiglie per la civiltà e
nobiltà loro, ed esposte alla comune notizia con l’aggiunta di utili
avvertimenti ad ogni buon fine del prete Giovanbattista Angelini da Bergamo nel
presente libro,
p. 60 (ms. del XVIII secolo conservato nella Biblioteca Civica di Bergamo).
5 c.cremonini, Il “Gran
Teatro” della nobiltà. L’aristocrazia milanese tra Cinque e Settecento, in
Teatro genealogico delle famiglie nobili
milanesi, vol. I, Mantova 2003, pp.15-16. Qui compaiono anche i
Cavanaghi, già presenti alla corte di Filippo Maria Visconti, quali conti di
Concorezzo. Eredi dei Cavanaghi nelle
proprietà in Concorezzo erano stati nel
XVI secolo i Visconti che rimasero nel borgo fin quasi alla metà del
Settecento.
6
Principali:
fonti documentarie esaminate: Archivio Storico Civico di Milano (A.S.C.M.) e
Biblioteca Trivulziana; Archivio della Curia Arcivescovile di Milano (A.C.A.);
Archivio di Stato di Milano(ASMi); Archivio di Stato di Cremona; Archivio di
Stato di Pavia; Biblioteca dell’Università di Pavia; Biblioteca
Ambrosiana(B.A.); Biblioteca Nazionale Braidense (B.B.); Biblioteca Civica di
Bergamo; Archivio famiglia dei conti Suardi; Archivio della famiglia Serbelloni
(A.S.C.M. e ASMi); famiglie Arese, Gallarati e parrocchia di S. Pietro
all’Orto, per la parte conservata nell’A.C.A. ed un’altra nell’Archivio di S. Maria dei Servi in S. Carlo.
Elenchus
familiarum in Mediolani dominio, feudis, jurisdictionibus titulisque insignium, di J.Benalius
Mediolani 1714; Theatrum genealogicum familiarum illustrium, nobilium et civium
inclytae urbis Mediolani, Johannes de Sitonis de Scotia JC mediolanensi, anno Virginei Partus MDCCV (ASMi).
E di
r. fagnani, Commenta familiarum manuscripta, voll. 9
in folio, (B.A.). Un’opera questa del
Fagnani, nato a Gerenzano nel 1552 e morto a Milano nel 1623, nella quale sono
raccolti per circa 1300 Famiglie milanesi un’infinità di documenti tratti per
lo più dai pubblici Archivi.
Tra le fonti letterarie: consultare, Storia di Concorezzo, 1978, passim, f. pirola, per ciò che rimane della
ricerca condotta, negli anni sessanta
del Novecento, che comprendeva pure la
famiglia de Capitani, coadiuvato dal Barni e dal conte Franco Arese. L’Arese discendeva, infatti, da Marco
Arese degli antichi Capitani di Arese, confeudatario
della pieve di Seveso, che sposò, il 24 ottobre 1610, Elena Rabbia vedova di Cesare de Capitani, nell’oratorio campestre di S. Vincenzo a
Concorezzo, dove i Rabbia possedevano molte proprietà, ed erano
comproprietari con i de Capitani
della cascina Barbavara, che aveva preso il nome dalla famiglia presente
alla corte viscontea ed in quella sforzesca.
Marco Arese morirà nel 1628, all’età di
50anni; Elena Rabbia morirà nel 1652, dopo avere dato due figli a Cesare de
Capitani, Daniele e Francesco, ed otto a Marco Arese.
Cfr. anche e.casanova, Nobiltà
lombarda genealogie, f. 18.
Franco Arese, che ha dato alle
stampe Genealogie patrizie milanesi
(1972), non vi ha inclusa quella dei Capitani di Scalve, salvo che per alcuni
vincoli matrimoniali con le 23 famiglie comprese nelle sue Genealogie. Cfr. nuovamente:
f.calvi, Il patriziato milanese
secondo nuovi documenti depositati
negli archivi pubblici, Milano 1875.
7
g.zanetti, Il Comune di Milano
dalla genesi al consolato fino all’inizio del periodo podestarile, in ASL
1934, fasc. IV, capitolo III, p. 523.
Fra le maglie del feudalesimo
ecclesiastico si va infittendo, come conseguenza della politica francone, la
trama autonoma e fitta del feudalesimo minore laico… L’infittimento feudale ha
come conseguenza l’infittimento dei castelli….
8
Cfr. ASMi, Araldica p.m., alla voce, c. 97.
La Genealogia,
che il terzo conte di Concorezzo, Pirro, aveva fatto ricostruire in latino,
ad usum Delphini, durante la sua
fortunata esistenza ed alla quale i de
Capitani si rifacevano di generazione in generazione, ma che non arrivò
forse al Tribunale Araldico e di
conseguenza non entrò mai a far parte del Teatro genealogico delle famiglie
nobili milanesi, non consente una verifica, non almeno sulla base dei dati
forniti in tale “ricerca” per le origini della dinastia. Si parte, infatti, dal
493 per arrivare al 900, coinvolgendo i
re dei Cenomani e, Bertha, sorella di Carlo Magno, e
proseguire fino al Settecento. In Appendice viene riportata la prima parte
della Genealogia, che non compare
nelle Genealogie dei de Capitani di Scalve, più o meno
ufficiali, dal secolo XVI in avanti.
Con il termine genealogia, che
costituisce una delle discipline ausiliarie della scienza storica, si tende solitamente ad indicare la elencazione
di un certo numero di nomi di soggetti, collegati fra loro da un rapporto di
parentela. Ma in questo caso, come
in altri, non è sempre possibile,
specialmente per i tempi più lontani, valutare l’attività di preparazione, di
studio e di ricerca che ha sotteso la
ricostruzione storica di questa serie di
nomi. Per non dire dei rapporti reali intercorsi tra le persone di un simile
mosaico.
Al tempo in cui i de Capitani di Scalve
fanno iniziare la genealogia della loro famiglia, Locarno rientrava fra i
territori variamente soggetti ai re italici.
9 g.p.bognetti, Studi sulle origini del comune rurale, Milano 1978, pp. 370-381.
Landolfo il Vecchio scrive che i
capitanei avrebbero creato i valvassori per meglio conservare i loro privilegi;
e che essi erano, forse, nobili di campagna.
10
e.besta, I Capitanei sondriesi,
Torino 1912, pp. 1 – 6, 17 – 19: testo edito da e.de muralt nel Codex
diplomaticus Capitaneorum
locarnensium e della Val Chiavenna,
vol. I, p. 185, Milano 1955 (Raccolta Studi storici sulla Valtellina).
11 e.mazzali – g.spini, Storia della
Valtellina e della Valchiavenna, 1968, vol. I, p. 58; e
p.s.quadrio, Dissertazioni critico-storiche intorno alla Rezia di qua dalle Alpi, oggi detta Valtellina,
Milano 1755, tomo I.
12 m.lupi, Codex Diplomaticus Civitatis et Ecclesiae Bergomatis, Bergomi, Ex
Typographia Vincentii Antoine, MCCIC,
tomo II, libro IV, p. 624, Ottone I, imperatore, si sarebbe interessato
nello stesso periodo anche della Valle di Scalve. (Mario Lupo, storico e
canonico bergamasco).
Ed a.mazzi,
Studii Bergomensi, Bergamo 1888.
13 g. romegialli, Storia della Valtellina e delle già contee di Bormio e di Chiavenna,
Sondrio 1834.
Gli autori della Storia della Valtellina,
Mazzali e Spini, osservano, però, che “Il titolo nobiliare era giuridicamente
del vescovo di Como, che aveva ottenuto nel 1006 la metà del viscontado di
Valtellina dall’imperatore Enrico II. Dunque non è escluso che questa
proiezione dell’autorità di Alberto verso la Valtellina risponda a un filo,
magari sottile, di verità. Né è escluso, contrariamente a quanto opina il
Besta, che una radice comune ticinese legasse i tre capitanei di Sondrio,
Teglio e Stazzona…”, p. 67.
Si potrebbe, forse, consultare anche il primo ed il secondo dei
10 libri di p.a.lavizzari, Memorie
istoriche della Valtellina, ediz. del 1838.
14 p. pensa, Dall’età carolingia all’affermazione della signoria, in Storia religiosa della Lombardia –Diocesi di
Como, 1986, pp. 46-52; c. donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secc.
XIV-XVIII, 1988.
15
e. mazzali-g.spini, op. cit.,
vol. I. pp. 68-69. “Gli istituti del capitaneato, dell’avocazia e della contea
si svuoteranno del loro contenuto
politico e giudiziario: resisteranno come semplici privilegi e benefici
economici e come titoli nobiliari, quando nel corso del Trecento si verranno
costituendo forti signorie e i poteri emaneranno direttamente dal
signore…All’inizio del secolo i capitanei di Sondrio, Corrado e Ruggero,
staranno con i Visconti. Questo ramo si
estinguerà nel 1436, p. 120.
16 e. bonaldi, Valle di Scalve, Milano 1965,
pp. 366; cfr. le pagine, dalla 17 alla
63. “…due sono i motivi principali che fin dai tempi remoti indussero gli
scrittori (Plinio nella sua Historia naturalis) a interessarsi della Valle di
Scalve: la sua ricchezza mineraria e le sue bellezze naturali…In antico si
chiamava Vallis Decia, da Decio imperatore, nome che conserva tuttora il fiume
Dezzo…sul nome di Scalve non tutti sono d’accordo. Alcuni vorrebbero Scalve
derivato da scalpere =scavare= a motivo delle numerose miniere che vi esistevano…altri
attribuiscono scalpere all’escavazione operata dal fiume Dezzo lungo i
secoli…Certo è che la valle è scavata in ogni senso e dalla natura e
dall’uomo…”, pp. 17-18.
17 “Con
pubblico istromento 6 novembre 1222, a
rogito di Lanfranco Sosena, notaro del Sacro Palazzo, Giovanni vescovo di
Bergamo fece locazione perpetua in Veneziano
e nei suoi figli Giacomo e
Raimondo , in Raimondo figlio del fu Ghislanzone, in Rogerio fu Giovanni, in Enrico fu Cavalcaselle ed in
Viviano fu Alberto tutti de Capitaneis de Scalve e tutti cittadini di
Bergamo…”, dalla Genealogia dei Capitani
di Scalve, cittadini bergomensi.
18
Il
documento si trova nell’Inventario degl’Istromenti della Valle
di Scalve, al foglio 103 e porta la data 6 novembre 1222. Ma i
Capitani di Scalve avevano già conseguito in parte i diritti feudali
prima dell’investitura del 1222 , per cui
essi pervennero così al possesso della totalità di tali diritti. e.
bonaldi, op. cit. pp. 58-59.
19 e. bonaldi, op. cit., pp. 59-60.
Nel
XIV secolo la Valle passerà sotto i Visconti e nel XV secolo sotto la Repubblica di
Venezia.
20 Il
nome di Filippo e la data qui segnata non compaiono, però, nella Genealogia dei
Capitani di Scalve, cittadini bergomensi. Compare, invece, Giacomo “defunto
padre di Veneziano in un istromento di convenzione, rogato nel 1251, indizione
nona, da Pietro Lanfranco Rocca, notaro pubblico bergomense.”
21 Questo
si legge nella Tavola IV della Genealogia della Famiglia de’ Capitanei da
Scalve e dalla quale si apprende
dell’”Arma: d’oro all’aquila di nero, coronata del campo. E che:
“Nel convento di S. Francesco in Bergamo si trovava sotto
un’arcata a sesto acuto il monumento della famiglia de’ Capitanei da Scalve”
con un’iscrizione in latino posta tra una croce scolpita ed uno scudo scolpito.
Haec volta cum sepulchris in ea constructis factis fuit M.CCC.VII.”
22 a. s. c. m., Fondo
Famiglie, cart. 577 ( Una storia dei
Capitani di Scalve, in latino).
f. argelati, nel volume I di Bibliotheca Scriptorum Medionalensium
seu Acta et Elogia virorum…,
in Aedibus Palatinis, 1745, pagina 279,
attribuisce a Galeazzo Maria, duca di Milano dal 1466 al 1476, il dono ad Assalonne de Capitani, medico
ducale, figlio di Pietro Lorenzo noto fisico morto a metà del Quattrocento, di
una casa in Milano, Porta Orientale, San Pietro all’Orto parrocchia di San
Babila dove questa famiglia abiterà fino alla sua estinzione.
Mentre nelle carte della famiglia de
Capitani è scritto che fu il duca
Francesco Sforza a donare ad Assalonne “un palazzo nelle parrocchia di San
Pietro all’Orto, nel quale aveva dimorato Galeazzo Visconti (nel secolo
precedente).
Esso Assalonne è detto, quindi, abitante
nella parrocchia di San Pietro all’Orto in un istromento rogato il 19 gennaio
1460 dal notaro Ludovico de Leporibus, col quale istromento, esso Assalonne, in
presenza del nobile ed egregio uomo signor Beltramino da Besozzo, console di
giustizia di Milano, fece acquisto di una proprietà nel territorio di
Parabiago. Testò con istromento rogato in Milano, nella parrocchia di San
Pietro all’Orto, il 7 agosto 1474, dal notaio Pietro de Leporibus, istituendo
erede Pietro suo figlio legittimo e naturale.
Il 29 aprile 1486 gli venne posto un
epitaffio su marmo nel Cenobio della Pace. Ebbe in moglie Apollonia dei conti
Benagli, da Bergamo.
Il figlio Pietro fu dottore nelle arti
liberali e nella medicina. Ebbe in moglie Donnetta Corio, di famiglia patrizia
milanese.” Anche il figlio di Pietro,
Giovanni Cristoforo, eserciterà la professione del padre. Sua moglie, Cecilia
Ghisolfi, milanese, per il Sitoni,
avrebbe tratto le proprie radici “ ex Regum Longobardorum sanguine”.
23
Da Clara
Leonarda de Capitani e Cesare Porro nacque Leonarda Porro, la quale sposò
Antonio Porro e fu madre di Daniele, di Cesare e di Pietro, francescano.
Daniele Porro, dal canto suo, condusse in moglie Bianca Missaglia e lasciò una
primogenitura a favore della famiglia de Capitani, escludendone il fratello
Cesare ed il nipote Antonio. A seguito di questa primogenitura i de Capitani aggiunsero al loro il cognome
Porro.
Questo loro legame di parentela ce
li farà incontrare a Meda, pieve di
Seveso, dove i Porro hanno proprietà che i Capitani di Scalve erediteranno dal figlio di Cesare,
Daniele.
Qui, nella villa, divisa dalla chiesa
dall’ex monastero di S. Vittore, la cui costruzione sarebbe iniziata nella
seconda parte del Cinquecento e terminata alla metà del Seicento, risedettero i
de Capitani di Scalve. In essa sono conservati i medaglioni di
personaggi della famiglia con
relativa storia.
La villa passerà, alla fine, ai conti Carpegna Melzi d’Eril.
A Meda tra il 1619 e il 1633, anni in cui
la fame fa da padrona, Daniele acquisterà altre proprietà dai Lanzani e dai
Cimnaghi. Già Cesare, suo padre, aveva permutato beni in Meda con Antonio de
Lomatio fu Ambrogio nel 1588.
I de Capitani di Scalve si trovano ancora
a Meda sul finire del Settecento. Cfr. anche R. MAFFEO, Un progetto del 1783 per deviare il torrente Certesa al fine di
migliorare l’irrigazione dei boschi di Meda e Seveso, p.24, i
Quaderni della Brianza, n.104, gennaio-febbraio 1996.
24
Cfr. Statuta et ordinationes dominorum phisicorum Collegii Mediolanensis, Mediolani, per gottardum de ponte, 1517; dei quali l’XI
recitava: Nessuno si ammetta o si riceva
nel Collegio dei medici se non cittadino di antica data - non per credenziali-
originario di Milano o del ducato ed appartenente a discendenza nobile
ed antica di almeno 120 anni.
Nell’insigne collegio dei fisici si
ricevevano solo coloro che offrivano prove di nobiltà, scrive anche
f. calvi, op.
cit., p. 416.
25 Questo
Pirro acquista i primi beni immobili in
Concorezzo nel 1583: ASCM, Famiglia de
Capitani , c. 578.
Vengono anche segnalati, per lo stesso
Pirro, i notai G. Giacomo Crivelli: 10.4.1562 e Paolo Omati: 19.8.1573.
26 Marc’Antonio
Gallarati aveva dettato il suo testamento il 17 settembre 1580 al notaio Pomponio Bosisio fu Fabrizio,
rubriche ed istromenti passati poi al notaio Prospero Carnaghi. Egli volle,
dopo la sua morte, essere portato a Concorezzo e seppellito nella chiesa di S.
Damiano in cui era sepolta sua madre.
La famiglia Gallarati, a metà ‘500, ha
una cappella nella chiesa del monastero di S. Angelo in Milano, nella quale il
pittore Gaudenzio Ferrari affrescò Il
martirio di S. Caterina. Nella medesima chiesa anche i Trivulzio avevano
una cappella. Cfr. ASMi, Trivulzio, registri, 10b f. 90. Qui troveranno sepoltura in avvenire i de
Capitani, salvo alcuni a Concorezzo o a Meda.
Pure l’altra sorella del Gallarati,
Margherita, che aveva sposato Giorgio Crivelli
dal quale aveva avuto un figlio, Fabrizio, riceverà una parte di
eredità.
27
Cfr. Memorie storiche di Monza e sua Corte, raccolte ed esaminate dal canonico anton francesco frisi, teologo della
basilica collegiata di S. Stefano
Maggiore in Milano e socio di varie accademie d’Italia. In 3 volumi, Milano
MDCCXCIV, tomo I, cap. V, p. 42. g.
marimonti, le integra nelle sue Memorie, Monza 1841, e
riporta, a p. 306, la Serie
cronologica degli arcipreti di Monza colla nota degli anni ne’ quali trovansi
le prime e le ultime loro memorie.
E, presso
ASMi, johannes de sitone di scozia, Theatrum genealogicum cit.,
f. 112.
E’ assai probabile che Agosto de’
Capitani di Scalve abbia conosciuto Carlo Borromeo al tempo in cui questi si trovava alla Corte
di Pio IV, suo zio. E quando il Borromeo fu a Milano, quale arcivescovo, chiamò il
de Capitani, non più giovane come lui e certamente esperto della vita
curiale, a reggere la Chiesa di Monza che da secoli rivestiva una posizione di
rilievo nei suoi rapporti con Milano. Ma questo non è sufficiente a completare
il nostro quadro: sarebbe necessario
conoscere più a fondo spirito e condizioni del de Capitani
almeno in quel momento.
28
Istromento
rogato a Milano il 5.3.1593 dal notaio Genesio Calco fu Gio. Antonio.
29
Come ho
accennato in nota 6.
Dal 1626 Cesano Maderno fu feudo degli
Arese e poi dei Borromeo. Inoltre, per due generazioni gli Arese gestiranno la
presidenza del Senato milanese
30
I Silva
erano grandi proprietari in Concorezzo. Il matrimonio fu celebrato il 25
settembre 1582: testimoni il conte Fulvio Rabbia, Gerolamo Melzi e Francesco
Brugora, tutti proprietari nel borgo, ma tutti residenti a Milano.
Notaio Dionisio Legrantia fu Domenico. Annibale Silva ha 28 anni. Dal
loro matrimonio nasceranno 7 figli: Anna
Vittoria, Ippolita, Giulia, Agostino Baldissare, Ottavia, Anna Beatrice e Carlo
Francesco ( pochi sopravvissuti alla prima infanzia).
31 Nella
genealogia della casata compare
Giovan-Battista-Melchiorre-Daniele.
Daniele che fu , nel 1610, anche l’erede
universale di Giulio Vimercati fu Gio.
Francesco di Vimercate, parente dei
Silva: rogito del notaio Ottaviano Oraboni fu Gio. Pietro.
Egli, inoltre, sarà ricordato nella
chiesa delle monache di S. Lorenzo in
Vimercate con tre offici funebri ogni
anno. Cfr. anche e. cazzani, L’Archivio
plebano di Vimercate, cart. XIV fasc. 5°.
32
Cinque di
questi figli furono femmine, delle quali due entrarono in convento; altre due
nacquero a Concorezzo nel 1632, gemelle, Teresa e Paola. Teresa sposerà, il 26
agosto 1653, Maurizio Arcimboldi, marchese di Arcisate.
Tra Cinquecento e Seicento, ed una
parte del Settecento, vi fu un uso rigoroso, nelle famiglie della
nobiltà milanese, del maggiorasco abbinato ad un equilibrio numerico fra i
cadetti destinati alla carriera ecclesiastica o a quella militare e le figlie
alla vita monastica, salvo eccezioni nell’interesse della famiglia.
La
moglie di Daniele, secondo l’estensore di una bozza di Genealogia dei Capitani
di Scalve, sarebbe morta a Concorezzo tra il
1632 e il 1637.
33 Impegnata
in continue guerre, con un fisco sempre pericolante, la Spagna non poteva non
trasferire in appalto entrate di ogni sorta e l’esercizio postale fra queste.
In altra fonte si legge che Daniele fu Correo
Mayor anche dal 1647 al 1660. Era il Magistrato ordinario dello Stato di
Milano, inerendo ai reali dispacci del re di Spagna, ad emettere le grida di
conferma dell’investitura postale. Questo Magistrato controllava le imposte
dirette e indirette, ordinarie e straordinarie. Mentre il Magistrato
straordinario controllava l’amministrazione dei beni feudali, metteva all’asta
i feudi vacanti, concedeva esenzioni e deroghe e provvedeva alla riscossione
delle entrate.
Compaiono alcuni dei notai che rogarono
per Daniele: G. Antonio Crippa (11.12.1624); Fabio Cattaneo (16.10.1630);
Palamede Staurenghi (9.2.1640) e Francesco Gerolamo Rubeo (20.12.1651).
34
Cfr. a. dionisio, Gli Stampa di Soncino. Politiche territoriali di una famiglia
aristocratica nella Lombardia dell’Ottocento, in ASL
1997, pp. 213-215.
35
Lo si
desume dalle perizie estimative ed alcune dettagliate descrizioni dei loro
possedimenti terrieri contenute in
atti notarili e catastali.
36
Cfr. f. pirola, op. cit.,
p. 248-250.
Fino al 1690 Concorezzo non risulta sia
stato mai infeudato. L’1.1.1475, infatti,
quando gli Sforza concessero Vimercate e sua pieve in feudo ai Secco
(Borella), Concorezzo non vi era stato incluso. Lo conferma la “comparizione”
del console della Comunità di Concorezzo il quale ciò sostenne “prestando
giuramento di fedeltà alla Regia Camera il 12.6.1602.”
37
A.S.C.M., Fondo località foresi, c. 52.
Il 3.9.1620 compare un bando per “ la
vendita in feudo del luogo di Concoreggio con il luogo di Agrate “, con la
richiesta di lire 14mila imperiali.
Il 2 novembre 1682 Pirro avanza istanza
per ottenere in feudo la terra di Concorezzo, accordandogli il titolo di conte
sulla medesima, al conte de Melgar, il quale la inoltra a Carlo II il 19.8.1684.
Il 6 luglio 1685 il Magistrato
straordinario ordina che siano esposte le cedole intendendo vendere il feudo di
Concorezzo. E si prenda, pertanto, nota
delle oblazioni.
Ma è con l’ordinanza del 30 luglio 1685
che il feudo della terra di Concorezzo, posto in vendita, si avvicina sempre
più ai de Capitani di Scalve.
Il 21.1.1686 il Magistrato chiede se vi sono state oblazioni. Dieci
giorni dopo si risponde negativamente. Ed il 12 febbraio si scrive, sotto la
stessa richiesta del Magistrato, che non vi sono state oblazioni né per la
compera né per la redenzione di questo “feudo ducale”.
“ Nel 1600 si vendevano al Broletto
tenimenti feudali con estesi diritti di giurisdizione, proventi di dazi ecc. e
la smania di possederne era cresciuta a dismisura per l’imperare della boria e
del fasto spagnolesco, e il governo ne traeva cospicuo lucro…all’aprirsi del
Settecento la nobiltà godeva privilegi civili e immunità fiscali e giudiziarie
di gestione quasi esclusiva degli interessi
comunitativi, di monopolio delle cariche più importanti, di diritti di giurisdizione sugli uomini del
feudo…” g. tivaroni, L’Italia
prima della Rivoluzione francese,
Torino, Roux 1888, p. 149.
38
E’ scritto
nel testamento in 40 fogli a stampa, ad
una sola facciata, dettato da Pirro il 30 ottobre 1689, (in altra carta si
legge: “…ora abitante nel Borgo di Concorezzo per le vendemmie…”); e conservato
in A.S.C., Famiglie. In esso sono
contenute notizie, sia su Pirro che sulla famiglia, non tutte presenti nelle
varie tavole genealogiche dei Capitani a partire dal Cinquecento. v. forcella, Milano nel secolo XVII, Milano 1898, pp.53-54 scrive che per la pace tra Francia e Spagna
del 7.11.1659, Milano fece coniare una
medaglia d’argento “a commemorare un sì
fausto evento” con lo stemma della Città ed altri due stemmi, del
Vicario di Provvisione, che era Pirro de’ Capitani di Scalve, e del provicario,
Barnaba Barbò, con la leggenda.
Nel 1679 Pirro venne nominato con Antonio
Della Porta ambasciatore presso la Corte di Madrid per fare conoscere le
estreme miserie dello Stato “ed implorare rimedio alle afflizioni presenti”.
Dal 1660 al 1679 non era stato ammesso alla Corte alcun ambasciatore di Milano.
Ma fino all’ottobre del 1681 fu rimandata la loro partenza: Cfr. angiolo salomoni, Memorie storiche diplomatiche
degli ambasciatori, incaricati d’affari, corrispondenti e delegati che la città
di Milano inviò a diversi suoi principi dal 1500 al 1796, Milano MDCCCVI ,
Capo LXXXVI, Legazione di Pirro Agostino de Capitani di Scalve e di Antonio
Della Porta a Carlo II nel 1681, pp. 386-388. Il Salomoni è bene informato
anche su Pirro. Però non dice perché
Pirro fu in Spagna nel 1666 , come si
legge nel suo testamento del 1689.
39
In Fondo Finanze p.a., c. 180 , ASMi, Giovanni
Gallarati compera dalla Camera ducale il dazio dell’imbottato di Concorezzo, Passirano, Agrate; Galeazzo
Maria Sforza lo vende alla famiglia Secco nel 1476 l’anno successivo al loro
insediamento nel feudo di Vimercate e da allora, o l’un dazio o l’altro (pane,
carne, fieno) passa di mano arrivando ai de Capitani al principiare del
Seicento dalla Comunità di Concorezzo.
Il 28.9.1622 ecco il nome di Daniele
Porro de Capitanei e nel 1689 quello del
conte questore Pirro assieme al dazio del fieno e all’osteria del borgo.
Nel 1691 essi hanno i dazi del pane, vino
e carne, oltre l’imbottato.
Il 22. 3. 1672 il
rev. don Bernardino Sirtori fu
Gio. Paolo, cappellano del Collegio dei Giurisperiti di Milano, acquistò dal conte Donato Silva fu Gio.
Antonio, che lo aveva dal 20. 12. 1645, (notaio Giuseppe Baciocchi) il dazio
del fieno dell’osteria del borgo per “il dottor Pirro de Capitani, giudice dei
dazi nello Stato di Milano per reale privilegio” (nel 1674 egli godeva già da
12 anni “la giudicatura dei dazi regi”).
Oltre alla costituzione ed il
rafforzamento del patrimonio immobiliare non si
trascurava l’investimento in beni
fondiari ed in capitali per ottenere rendite costanti attraverso l’esercizio di censi, prestiti, affitti e livelli che
contribuivano a creare un sistema clientelare e relazioni sociali. Per parte del Settecento la fornace di
mattoni in Concorezzo appartiene ai de Capitani. Ad essi la Comunità di
Concorezzo sarà debitrice, dal 1690 fin oltre il 1770, di lire imperiali 7.000.
Cfr. inoltre, ASMi, Fondo Catasto, c. 2997, registro anni successivi.
40
Così
iniziava: J. Questor Pirro de Capitani -
Illustrissimo Signore, Pirro de Capitani dice che S. Maestà, Deo gratias,
usando della sua reale misericordia, dopo di averlo gratiato di suo moto
proprio d’una piazza di Questore nel Magistrato Ordinario, ha voluto di più
gratiarlo d’un titolo di Conte et dovendo per compimento della mercede
appoggiarlo; supplica V.E., che per esecutore di R. Ordini presentati et
evacuati, voglia servirsi d’ordinare…” (senza data).
Nel foglio in data 20.10.1696, unito
all’istromento di possesso del 23.9.1696, si legge fra l’altro: ”Dal Magistrato
nostro, in esecuzione delli ordini di Sua Maestà e di Sua Ecc. è stata fatta
vendita al fu conte Questore Pirro de
Capitani del feudo della terra di Concorezzo e sua giurisdizione che l’acquistò
unitamente con il conte G. B., suo fratello per il prezzo di lire 72 imperiali
per ciascun fuoco, da compensarsegli sopra il credito che tengono detti
fratelli verso la Regia Camera per le sovvenzioni fatte dal fu Daniele loro
padre al tempo che occupò il posto di Corriere Maggiore di questa Città…”,
ASMi, Atti di Governo, Feudi camerali, p. m., Comuni.
41 9.11.1689:
“lettera reale diretta a S.E. don Antonio Lopez, Governatore e Capitano
Generale dello Stato di Milano con la quale proroga a S.E. la facoltà, per
altri due anni, d’impegnare e vendere effetti camerali”: ASMi, Fondo s. cit.
42
Il borgo di
Concorezzo, nel 1696, contava 77 case di abitazione, di cui un terzo
apparteneva ai de Capitani; ed una popolazione di 732 persone, comprese quelle
residenti nelle 10 cascine, delle quali tre erano proprietà dei Capitani. Cfr. f. pirola, op. cit., pp. 226, 460-466.
Il 20
settembre prestarono giuramento per l’infeudamento di Concorezzo 220 uomini, da altra fonte 211, sopra i 14
anni.
43
Da albero genealogico della Famiglia
de’ Capitanei da Sondrio, tavola II.
“…Sappiamo per certo che attorno al Broletto
c’era, già alla fine del Duecento, la residenza di judices seu jurisperiti qui continuo audiunt causas. Nel consiglio che gestiva gli affari della
città sedevano jurisperiti collegii
judicum Mediolani…il Collegio dei Giuriconsulti si perpetua per
cooptazione; richiede completa formazione giuridica; esige antica cittadinanza
milanese che solo nell’età patrizia diventa formale requisito nobiliare… Il
Vicario di Provvisione (equivalente al nostro sindaco) ed il luogotenente del
Re erano comunque tratti dai Giuriconsulti”:
g. rumi, I Giuriconsulti, una classe dirigente per Milano, in Ca’ de Sass, 1995, pp. 19-20.
44 Pirro
, inoltre, nel 1658 era stato R.L. Tenente della Provvisione. E …”per gli anni
1660-1661 il Senato lo elesse Vicario del Podestà di Milano”.
45
Cfr.
pure f.
arese, Elenco dei Magistrati
patrizi di Milano –dal 1535 al 1796, Vicari di Provvisione, in ASL
1964-65, pp. 5-27: p.17.
46
e. casanova, Dizionario
feudale, p. 38: l’istromento di
investitura venne rogato da Giuseppe Benaglio, notaio camerale; il diploma di
Carlo II, interinato il 29 agosto 1691 e il 23 settembre 1696 l’istromento,
rogato da Francesco Vallotta, notaio camerale, per il possesso al conte
Gianbattista, essendo morto nel frattempo il
di lui fratello Pirro. Lo stesso
Francesco Vallotta che, presidente delle R. Ducali Entrate e Beni patrimoniali
dello Stato di Milano, il 15 marzo 1687 aveva informato il governatore di
Milano di come si erano svolti i vari
passaggi, dal 2 novembre 1682, per deliberare
al Questore Pirro de Capitani il
feudo di Concorezzo.
47 “ La famiglia patrizia
poggiava su di un rigoroso ordinamento patriarcale che il Rinascimento,
modellando a propria misura tutti i valori della cultura classica, aveva
riportato in auge, e che il Seicento aveva reso ancor più solenne con lo sfarzo
nobiliare e l’austerità controriformista.
Il pater
familias ripeteva nell’ambito
familiare, l’autorità che il monarca esercitava sullo stato. Egli era per lo
più il primogenito della sua generazione, o comunque il più anziano dei fratelli viventi, spesso l’unico maschio che
era riuscito a superare le insidie della mortalità infantile…Le famiglie al
completo non si rivelavano, alla fine, così numerose
come potrebbe apparire da un esame superficiale del numero dei nati: la
mortalità infantile e giovanile creavano molti vuoti…
(Il primogenito) raggiunta la maturità,
accolto sulle sue spalle un buon numero di titoli d’onore e di pubblici uffici,
poteva guardare con fiducia al lontano traguardo di una veneranda età
circondata dal generale rispetto. Comandava incontrastato sulla moglie, sui
figli, su tutta una corte di dipendenti e servitori che gravitavano intorno al
palazzo cittadino o alla tenuta di campagna…La moglie gli era stata scelta, a
suo tempo, tra le fanciulle della migliore nobiltà, con la preminente preoccupazione
di mantenere integro, ed eventualmente di accrescere, il patrimonio familiare
destinato a perpetuarsi nelle future generazioni insieme al decoro sociale ed
al prestigio politico. Per questa stessa ragione non era un caso eccezionale
che la sposa venisse scelta dalla più stretta cerchia di parenti dello sposo:
cugina o anche nipote….” dante e. zanetti, op.
cit. , pp. 49-50.
48
Dell’
1.9.1690 è l’atto di vendita, 6 fogli in latino, del feudo di Concorezzo a
Pirro e al nome di suo fratello Giovanni Battista ed ai suoi discendenti. In questo atto ci si diffonde sui
precedenti di tale vendita.
49
Otto nella
Genealogia ufficiale di casa de Capitani (di cui due: Cavalieri “ricevuti”
nell’Ordine di Malta); nove per l’Arese che accanto a Pirro, Cesare (che aveva
uno schiavo, poi battezzato col nome di
Giuseppe), Lorenzo, Marianna, Carlo, Giovanni Agostino (morto in Meda), Anna
Teresa e Giovanni-Maria, registra un
Giuseppe n.1670- m. 1692.
Carlo-Agostino-Melchiorre, nato a Milano
il 26 agosto 1688, conseguì la laurea
dottorale nell’Università di Pavia e fu capitano del parco della città di
Pavia.
Nel 1726-27 e 1735-36 fu Vicario di
Provvisione di Milano. Godette, “don Carlo” accanto al fratello Pirro, di un
discreto numero di proprietà immobiliari ed entrate varie. Morì a Milano l’1
marzo 1761.
50 Se
la data di nascita è corretta, a Cesare-
Giovanni-Battista spettava la primogenitura.
51 Il
26.10.1751 viene emanata una grida dal
presidente e questori del Magistrato camerale per precisare che il conte Pirro
e il dottore collegiato don Carlo, suo fratello, sono i “padroni tanto dei dazi
vecchi di pane, vino, carne nel borgo di Concorezzo e suo territorio, feudo
loro, e dazio del fieno dell’osteria di detto borgo, acquistato… (vedi nota 38), quanto li dazi nuovi del pan
venale e vino al minuto in Concorezzo e nel luogo di Carugate e suoi territori, assieme del Pane venale del
Bettolino, detto di S. Albino…” Seguono
i divieti, le proibizioni per le “persone di qualsivoglia stato, grado e
condizione…” e ”…non si possa proibire
né impedire agli Agenti de’ suddetti Padroni, loro Conduttori l’entrare a loro
piacere nelle case, prestini, osterie e cantine
52 Allora
si diceva simile ad una villa di delizia.
Cfr.“Ville di delizia, o siano
palagi camparecci nello Stato di Milano, divise in sei tomi…incise e
stampate da marc’antonio dal re,
Bolognese, Tomo primo, dedicato all’Altezza Serenissima del Sig. Principe
Eugenio di Savoia e di Piemonte, Milano,
MDCCXXVI. Di codesta edizione –incompiuta- il Dal Re fu l’incisore, mentre i
disegni vennero eseguiti da G. B. Ricaldi, altro artista bolognese; ogni stampa
reca i due nomi.
L’insieme delle tavole ha un grande
valore documentario, sia per le architetture, sia soprattutto per i giardini
oggi scomparsi o assai trasformati. (II^ edizione 1743, della quale uscirono,
però, solo due volumi; nuova edizione a
cura di P. F. Bagatti Valsecchi, Milano 1963).
Questa villa, già nella mente di Pirro e
Giovanni Battista ma realizzata dal terzo conte di Concorezzo, aveva un ampio
cortile sulla fronte ed un grande giardino (di circa 17 pertiche milanesi corrispondenti a circa 11mila metri
quadri) con tracciato all’italiana, in
un ordinato e simmetrico sistema di viali e di aiuole, sulla fronte interna; ed
era composta da una trentina di locali; cfr.
f. pirola, Il borgo di Concorezzo nei documenti del catasto settecentesco e Il
territorio di Concorezzo dal censimento
di Carlo VI e di Maria Teresa d’Austria, rispettivamente in i Quaderni della Brianza, nn.149/150 a. 2003
e n. 155 a. 2004.
Presso la Sovrintendenza ai Monumenti per
la Lombardia un cenno al palazzo, vincolato secondo la legge 1.6.1939 n. 1089:
…”pregevole edificio con architetture della fine del Settecento nella parte
posteriore e validi inserimenti ottocenteschi (1831-1841 e 1846; e 2 portici in 8 campi )– restaurate 7 stanze a
piano terreno e 5 superiori, comprese 3 dette alla capuccina, secondo denuncia
di Francesca D’Adda de Capitani del 3.6.1854 - ASMi, Fondo Censo, c. 2509- nella fronte e nell’organizzazione del piano
terreno che presenta vasti saloni e imponente atrio con arcata a pieno centro e
colonne di ordine dorico. I solai si presentano solidi ed in buone condizioni.
Non è stato possibile eseguire assaggi per stabilire le caratteristiche costruttive
della struttura, che data l’età dell’edificio, si presume costruita in travi ed
impalcato di legno. Tuttavia a giudicare dalla rigidezza e dalla mancanza di
frecce sensibili sui pavimenti è lecito ritenere che i solai siano stati
costruiti a perfetta regola d’arte e che offrano tuttora buone garanzie di solidità…”
E una relazione tecnica del 1966: “ …le murature portanti sia
perimetrali che interne sono costituite da corsi anulari continui in mattoni
pieni intercalati a fasce di ciottoloni di fiume impastati con malta piuttosto
magra. Lo spessore è proporzionato alla situazione statica in atto. In generale
le murature si presentano in buone condizioni statiche…”.
Dinanzi all’ingresso principale di questa
villa o palazzo, nel Settecento, erano collocate delle catene, che si reggevano
su colonnine, per indicare un privilegio del feudatario. Esse vennero tolte e spezzate dopo che i D’Adda,
eredi dei de Capitani, la cedettero al Comune che vi pose la sua sede e
nel 1880 anche le Scuole elementari. Nel
frattempo essa era stata spogliata insieme al giardino dagli ultimi de
Capitani.
Nel secolo successivo crollò un’ala del
palazzo. Il suo recupero non so se
sia stato attuato sulla base dei “tipi” ai quali si accenna nel Catasto di Maria Teresa o di quei disegni
che da quella famiglia passarono di mano
in mano (ma che il 9.3.1849 erano segnalati
ancora in Concorezzo).
53 Sappiamo
che i de Capitani vantavano, dal 1691-1692, quattro censi sul Comune di
Concorezzo: sopra il sale; sopra l’aumento del sale imposto e venduto dalla
città di Milano e due altri acquistati da Giovanni Ceruti “sottomessa persona
del conte questore Pirro de Capitani” (ASMi, Fondo Censo , c. 1000).
Ho accennato altresì come
alcuni de Capitani lasciavano nei
loro testamenti legati per la chiesa e lasciti per fanciulle nubende povere. Ma
questo lo avevano fatto e lo facevano
anche gli altri grandi proprietari terrieri, stando forse più vicini al clero
locale ed agli abitanti del borgo.
E per quanto riguarda la memoria di un
centro demico, libero da padroni nei
tempi lontani, le opinioni sono diverse.
Per citarne una: “I soli tiranni
reali dell’umanità furono sempre le ombre dei morti o le illusioni che essa si
creò”, g. le bon, in Psicologia delle folle, Milano 1946,
p.185.
54
“Quando si
dovevano imporre carichi straordinari determinati dal Consiglio generale, con
l’approvazione del governo, l’esecuzione veniva affidata alla Congregazione del
Patrimonio, che si costituì nel 1599, vista la difficoltà da parte del Vicario
di sbrigare tali affari. Questa commissione era composta di otto soggetti o
membri, due erano dottori, sei patrizi, il Vicario di provvisione e il
Luogotenente come rappresentante del governo…..Spettava a detta congregazione
l’invigilare al buono regolamento delle Arti, decidere le cause degli
estimi che nascono fra le Università
(corporazioni) accordare ribasso dell’estimo alle Università che decadevano
(questo specialmente nella seconda metà del sec. XVIII)…” a. visconti, La pubblica amministrazione
nello Stato milanese durante il predominio straniero (1541-1796), Roma
MCMXIII, pp. 417-418.
55 Costanza
Fornara nacque in Milano il 14 agosto 1747 ed ivi morì il 2 maggio 1800. “Il di
lei cadavere fu portato incognitamente
nel sepolcro dell’eccellentissima casa de’ Capitanei
in Concorezzo”.
56
ARMA gentilizia del conte Pirro de Capitanei per
decreto del R. I. Consiglio di Governo 22 aprile 1789 (Codice araldico di
Lombardia, pag. 205), - in una Tavola
della Genealogia dei de Capitanei da Sondrio
la data del decreto è 22 aprile 1785 e compariva nell’ASMi.
Il 3 aprile 1789 il pittore Francesco
Antonio Sarroni, abitante in Porta Nuova, parr. S. Francesco di Paola al n.
1477, certifica di avere “ricavata e fedelmente ricopiata l’Arma gentilizia della Casa de Capitani e
particolarmente dall’anticho Baldachino che or esiste nell’anticamera della
medesima…con mio speciale giuramento…” alla presenza di Vincenzo del Maino,
notaio milanese:ASMi, Fondo Araldica, p.
a., De Capitani, c. 62.
Dalla descrizione, riportata qui di seguito, manca, però, “elmo ornato di
piume di rosso” e sono variate altre
parti, come “e col cimiero di una donna al naturale, nascente, vestita di
rosso, colla veste ornata d’oro intorno al collo e sul seno…”.
Inquartato (è lo scudo diviso in quattro
parti uguali da due linee, una verticale e l’altra orizzontale che passano
ambedue per il centro, p. guelfi camaiani,
Dizionario araldico, Milano 1940,
alle voci): al primo; d’azzurro a sette corone d’oro, gemmate, sostenenti tre
fioroni visibili, e due perle, pure visibili, poste 1, 2, 1, 2, 1: al secondo;
fasciato, tre pezzi d’argento e tre pezzi scaccati di nero e d’argento, le
fascie d’argento cariche di sei busti d’uomini, i quali busti d’uomini
potrebbero forse essere rocchi di scacchiere, raffigurati come teste e busti
d’uomini al naturale, coperti il capo di
un cappello accuminato ed a larghe tese pure di rosso, in maestà nascenti dallo
scaccato, posti 3, 2, 1: al terzo; d’argento, a quattro fiordalisi d’oro, per
inchiesta, posti 1, 2, 1: al quarto;
d’azzurro al sole orizzontale, destro d’oro, figurato di rosso,
accompagnato da una rupe al naturale
movente dal canton sinistro della punta:
sul tutto; d’oro all’aquila di nero,
coronata del campo ( indica che 1 figura ha lo stesso smalto del campo dello
scudo); lo scudetto ( piccolo scudo posto nell’arme come qualunque altra
figura, spesso sta sull’inquartatura o sulla partizione), cimato da corona
comitale: cimiero; una figura umana al naturale, vestita di rosso, colla veste
ornata d’oro intorno al collo e sul petto, stretta alla cintura, e coperta di
un tòcco pure di rosso, impugnante, colla mano destra, una picca al naturale,
frangiata di rosso, in banda.
Corona (indica il grado di nobiltà) e
manto di Grande di Spagna; e cioè: corona consistente in un cerchio d’oro,
gemmato, sostenente otto fioroni, cinque visibili, pure d’oro, e carichi
ciascuno di una perla; e manto di velluto chermisino, guernito di frangia d’oro
e foderato d’ermellini, ed annodato in alto con cordoni d’oro terminanti in fiocchi pure d’oro.
I de Capitanei usavano questo motto: Pulcra
facie et pulcrior fide. Tale motto
era scritto sopra un listello tenuto colla mano dalla figura umana del cimiero,
e disposto in modo che svolazzava in
fascia sul di lei capo.
Dei punti dello stemma descritto: il 1°,
il 2°, il 3° ed il 4°, secondo la tradizione, tutti e quattro, di Roberto di
Chiaramonte (vedi Tavola di Prefazione); il 2°, portato solo, era speciale dei
Capitanei di Sondrio; lo scudetto sul
tutto, portato solo, è speciale dei Capitanei di Scalve.
Per lo stemma dei Capitani di Scalve,
riprodotto in questo numero de i Quaderni della Brianza: ASMi, Fondo e cart. per l’Arma citati., (1789).
57
“Nel Collegio de’ Scoloppi in Siena”. Giovanni Battista e Carlo Pietro ereditarono
anche dal già nominato zio Giuseppe, regio canonico della chiesa milanese di S. Maria a la Scala
in S. Fedele.
58
Con il quinto conte di Concorezzo si può dire chiuso il feudo camerale che i de
Capitani considerarono quasi sempre come una
grossa fonte di reddito. I coloni
da loro dipendenti pagavano, infatti, secondo
il costume del paese, costume restaurato dopo il 1815, la metà delle
imposte e sovra imposte sul prediale, vale a dire sui fondi di proprietà del feudatario.
I de Capitani partecipavano all’elezione
del Capitano di Giustizia di Monza, specie di presidente di tribunale e ad un
tempo di questore che esercitava polizia giudiziaria.
59
Il
fidecommesso “vincolava un patrimonio immobiliare alla più assoluta integrità
per tutti i futuri passaggi di generazione, senza che i successivi eredi
potessero apportarvi alcuna modificazione”: dante
e. zanetti, op. cit. , p. 51.
60
Cfr. f. pirola, op. cit., pp.265-274. Interessante la corrispondenza intercorsa tra
parroco di Concorezzo e Curia arcivescovile. Proseguire nella controversia non
giovava, però, né all’una parte né all’altra: bisognava, innanzitutto, lasciare tranquilla,, la popolazione per non irritare ulteriormente altri
compadroni del borgo.
61
La madre di
Giovanna Serbelloni, Rosina era figlia di Venceslao conte del (S.R.I.) di
Sinzendorf, burgravio a Reinegg, conte e signore di Sinzendorf e Thanhausen,
tesoriere ereditario del S.R.I., ciambellano di S.M. Romana Imperiale Reale e
della contessa Maria Antonia, nata contessa del S.R.I. di Harrach. Era nata a
Vienna nel 1754 e morì a Milano il 19 aprile 1837.
I fidecommessi spettanti al di lei
fratello, principe Prospero, ultimo maschio di quella casata, pervennero alla
morte della madre di Giovanna Serbelloni a donna Rosina de Capitani di Scalve,
“alla quale è succeduto il vivente nobile don Alfredo Carcano” (vedere anche nota 64).
62 Pirro-Alessandro-Carlo-Paolo-Giovanni
Battista nacque a Milano il 22 marzo
1797; Costanza-Rosina-Beatrice-Maria-Luigia il 6 ottobre 1799; Rosina-Giovanna-Maria-Beatrice-Anna-Giulia
il 19 luglio 1801 e sposò nell’oratorio privato di casa de Capitanei in Milano
il 16 settembre 1822 il nobile don Luigi Leandro Carcano, patrizio milanese;
Francesca-Maria-Beatrice-Rosina-Giovanna-Costanza il 25 ottobre 1802 ; e
Laura-Agnese-Elisabetta-Sofia il 6 febbraio 1809: una rosa di nomi (da quattro a sei per ogni nato) che doveva soddisfare un parentado sempre più numeroso.
Rosina Giovanna, insieme alle sorelle Francesca e Laura, si trova
registrata col cognome de Capitani di
Scalve nell’elenco ufficiale dei
Nobili Lombardi del 1840.
Questi cinque figli del sesto conte di
Concorezzo concludono il ciclo di vita della famiglia de Capitani di Scalve,
cittadini milanesi.
63 Nel 1815 il prediale,
l’imposta fondiaria, dei Capitani di
Scalve a Concorezzo era di scudi 22.854. Ma, ottenuta la conferma di nobilt,à
del marito G. Battista, la contessa
Giovanna Serbelloni domanderà la sospensione del pagamento delle tasse.
Nel 1816, difatti la contessa scrive
che: “la tenue sostanza e le vistose passività della Casa de Capitani la
inabilitano allo sborso della somma di £ 4.605 a titolo di tassa”. Inoltre si
lamenterà che la salute del figlio Pirro, ancora nel 1818, risentiva a causa
della caduta,, da cavallo mentre faceva da paggio alla carrozza dell’imperatore
d’Austria di passaggio a Milano.
Un
rapporto di polizia austriaca del 1819
ci informa che gli ultimi de Capitani
si erano caricati di
debiti e le poche case che
possedevano in Milano erano di non molto valore. ASMi, Fondo Araldica, p.m., alla voce, c. 97.
64
“Il 25
novembre 1823 si pubblicò una notificazione sovrana coll’elenco dei fuggitivi
politici citati a comparire sotto pena della confisca dei beni sui quali fu oggi posto il sequestro. I qui notati sono
di Milano, altri delle provincie di Lombardia: Bossi marchese Benigno…De
Capitani conte Pirro…”, Diario del
canonico Mantovani (Diario politico-ecclesiastico di Milano), in Città di
Milano, nn.7/8, 1968, p. 144.
In una
“informativa” del 28.6.1823 compaiono i nomi e l’età dei figli del conte Giovanni Battista de
Capitani, a cui ho aggiunto altri dati: Pirro ha 26 anni; e le sorelle: Costanza ne ha 23 e
da 3 anni moglie di Francesco Lauzi, di famiglia di origine pavese, ma
cittadino milanese, di questo matrimonio fu unica prole un maschio, morto
infante; Rosina 22 e moglie di don Lorenzo Carcano da 3 anni (verrà decorata in
Vienna dell’Ordine della Croce Stellata, come riferisce la Gazzetta di Milano nel 1838); Francesca 20 (nel 1831 sposerà il
marchese, conte e barone Francesco Maria D’Adda Salvaterra e morirà a
Concorezzo il 18.8.1860; e Laura 14 anni (nel 1836 sposerà il marchese, conte e
barone Giuseppe D’Adda Salvaterra e
morirà ad 80 anni).
Alla morte di Francesca de Capitani, il
18 agosto 1860, la sua eredità passò a Laura d’Adda maritata Scaccabarozzi
(decreto 9.4.1862, n.16211).
65
Nell’attuale
via S. Margherita, vi era stato sino al 1784, anno della sua soppressione, un monastero di suore Benedettine. E nel
secondo periodo austriaco il vasto edificio ospitò la Direzione dell’I. R.
Polizia austriaca, con annesse le carceri,
nelle quali era stato inizialmente rinchiuso anche Silvio Pellico. Cfr. a. molinari, Conoscere Milano e le tradizioni
ambrosiane, Milano 1956, p.74.
66
“Come risulta
da lettera in data 4 gennaio 1838 da Vienna, firmata dal conte Maurizio
Dietrichstein la contessa Serbelloni de Capitani ricevette, accompagnata da lettera della
cancelleria dell’Ordine della Croce Stellata in data di Vienna 28 luglio 1838
la decorazione di quell’ordine, affinchè potesse portarla nell’occasione
dell’incoronazione a Milano di S. M. l’Imperatore e Re…”
67
Il 12 marzo
1850 con istromento notarile aveva diviso i suoi beni tra le due figlie,
Francesca e Laura: ASMi, Fondo Catasto,
c. 80. Alla morte di Francesca nel 1860,
come sopra accennato, l’eredità della sua parte livellaria passa il 12.1.1861
all’unica figlia Laura d’Adda maritata Scaccabarozzi. L’1.5.1862 passano a
Laura altre 2712 pertiche, eredità della madre. Laura,però, causa dissesto
finanziario, svenderà ciò che ha
ereditato a Lucini Giuseppe fu
Francesco: ASMi, Fondo cit., c. 454
(istromento d’acq,uisto del 29.5.1873).
68 dante. e. zanetti, op. cit.,
p. 68
69
Nacque a
Milano il 22 ottobre 1823 nella parrocchia dei
Santi Apostoli e di S. Nazaro e morì in Cremona il 7 gennaio
1895. Sposò il nobile Anton Maria
Albertoni, “conte di Scalve, e dei conti di Macherio”. Il loro figlio, Francesco Lorenzo
Albertoni accamperà “
diritti sul predicato di Scalve”; … mentre regio feudatario di Macherio
fu don Francesco Maria Albertoni nel
1787.
Questo Alfredo Giuseppe Carcano annota,
in un riquadro dell’ultima tavola
manoscritta (1772-1881) della Genealogia dei Capitani di Scalve da lui curata:
“…Avverto infine che il suddetto unico figlio maschio di donna Rosina de’
Capitanei di Scalve, nei Carcano, è pure l’unico maschio vivente che discenda
per unico mezzo femminile dal suddetto don Giovanni Battista de’ Capitanei di
Scalve, conte di Concorezzo…Gli altri maschi viventi discendenti dal medesimo,
ne discendono per duplice mezzo femminile”.
Vale a dire che i suoi cugini Albertoni
aspiravano al “predicato di Scalve”, predicato che, invece, spettava a lui , come pure il titolo
di conte. A causa di ciò fra sua zia Laura de Capitani, marchesa
D’Adda Salvaterra, ed il pronipote, Francesco Lorenzo Albertoni si
aprirà una vertenza. Questo Albertoni, infatti, aveva chiesto una dichiarazione
a conferma dei diritti che la sua famiglia aveva sul titolo di conte e sul predicato di Val di Scalve.
Alla fine il nobile Alfredo Carcano, patrizio milanese, dichiarerà
di avere passato al nipote
Francesco Lorenzo Albertoni i titoli suddetti.
E così la facoltà di aggiungere al nome
Albertoni il predicato di Val di Scalve
venne concessa al conte Antonio Albertoni, figlio di Francesco Lorenzo,
patrizio cremonese, con decreto del 21 gennaio 1883 da Umberto I: lettere
patenti date in Monza il 15 luglio dello stesso anno.
L’archivio dei Capitani di Scalve,
però, fu forse a Bergamo, a Cremona,
forse a villa La Rovella di Agliate, passata agli Albertoni e poi ad un Ordine religioso. Certo è che quell’archivio, come altri archivi del patriziato milanese
che della storia di Milano non ha
oltrepassato la porta maggiore (ma, in qualche caso, l’ha anche oltrepassata ), non si sa con precisione come,
né dove, sia finito. Non è
improbabile che la rivalità Carcano - Albertoni per il titolo di conte ed il
predicato di Val di Scalve vi abbia giocato la sua parte, almeno nella sua
dispersione
Ma…” nella società italiana
dell’Ottocento l’aristocrazia perde progressivamente i privilegi ascrittivi, le
distinzioni di ceto e il monopolio del potere politico ed economico di antico
regime, anche se rappresenta ed impone ancora i tratti peculiari del suo
sistema di valori , godendo sempre di prestigio.
Lo status aristocratico fu un modello
di riferimento soprattutto per le nascenti
forze borghesi….”: a. dionisio,
op. cit., in ASL, 1997, p. 197.
70 (a) cfr. bernardinus
corius, Hist. Mediolan., p. 10, 11, 15, 17; e Chronicon
antiquiss., in Archiviis Nobilium
Locarni.
Nella
Storia di Milano, Bernardini Corii Marci F. patricii, qui primus origines et inclyta Mediolanensium gesta monumentiis
literarum mandavit, patriae historiae, pars prima, alle pagine sopra indicate, si potrà fors’anche rinvenire
un’ombra di quanto scritto dal genealogista dei Capitani, ma quale reale
rapporto possa avere con tale famiglia… Per accreditarlo forse non sarebbe
bastata neppure la inimitabile virtù
dell’Ariosto.
71
(b) cfr. emmanuel, Tesaurus de Regno Italiae, p. 191; melmelanchto,
Chron. , lib. 3, p. 284; crescentius, Amphit. Rom., p.
200, 201, 311; girard, lib. 5, p.
237; ballarinus,
in Chron. Comensi ; paulus morigius, De nobilitate lacus Verbani
sive majoris; paulus
jovius, gulerus, Belloforest, Budei
Lexicon, &c. &c.
72 A
Raimondo descenderunt comites de Vertua bergomenses sic denominati a feudo
Vertue qui condecorati fuerunt ab Imperatore Carolo V, titulo Comitum
Palatinorum attenta illustri Origine; et etiamnum anno 1740! Ex iisdem extat
Comes Galeatius in civitate bergomensis, admodum illustris et conspicuus
possidetque etiam Feuda Bulgari et Albini.
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