Dal romanzo la coscienza del limite
…Il re scendere, forse, vorría, ma staccar non se ne può.
La morte aveva smosso dal suo Istituto Madre Carti e ora strappava alla sua banca Il commendator Parco. La vedova del suo segretario, il dottor Lorano, aveva ammesso che il marito soffriva di una malattia cardiaca ed Eugenio, erede di Parco, le aveva evitato il ritorno alla casa materna. Eugenio aveva ereditato l’intera fortuna del milliardario, compreso un atrio di un palazzo in piazza San Babila, nel centro di Milano.
Una manciata di spiccioli, qualche decina di milioni, era stata divisa fra una chiesa di periferia e l’Ordine religioso alla quale Madre Carti era appartenuta.
Mariella aveva ottenuta la dispensa per deporre il velo. Il primo passo per realizzare il matrimonio con Eugenio celebrato in un piccolo Santuario che, all’estremità di una ripida scalinata, si cela tra i boschi sulla sommità di un’altura dalla quale si intravvede scorrere l’Adda fra le sue anse silenti. Secondo il desiderio di Mariella. Anche sua sorella Marisa era presente alla cerimonia. E, prima che gli sposi salissero nella loro automobile, si era appoggiata ad Eugenio e gli aveva sussurrato all’orecchio. Lui le aveva sorriso volgendo il capo altrove.
Gli sposi erano andati ad abitare nell’attico di piazza San Babila in un dedalo di stanze e terrazze fiorite.
L’amico professore, l’ispiratore de La coscienza del limite, continuò a vivere nella vecchia casa di Vicorame, insegnando nell’antico collegio. Il rettore che ne aveva favorito il suo accesso si era ritirato in una casa di religiosi e il nuovo rettore accettò così com’era la scuola e i suoi docenti.
Mariella, ora fresca e bella signora, si recava di tanto in tanto nella villa a Vicorame a far visita alla sorella che era l’ombra della Marisa di un tempo.
In quel Borgo, nella villa di famiglia, Mariella incontrava ancora a volte il professore.
Il tempo trascorse.
I greci vollero Epimeteo, l’uomo del passato, e Prometeo l’uomo dell’avvenire, fratelli. Essi ritenevano che la riflessione dello spirito non potesse nascere che da un loro dialogo.
Prometeo, il quale voleva orientare la sua volontà pensante verso la conoscenza e il possesso dell’avvenire, non aveva esitato ad irritare Giove esponendosi anche al morso dell’avvoltoio quel giorno stava spiegando ai suoi allievi l’amico di Eugenio. Ma il motivo, quale fu il motivo che spinse a ciò? gli domandò Mattavelli dal primo banco.
Fra la volontà e il raggiungimento scorre tutta la vita di ogni uomo, ha affermato Schopenhauer.
Non afferro, professore, non capisco il rapporto…
Una chiamata urgente per lei, professore…da Milano, entrò di corsa nell’aula gridando il bidello.
Arrivato nella direzione e afferrato il ricevitore gli rintronarono nell’orecchio le parole concitate della bambinaia di Giorgino, il figlio di Mariella, corra,corra subito: è successa una disgrazia.
Era aprile. Il sole inondava la terra dissolvendo l’inverno e la primavera ricopriva la città con il suo cielo limpido. In via Palmanova, la via che scarica al Nord e all’Est una parte del traffico milanese, mentre rientrava da Vicorame, un grosso camion proveniente da Crescenzago aveva ignorato la segnaletica stradale e si era immesso centrando in pieno la Giulietta bianca di Mariella. Dai rottami della macchina, fra i sedili
accartocciati , una maglia aggrinzita mostrava i ferri infilati nelle anse dei punti.
Fu quel che vide il professore arrivando con un taxi.
Sconvolto raggiunse il palazzo di piazza San Babila dove il maggiordomo lo informò che Eugenio si rifiutava di recarsi all’obitorio dove erano stati trasportati i corpi della moglie e del figlioletto. Muto nel dolore il suo volto aveva perduto la sua aria giovanile e i capelli grigi sulle sue tempie gli sembrarono tanti, tutti. L’amico lo guardava; ma non osava parlargli. Egli stava impietrito contro un immenso vetro dell’attico che dava sulla piazza sottostante sconvolta dalle macchine. Piazza San Babila era uno scavo enorme, disseminato di cemento e di ferro, dal quale salivano fino a loro i rumori assordanti dei bulldozer e dei martelli pneumatici. Corso Vittorio Emanuele e corso Venezia apparivano per lunghi spacchi interrotti. Un ponte provvisorio univa corso Monforte a corso Matteotti.
Fra poco la città si sarebbe tinta dell’oscurità nella sera. Le fredde luci al neon non si staccavano ancora dalle pietre dei palazzi intiepidite al sole e quelle del giorno languivano in alto sulle vetrate e sull’alluminio. Gli operai dei turni di giorno alla Metropolitana dei milanesi, che si allungava lentamente nelle viscere della città, si preparavano a cedere il posto alle squadre che avrebbero portato avanti il lavoro sotto potenti riflettori.
Gli occhi di Eugenio si perdevano nel nulla.
Un giovanotto, tirato a nuovo dalla testa ai piedi, con lo spacchetto nel posteriore della giacca, i risvolti ai pantaloni e la camicia con il colo dalle punte smusse fissate da bottoncini d’avorio, misurava, in eccesso di androgeni, sul marciapiedi, il perimetro della piazza.
Si muovevano le prime avanguardie che nel buio traggono il prezzo del loro millenario mestiere.
Un domestico, nella sua giacchetta dai dischetti dorati accompagnava il cane dei padroni nell’ultima aria del giorno.
E sotto i portici, in cui sfocia la dissimmetrica Galleria del Toro, la gente passava perdendosi in un groviglio di rumori metallici nello stridente trambusto della città.
Eugenio non fissava più. Era un altro di quegli oggetti ln quella stanza che appariva smisurata. Forse le sue orecchie non percepivano più neppure il rumore. Di una ruspa che addentava con i suoi denti mostruosi la terra sracciandola; di betoniere che ruotavano torpide né quello del martello pneumatico che forava, spezzava, sbriciolava penetrando nel terreno, tra le pietre e gli oggetti che il tempo aveva spinto verso il fondo, mentre i muscoli dell’uomo che lo stringeva vibravano su di esso.
Uno degli operai sollevò ad un tratto un’anfora incrostata di terra. Attorno a lui si strinsero altri compagni di lavoro. Egli la capovolse e un pugno di polvere chiara si diffuse fra la terra scura.
Su un annoso albero, volto alla corta via Borgogna, i frutti neri , marci dell’estate tra i rami si dondolavano nell’aria nuova della primavera e tra le verdi foglie opalescenti il sole si spegneva.
Il cielo, dalla Torre Velasca ai torrioni del Castello sforzesco, era rosso nel tramonto.
E il bianco sui vertici di alcune guglie levigate del Duomo assorbiva uno sprazzo di quel rosso.
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